3 dicembre 2013

"Viviamo da tempo una forma di medioevo moderno": intervista a Miro Sassolini

Miro Sassolini, storica voce della new wave italiana, ormai da molti anni porta avanti una coraggiosa attività di contaminazione tra le arti, di cui il disco Da qui a domani (2012, Black Fading Records) costituisce l’ultimo tassello. E proprio l’ascolto di questo lavoro mi ha spinto a cercare Miro, per porgli alcune domande sul suo nuovo interessantissimo progetto, che mescola sapientemente voce, musica e poesia. Premetto che la mia intenzione è stata quella di fare un’intervista “da qui a domani”, ovvero riguardante il disco ed i progetti futuri. Inoltre, poiché il mio è un blog prevalentemente di letteratura, le domande hanno avuto ad oggetto anche questo tema.
Ringrazio di cuore Miro Sassolini per la disponibilità e la sensibilità dimostrate, nonché Monica Matticoli, senza il cui contributo questa intervista non sarebbe stata possibile. Buona lettura.
    
Domanda. Qual è il ruolo della Poesia in questo suo ultimo disco?
Risposta. La poesia ha generato una sorta di Big Bang a monte e Da qui a domani è la conseguenza di questo evento, è il frutto di quell’esplosione così come l’energia sprigionata è il combustibile per i progetti futuri. Dalla lettura del libro di Monica Matticoli e Valentina Tinacci, Venti lucenti unghie, attraverso Da qui a domani e fino al lavoro che stiamo portando avanti la poesia compone, insieme alla musica, alla voce, alla contaminazione fra generi e linguaggi, lo scenario su cui compiamo le nostre scelte artistiche e progettuali.

D. Che importanza possono avere la poesia e la letteratura nella nostra epoca, che appare così vuota di bellezza?
R. L’uomo (non il poeta) è l’unico responsabile del vuoto di bellezza nella nostra epoca perché col tempo è diventato “orrendo dentro”. Poesia e letteratura rappresentano solo una parte della bellezza perduta. Viviamo da tempo una forma di medioevo moderno ed è (di nuovo) come se la bellezza fosse solo di chi va alla guerra.   

D. Nel disco sono evidenti riferimenti colti, letterari e musicali. Cosa legge oggi Miro Sassolini? E cosa ascolta?
R. Leggo di tutto, ascolto di tutto e metabolizzo solo quello che mi serve. Nel disco i riferimenti colti sono frutto di questa selezione naturale.

D. Le librerie sono piene di opere mediocri, scritte specialmente da personaggi televisivi o diventati noti per mezzo della televisione, come calciatori, saltimbanchi e attori di modesta caratura. Lo stesso dicasi per i negozi di dischi. Cosa significa affrontare oggi in Italia un progetto musicale impegnativo e di non facile presa sulle masse come il suo? 
R. La mediocrità è un’arma secolare. L’uomo può essere eccelso o mediocre, in mezzo ci sono tutte le sfumature della sua natura, lo dice la storia. La storia ci insegna anche quanto la mediocrità sia necessaria per generare piccole e grandi rivoluzioni culturali. La mia progettualità è autentica e contemporanea: sta a me trovare soluzioni, vero; agli altri invece tocca dotarsi di recettori capaci di individuarmi, non vedo alternative e quindi non mi pongo il problema. Faccio quello che mi piace.

D. In una recente intervista, fatta ad XL de La Repubblica, lei ha fatto un riferimento preciso a Demetrio Stratos, un artista che sarebbe riduttivo definire un cantante. Anche lei, ritornato al canto dopo molte e diverse esperienze artistiche, ha in mente un progetto di ricerca sulla voce, da trattare alla stregua di uno strumento?
R. Su Stratos ho detto tutto quello che avevo da dire. Il resto è assolutamente personale, lo è sempre, ne parlo così poco... Ci tengo (ancora una volta) a dire che non ho mai lasciato il canto: un ventennio di ricerca e sperimentazione vocale può bastare. La voce è uno strumento, il più intimo e complesso. Stiamo lavorando per renderla un insieme di suoni universali.

D. Quali sono i suoi futuri progetti di artista? In particolare, sono in cantiere nuovi lavori col marchio S.M.S.?
R. Il prossimo album attraverserà la complessità dello strumento voce: sarà un lavoro antropologico, ancestrale come i suoni dei nostri antenati, evoluto nella sua forma più contemporanea. Per adesso non posso aggiungere altro ma ne riparleremo, volentieri, più avanti.

(Miro Sassolini fotografato da Angelo Gambetta - Terranuova Bracciolini - AR - 16/11/2013)

Sito ufficiale Miro Sassolini:
http://mirosassolini.wordpress.com/

La mia recensione del disco Da qui a domani.

6 novembre 2013

"Da qui a domani" di S.M.S. Miro Sassolini: un disco che scava nel profondo

S.M.S. è il nome del nuovo progetto musicale di Miro Sassolini, storica ed indimenticata voce della new wave italiana, che, dopo aver intrapreso negli ultimi anni altre e diverse esperienze artistiche, è tornato al canto, quale forma primigenia di espressione. Da qui a domani (2012, Black Fading Records) è il titolo del primo lavoro di questo collettivo, che unisce, oltre al citato Miro Sassolini, la poetessa Monica Matticoli, Cristiano Santini, Federico Bologna e Daniele Vergni. Si tratta indubbiamente di una proposta interessante, di un disco di non facile assimilazione, da ascoltare più e più volte, preferibilmente in cuffia.
Sopra un tappeto sonoro minimale, prevalentemente elettronico, si staglia la riconoscibile voce di Sassolini, che ha il merito di dare sostanza e corpo a testi di rara suggestione e poesia. Si può quindi affermare che lirismo, elettronica e interpretazione vocale costituiscono i tre capisaldi di questo lavoro, perfettamente fusi in un inestricabile intrico armonioso, tanto che nessuno dei tre elementi potrebbe brillare di luce propria. Ma forse è proprio la voce di Miro, nella sua concreta tangibilità e teatralità, a tenere le redini del discorso ed a guidare l’ascoltatore nelle pieghe del suono. Basti ascoltare Disvelo, una delle tracce più interessanti dell’album; è qui evidente che le parole e la musica sono al servizio di un’interpretazione vocale sentita, profonda ed emozionante.
Senza voler fare paragoni con altri artisti, che appaiono impropri data l’originalità di quest’opera, è tuttavia possibile rintracciare influenze colte nei testi e nella musica: dalla tradizione cantautoriale italiana, passando per la dark wave, l’elettronica e il migliore rock italiano degli anni ’90. Insomma, un disco denso di suggestioni, che dà l’idea di non essere un prodotto occasionale, destinato ad una rapida obsolescenza, ma un’opera meditata, che proprio nel non essere attuale trova il suo punto di forza. Dodici le tracce che compongono il disco, su cui svettano, per un’evidente compiuta commistione di parole, musica e interpretazione, Disvelo, Rimane addosso la veste lacerata del risveglio e Mai troppo chiuso il tempo. E proprio in quest’ultimo pezzo è contenuto il verso “averti inventata / vorrei, nel mio grembo”, che forse rappresenta il punto lirico più alto dell’album, nell’idea del sentimento dell’amore che diventa desiderio di generazione.
“Una droga per il mio cuore malato” ha scritto un anonimo utente su You Tube per definire questo lavoro, dimostrando di averne capito il senso più profondo. Questo è prima di tutto un disco d’amore, parola spesso abusata o usata impropriamente, ma che è l’unica in grado di dare luce nella notte sempiterna di questi tempi e della nostra anima. E Miro lo ha capito.
La copertina dell'album.

30 ottobre 2013

"Il disertore" di Giuseppe Dessì: un insolubile dilemma di coscienza

A Cuadu, piccolo centro dell’Iglesiente, nei giorni convulsi del Fascismo nascente, una donna che ha perduto entrambi i figli nella Grande Guerra dona tutti i suoi risparmi al comitato che si occupa dell’erezione di un monumento ai caduti. Il fatto è eclatante per due ragioni: innanzitutto perché Mariangela Eca, donna umile e povera, ha donato più dei ricchi possidenti del paese, i cosiddetti “prinzipales”; in secondo luogo perché è sempre stata lontana dalle celebrazioni patriottiche e dai clamori della “vittoria mutilata”, sempre chiusa in un silenzio impenetrabile. La ragione di tale eclatante gesto consiste nel fatto che uno dei suoi figli, Saverio, è in realtà un disertore, fuggito dalle trincee e venuto a morire nei boschi della Baddimanna, a casa. Nessuno, a parte la madre e il sacerdote Coi, è a conoscenza di questo evento. La sconsolata Mariangela, che per amore del figlio non vuole che gli altri vengano a conoscenza della diserzione, desidera con tutte le sue forze la costruzione del monumento, perché è convinta che una volta che i nomi dei figli saranno impressi sul marmo, verrà finalmente calata una pietra tombale sulla vicenda bellica e sulla sue celebrazioni. La pietra è silenzio, addirittura strumento di redenzione per Saverio, la cui triste vicenda nessuno verrà mai a sapere.
Mariangela non ha voce, si esprime solo con i gesti e con un silenzio carico di significato. È il dolore ad averla resa muta e indifferente al resto. Le sue azioni sono guidate dall’ancestrale sentimento della pietas materna, che la porta a perdonare il figlio che ha sbagliato, anzi ad amarlo di più. L’altro grande personaggio del romanzo è invece padre Coi, l’unico ad essere venuto a conoscenza della verità, sia pure nel segreto della confessione. Egli vive un terribile conflitto interiore, che contrappone il dovere di sacerdote e, prima di tutto, di cittadino, con gli obblighi morali imposti dalla pietà e dall’umana compassione.
A quest’opera è stata mossa una critica da parte di chi ha sottolineato che Dessì avrebbe curato poco il contesto ambientale e storico in cui si muovono i due personaggi principali, riducendolo a mero contorno. In verità, credo che l’autore abbia volutamente costruito la sua opera ponendo maggiore attenzione alla dimensione intima e alla vicenda tragica ma minima di Mariangela e padre Coi, accennando solamente alla contingenza storica, al nascente Fascismo, alle lotte sindacali dei minatori, ai conflitti tra “prinzipales” e socialisti. Il disertore, dunque, è il racconto di una questione privata (per usare il titolo di un celebre romanzo di Fenoglio), una storia umana di pietà e redenzione e un insolvibile dramma di coscienza.

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6 ottobre 2013

"Signora Ava" di Francesco Jovine: alle radici della Questione meridionale

La signora Ava è una ancestrale figura del folclore molisano: per indicare un’era antichissima, in cui fantasia e realtà, magia e razionalità si confondevano, si parlava appunto del “tempo della signora Ava”. Jovine scrive questo romanzo rielaborando le figure, i personaggi e le vicende che popolavano i racconti che da piccolo ascoltava intorno al fuoco, specie nel corso delle lunghe veglie invernali. Per tale ragione l’opera è dedicata alla memoria del padre, “ingenuo rapsodo di questo mondo defunto”.
Il romanzo narra la drammatica vicenda della “conquista del Sud” (per usare un’espressione coniata da Carlo Alianello) dal punto di vista dei contadini del Molise. Le due parti che lo compongono sono differenti per tematiche e stile. Nella prima l’autore molisano, che racconta la vita quotidiana di Guardialfiera alla vigilia degli eventi risorgimentali, usa un tono ironico, quasi bonario e divertito; specialmente si concentra sull’eterna lotta tra “cafoni” e “galantuomini”, ovvero tra i contadini e i nobili proprietari terrieri. La seconda parte si apre con la notizia della guerra; in breve il ritmo della narrazione diviene più concitato e il tono drammatico prende il sopravvento. L’Unità non cambia nulla: i galantuomini si inginocchiano di fronte al nuovo Re, così come facevano con il vecchio, e i contadini si vedono sempre più oppressi, umiliati e disillusi. Per molti l’unica strada percorribile sarà quella della macchia, della guerra contro i nuovi e i vecchi oppressori, accomunati dalla stessa sete di denaro, potere e privilegi.
Signora Ava è in un certo senso l’epopea delle masse contadine meridionali, un grandissimo romanzo, imprescindibile punto di partenza per la comprensione della "Questione meridionale".   
Copertina di una vecchia edizione Einaudi Scuola

18 settembre 2013

"Agostino" di Alberto Moravia: la dura iniziazione alla vita adulta

Il drammatico passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dall’età delle certezze inossidabili a quella del dubbio, viene scandito, secondo Moravia, dalla scoperta dell’erotismo, quale chiave necessaria per acquisire una maggiore consapevolezza di sé e degli altri. Agostino è un tredicenne di estrazione borghese, che nel corso di una sola estate vede crollare tutte le convinzioni che sino a quel momento avevano sorretto la sua giovane esistenza. Ragazzino introverso e impacciato, che nutre una vera e propria venerazione per l’avvenente madre, si reca con quest’ultima in una località marina per trascorrervi un periodo di villeggiatura.
Qui incontra per caso un gruppo di ragazzacci volgari e violenti, che lo attirano irresistibilmente con il loro modo sconcio di fare e di parlare. L’incontro con questa masnada lo trasforma irreversibilmente: prima con una serie di esplicite allusioni riferite alla madre, e poi a seguito dell’incontro col pederasta Saro, Agostino viene a conoscenza, seppur in maniera vaga e indistinta, della dimensione dell’erotismo, che ne turba l’equilibrio e lo sconvolge. Il primo cambiamento che tale scoperta provoca in lui è nei rapporti con la madre, che per la prima volta inizia a vedere maliziosamente come donna dotata di una propria sensualità, e non più solo in modo tenero e innocente. Il secondo cambiamento è forse ancora più profondo: da ragazzo impacciato, candido ed educato, Agostino cerca di diventare simile ai suoi nuovi compagni di giochi, da cui è diversissimo prima di tutto per estrazione sociale.
In questo romanzo di formazione, però, la crescita del protagonista non è completa, in quanto la trasformazione è così improvvisa e subitanea che egli alla fine rimane in una sorta di limbo: non è più il bambino di un tempo e neppure un uomo, non si riconosce più nei coetanei di buona famiglia che frequentava prima, ma al tempo stesso non è divenuto un ragazzo di strada. La sua completa maturazione, come Moravia lascia intuire, si compirà soltanto nel momento in cui sarà in grado di liberarsi dei lacci imposti dalla morale borghese, percorso lungo e infelice. 
Questo romanzo condivide, assieme ad altri dello stesso genere (su tutti, Estate al lago di Alberto Vigevani), la tematica della scoperta dell’erotismo quale doloroso momento di iniziazione alla vita adulta; a differenza di altre opere, però, in Agostino tale rivelazione diventa ancora più amara e incomprensibile, per le connotazioni edipiche che essa viene ad assumere. Opera breve pregevolissima per stile, ritmo e ambientazione. Da leggere senza esitazioni.

3 luglio 2013

"Storia politica della Grande Guerra" di Piero Melograni: conoscere per non ripetere gli orrori del passato

L’opera, la cui prima edizione risale al 1969, si propone di indagare gli aspetti politico-sociali della Grande Guerra, con specifico riferimento alla situazione italiana negli anni 1915-1918. Nonostante sia trascorso quasi mezzo secolo dalla sua pubblicazione, rimane una delle più complete sul tema.
Piero Melograni si è servito di un’ampissima bibliografia, specie di autori che hanno combattuto sul fronte, in modo da ricostruire con la maggiore precisione possibile le vicende, gli umori e le atmosfere di quei tragici anni. Viene così lasciato grande spazio alle parole di chi ha vissuto la guerra, di cui vengono riportati stralci di diari, articoli di giornale, lettere private e scritti polemici. A differenza di altre opere incentrate sul conflitto, in questa non vengono quasi mai riportate le parole dei fanti-contadini, ma quelle degli alti ufficiali dello Stato Maggiore, degli uomini politici (Boselli, Orlando, Salandra), dei giornalisti (il giovane Mussolini), di scrittori e intellettuali. Tale scelta è dovuta alla precisa volontà dell’autore di fornire una ricostruzione non meramente quotidiana delle vicende, privilegiando invece tutti quegli aspetti sociali, politici e giuridici che solo il ceto intellettualmente più preparato del Paese era in grado di cogliere. Questo non significa affatto che l’opera non si dilunghi ad analizzare anche gli aspetti della vita giornaliera della grande massa dei fanti-contadini, ma solo che vengono approfonditi specialmente altri temi, quali i rapporti tra Governo e Stato maggiore, le vicende politiche del Paese in guerra, il ruolo dei cattolici e dei socialisti, la funzione della propaganda e del clero. Grande spazio viene poi lasciato ad una questione solo apparentemente secondaria: la frattura che si determinò negli anni del conflitto tra contadini e operai, i primi spediti in trincea ed i secondi “imboscati” nelle retrovie, favoriti perché in possesso di nozioni tecniche. Secondo Melograni questo fu uno dei principali effetti “politici” della Grande Guerra, in quanto impedì l’affermarsi in Italia di una rivoluzione di tipo socialista, stante l’astio che si determinò tra le due classi, in particolare dei contadini nei confronti degli operai.
L’opera, inoltre, attraverso pagine che brillano per esemplare chiarezza divulgativa, offre un esaustivo resoconto delle vicende militari e delle principali battaglie del fronte italiano: le offensive dell’Isonzo, la disfatta di Caporetto e l’epilogo di Vittorio Veneto.
Il libro si conclude con una breve ma interessante analisi sulle conseguenze che il conflitto ha determinato nella società italiana: ad avviso dell’Autore, esso spalancò le porte all’avvento del Fascismo. La classe media, che aveva costituito l’ossatura dello Stato liberale, uscì distrutta dalla guerra, che viceversa rafforzò gli industriali e finanche le grandi masse operaie e, in minor parte, contadine, chiamate per la prima volta nella loro storia a svolgere un ruolo che le riscattò da un secolare signoraggio. E fu proprio quell’umanità nuova forgiata dalla guerra che scivolerà, lentamente ma inesorabilmente, verso i nuovi orrori delle ideologie totalitarie.

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15 maggio 2013

"Vogliamo tutto" di Nanni Balestrini: gli anni dell'utopia

Il 1969 è stato un anno decisivo per la storia italiana, costellato di scontri e lotte sociali, conclusosi tragicamente con la Strage di Piazza Fontana, che ha dato inizio a quel periodo efficacemente definito “la notte della Repubblica”. Nel mese di aprile scoppia la sanguinosa rivolta di Battipaglia, a luglio è Torino a bruciare negli scontri tra operai FIAT e polizia; in breve, il fuoco di protesta divampa in tutto il Paese, tanto che la parte finale dell’anno passerà alla storia come “l’Autunno caldo”.
In questo clima esasperato di lotta di classe si muove il protagonista del romanzo, un giovane operaio meridionale che si è trasferito al Nord per inseguire il miraggio del posto fisso e del guadagno. In breve, però, egli si rende conto di come il lavoro sia sfruttamento del povero da parte del ricco. Sebbene sia del tutto digiuno di ideologie, egli scopre quale terribile verità si nasconde dietro l’emigrazione di massa: il sottosviluppo del Meridione è voluto e programmato, in quanto condizione indispensabile per lo sviluppo del Nord, che non potrebbe esistere senza lo sfruttamento di masse enormi di operai emigrati, malpagati, dequalificati, alienati dai ritmi della produzione e costretti a vivere in tuguri malsani. Il crescere della rabbia e della frustrazione va di pari passo con la formazione di una coscienza di classe, nonché con l’acquisizione della consapevolezza che la lotta va combattuta al di fuori dei circuiti democratici rappresentati dai sindacati, dalle contrattazioni collettive, dagli scioperi. L’impossibilità di convogliare la rabbia entro canali convenzionali e pacifici, dovuta anche alla netta chiusura dei “padroni” e del Governo, porta allo sbocco inevitabile della violenza e della rivoluzione; il libro, infatti, si conclude con una vivida descrizione degli scontri di Corso Traiano del 3 luglio 1969.
"Vogliamo tutto” era lo slogan che gli operai e gli studenti gridavano nelle piazze, quando ormai la lotta per il lavoro si era trasformata in lotta contro il lavoro, contro i suoi ritmi inumani e le paghe da fame. Balestrini descrive tutta la parabola del conflitto, dai suoi timidi segnali fino al definitivo inasprimento, che tante conseguenze luttuose porterà nel Paese. Ed è così che egli giunge ad un’amara ed estrema conclusione: “non c'è lavoro che va bene è proprio il lavoro che è schifoso. Qua oggi se vogliamo migliorare non dobbiamo migliorare lavorando di più. Ma lottando e non lavorando più solo così possiamo migliorare”.
Una breve notazione va fatta in ordine allo stile, premettendo che Balestrini ha fatto parte di quella corrente di avanguardia definita “Gruppo 63”. Come è evidente dalle poche righe citate, l’autore rompe gli schemi tradizionali del linguaggio scritto, ripudia la virgola e più in generale la punteggiatura, al punto da far assumere all’opera l’immediatezza e la vitalità della lingua parlata. Un romanzo duro, scomodo, di impegno civile, che va letto perché travalica gli anni e si pone ineludibilmente come testimonianza storica.

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15 marzo 2013

"Jacob Von Gunten" di Robert Walser: a lezione di servitù

“Ma una cosa so di certo: nella mia vita futura sarò un magnifico zero, rotondo come una palla”. Questa è la profezia del giovane Jakob, allievo dell’Istituto Benjamenta, una scuola per ragazzi che insegna ad essere dei servitori perfetti. Walser costruisce con questo romanzo (1909) un magnifico paradosso: mentre le scuole tradizionali, impartendo una pluralità di nozioni, insegnano come avere successo nella vita, l’Istituto Benjamenta imprime nei discenti le doti dell’umiltà e dell’ubbidienza, riducendoli di fatto a veri e propri zeri.
La scuola viene solitamente intesa come un’istituzione volta a formare e modellare la personalità individuale, per farla crescere e sviluppare in autonomia; Jakob von Gunten, invece, si trova in un istituto misterioso e guidato da fini imperscrutabili, in cui vengono impartite insulse e ripetitive lezioni che annullano l’individuo, ne azzerano peculiarità e senso critico, rendendolo un servo.      
L’Istituto Benjamenta, dove si svolge interamente questo originalissimo romanzo, è un’istituzione totale, al pari di un carcere o di un manicomio, cui viene talvolta paragonato dagli stessi personaggi. Nei bui corridoi dell’edificio, nelle misere stanzette e nelle sterminate aule di lezione si consuma la giovinezza di Jakob e degli altri allievi. L’Istituto è retto da una miriade di regolamenti, che i discenti non possono in nessun caso infrangere; questa vita da caserma, governata da regole imperative e indiscutibili, finisce per minare la loro libertà di autodeterminazione, fino ad annichilirne la personalità. Ad avviso di Walser, tuttavia, essere delle nullità non significa essere destinati ad una vita di infelicità, anzi, egli ritiene che proprio nell’uomo più meschino sia più evidente l’impronta del Creatore. Il servo, infatti, ha delle certezze inossidabili: egli è un nulla, al pari di un oggetto, in quanto esiste solo nella misura in cui può essere utilizzato. In questo senso, l’obiettivo ultimo che si pone la scuola Benjamenta non è affatto spregevole, anzi è il più alto che si possa immaginare: trasformare i propri allievi in zeri, ovvero in opere divine. Questo, in poche parole, il senso (se si può parlare di un senso) del magnifico paradosso di Walser.
Jakob, il protagonista del romanzo, è l’ultimo ad uscire dall’Istituto; con lui la scuola riesce a modellare una creatura perfetta. E così, senza dubbi o paure, egli potrà infine affermare, quasi con un senso liberatorio: “E se io andrò in pezzi o in malora, che cosa si romperà, che cosa si perderà? Uno zero. Io, come singolo individuo, sono uno zero”.
Jakob von Gunten è un romanzo originale, impossibile da ricondurre entro schemi predefiniti. Fu amatissimo da Franz Kafka e Walter Benjamin: credo che questo possa essere sufficiente per consigliarne la lettura.
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21 gennaio 2013

"Il sangue del Sud" di Giordano Bruno Guerri: una storia negletta

La complessa vicenda storica nota con il nome di Risorgimento è stata oggetto, nel corso del secolo e mezzo di storia unitaria, di valutazioni diverse, spesso contrastanti. Ai toni agiografici e celebrativi dei primi anni, rafforzati dal ventennio fascista che considerò il Risorgimento un totem di cui era vietato parlar male, sono poi succedute opinioni critiche, tese a negare la presunta inferiorità del Sud e soprattutto ad evidenziare le storture ed i soprusi commessi dai Piemontesi invasori. Negli ultimi anni la corrente di pensiero meridionalista sta vivendo un’inaspettata reviviscenza, grazie soprattutto alla pubblicazione di opere, destinate non più solamente ad una ristretta cerchia di studiosi, che portano a conoscenza di molti una serie di vicende spesso neglette. In questa corrente “neomeridionalista” o, comunque, revisionista, si colloca l’opera di Guerri. L’autore ritiene che l’Unità sia stata un processo storico inevitabile, da compiersi necessariamente; tuttavia, erronee sono state le modalità attraverso le quali è stata realizzata. Il processo unitario si è nei fatti tradotto nell’espansione di uno Stato, il Piemonte, a discapito delle legittime pretese di altre popolazioni, quelle del Meridione in particolare. Guerri condivide le tesi di coloro che, come Zitara o Alianello, hanno definito l’Unità quale nascita di una colonia. L’autore di questo saggio si spinge oltre, non esitando a qualificare “guerra civile” quella che impropriamente era stata definita “lotta al brigantaggio”, espressione volta a negare qualsivoglia riconoscimento ufficiale a coloro che combatterono per la libertà della propria terra. Questi ultimi, delegittimati dai vincitori, vennero marchiati come briganti.
Guerri, che non esita a parlare di genocidio quando descrive le stragi perpetrate dai Piemontesi, è accurato specialmente nell’analizzare la genesi sociale del c.d. brigantaggio, da lui inteso come  la ribellione di quanti, soprattutto contadini, avevano sperato in un miglioramento della propria condizione, ma che di fatto si erano ritrovati più servi di prima.
Sono pagine dense di eventi e personaggi, scritte con uno stile lineare, adatto alla divulgazione. Il merito dell’opera è certamente la completezza, anche se spesso l’autore si avvale di schematismi al fine di riassumere in poche pagine vicende complesse. Il lettore ignaro della “vera” storia dell’unificazione troverà tutto quello di cui ha bisogno per farsi un’idea: la descrizione del contesto storico, le figure dei principali “briganti”, le manovre politiche, il rapporto Chiesa-Borbone, le stragi, le fucilazioni sommarie, l’infame legge Pica, gli inganni e le bugie. Per chi conosce già bene le vicende narrate ed i capisaldi del pensiero meridionalista, si tratterà invece di un utile ripasso.

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2 gennaio 2013

"Tutti giù per terra" di Giuseppe Culicchia: produci, consuma, crepa

Il talento di Giuseppe Culicchia venne scoperto dal grande Pier Vittorio Tondelli, che proprio agli scrittori giovanissimi dedicò il suo ambizioso progetto “Under 25”. L’incontro con Tondelli è raccontato in questo romanzo autobiografico, che ha rappresentato l’esordio letterario di Culicchia.    
L’opera narra le vicende di Walter, giovane irrequieto e insoddisfatto che nei primi anni Novanta vive il drammatico passaggio dalla scuola al mondo del lavoro. Sono anni di profonde trasformazioni storiche e sociali: il muro di Berlino è caduto e con esso il sistema alternativo di ideali che esso rappresentava, mentre in Occidente inizia ad affacciarsi un’altra terribile crisi, quella del capitalismo, che mostrerà la vacuità del sogno degli anni del boom economico e si trascinerà, con sempre maggiore drammaticità, fino ai giorni nostri. Proprio per questa ragione consiglio di leggere questo romanzo, perché racconta esperienze, quali il lavoro nero, l’emigrazione, la precarietà economica e affettiva, il crollo degli ideali, che sono quanto mai attuali. Si potrebbe anzi dire che Culicchia, raccontando il proprio presente, abbia in qualche modo anticipato il futuro. Il protagonista del romanzo rimane così impresso nella mente del lettore contemporaneo, specie se giovane e assillato dall’incubo della precarietà. Walter non è infatti figlio dei gommosi anni Ottanta, né dei sogni rivoluzionari del ’68; egli è il reduce della guerra scatenata da chi lo ha preceduto, minacciato dai mostri del capitalismo, del debito e del consumismo. La famiglia e il luogo di lavoro rappresentano il suo fronte, la scrittura e l’agognato amore l’impossibile riscatto.
La sua ribellione all’asservimento dei mezzi di comunicazione di massa ed alla massificazione imperante è però destinata a fallire. Alla fine anche lui, senza nemmeno capire come, si troverà rinchiuso in quella gabbia da cui aveva cercato eroicamente di sfuggire.
“Produci-consuma-crepa” cantavano più o meno in quegli anni i compianti CCCP di Giovanni Lindo Ferretti. Sarebbe questa la giusta colonna sonora del romanzo, che non esiterei a definire punk fin nel midollo.