15 maggio 2013

"Vogliamo tutto" di Nanni Balestrini: gli anni dell'utopia

Il 1969 è stato un anno decisivo per la storia italiana, costellato di scontri e lotte sociali, conclusosi tragicamente con la Strage di Piazza Fontana, che ha dato inizio a quel periodo efficacemente definito “la notte della Repubblica”. Nel mese di aprile scoppia la sanguinosa rivolta di Battipaglia, a luglio è Torino a bruciare negli scontri tra operai FIAT e polizia; in breve, il fuoco di protesta divampa in tutto il Paese, tanto che la parte finale dell’anno passerà alla storia come “l’Autunno caldo”.
In questo clima esasperato di lotta di classe si muove il protagonista del romanzo, un giovane operaio meridionale che si è trasferito al Nord per inseguire il miraggio del posto fisso e del guadagno. In breve, però, egli si rende conto di come il lavoro sia sfruttamento del povero da parte del ricco. Sebbene sia del tutto digiuno di ideologie, egli scopre quale terribile verità si nasconde dietro l’emigrazione di massa: il sottosviluppo del Meridione è voluto e programmato, in quanto condizione indispensabile per lo sviluppo del Nord, che non potrebbe esistere senza lo sfruttamento di masse enormi di operai emigrati, malpagati, dequalificati, alienati dai ritmi della produzione e costretti a vivere in tuguri malsani. Il crescere della rabbia e della frustrazione va di pari passo con la formazione di una coscienza di classe, nonché con l’acquisizione della consapevolezza che la lotta va combattuta al di fuori dei circuiti democratici rappresentati dai sindacati, dalle contrattazioni collettive, dagli scioperi. L’impossibilità di convogliare la rabbia entro canali convenzionali e pacifici, dovuta anche alla netta chiusura dei “padroni” e del Governo, porta allo sbocco inevitabile della violenza e della rivoluzione; il libro, infatti, si conclude con una vivida descrizione degli scontri di Corso Traiano del 3 luglio 1969.
"Vogliamo tutto” era lo slogan che gli operai e gli studenti gridavano nelle piazze, quando ormai la lotta per il lavoro si era trasformata in lotta contro il lavoro, contro i suoi ritmi inumani e le paghe da fame. Balestrini descrive tutta la parabola del conflitto, dai suoi timidi segnali fino al definitivo inasprimento, che tante conseguenze luttuose porterà nel Paese. Ed è così che egli giunge ad un’amara ed estrema conclusione: “non c'è lavoro che va bene è proprio il lavoro che è schifoso. Qua oggi se vogliamo migliorare non dobbiamo migliorare lavorando di più. Ma lottando e non lavorando più solo così possiamo migliorare”.
Una breve notazione va fatta in ordine allo stile, premettendo che Balestrini ha fatto parte di quella corrente di avanguardia definita “Gruppo 63”. Come è evidente dalle poche righe citate, l’autore rompe gli schemi tradizionali del linguaggio scritto, ripudia la virgola e più in generale la punteggiatura, al punto da far assumere all’opera l’immediatezza e la vitalità della lingua parlata. Un romanzo duro, scomodo, di impegno civile, che va letto perché travalica gli anni e si pone ineludibilmente come testimonianza storica.

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