24 aprile 2014

"Tira ovunque un'aria sconsolata": intervista a Massimo Zamboni

Storico chitarrista dei CCCP/CSI, autore di colonne sonore e di sei album da solista, nonché scrittore, Massimo Zamboni è uno dei personaggi più interessanti del panorama musicale (e non solo) italiano, se non altro per lo sguardo non conforme con cui guarda le cose. Presto in tour assieme a Fatur con lo spettacolo Tira ovunque un’aria sconsolata (di cui allego locandina e presentazione), è stato così gentile da rilasciarmi una breve intervista.

Domanda. Lei è un artista eclettico, scrittore oltre che musicista. Qual è il suo rapporto con la letteratura? Quali sono le sue letture abituali?
Risposta. Ora sono sotto un incantesimo che si chiama Anna Maria Ortese. Per una concordanza di sentire che mi lascia sempre sbigottito. Se volete leggere qualcosa, un suo piccolo libro edito da Adelphi: Corpo Celeste. Quest'anno cade il centenario della sua nascita, qualcuno se ne ricorderà?

D. L’Emilia, Berlino, Mostar, la Mongolia, l’Artide. La sua vicenda umana e professionale sembra fatta di un intersecarsi di strade, percorsi e chilometri. Il viaggio è solo fonte di ispirazione, oppure è ricerca continua di nuovi linguaggi?
R. Il viaggio è linguaggio di per sé, alfabeto rinnovato se non si accontenta del mero consumo o della  conta dei chilometri. La Mongolia mi ha letteralmente reinsegnato la parola, Berlino me l'ha donata, Mostar l'ha tolta e poi ridata.

D. Ancora conservo il ritaglio della rivista Musica!, quando i Csi annunciarono il loro scioglimento. Il titolo era: “Csi addio, travolti da troppo successo”. Per me fu una rivelazione e un grande insegnamento: mai avevo creduto si potesse “morire” di successo. Qual è il pericolo insito nella fama?
R. Uno solo: l'isolamento. Essere altro da tutti, e anche da sé. E divenire “altro” anche per quelli con cui condividi l'esperienza. Un meccanismo da animale soddisfatto e insaziato che oggi mi disgusta.

D. Dopo sessant'anni di ideologia e ortodossia, ci dicono che siamo in un’epoca post-ideologica, dove i vecchi canoni non valgono più e non c’è nulla in cui valga la pena di credere. E’ proprio così, oppure è il sistema, che dopo aver avuto bisogno di un’umanità schierata, ora ci vuole tutti conformi, inglobati in un pensiero unico?
R. Decisamente così. Non conosco questo “sistema” di nome e di cognome, lo vedo in faccia però, e non va ascoltato, nelle buone o nelle cattive ragioni che porta con sé. A tutto vale la pena di credere, non solo le vecchie parole consunte, ma anche l'alzarsi la mattina e il trascorrere del giorno.

D. Da sempre ho cercato di dare una definizione al “chitarrista Zamboni”, senza riuscirci. Per me, lei è semplicemente “il suono” dei Cccp/Csi, come entità separata rispetto ai testi e all’ideologia. Che definizione darebbe di se stesso come musicista?
R. Mah, non mi sono mai sentito tale, non saprei: leggo cose che mi riguardano e penso che parlino di qualcun altro, poi a volte mi ricollego con questa immagine cui fatico a corrispondere. Una definizione? “Passavo di lì, ho cercato di dare il meglio che potevo.”

D. Quali sono i suoi progetti futuri? In particolare, in cosa consiste lo spettacolo Tira ovunque un’aria sconsolata, assieme a Fatur?
R. Un viaggio nell'Italia sconsolata, senza cronache o incitamenti. Uno spettacolo omeopatico, dove al disastro attuale cerchiamo di rispondere accentuandolo.

Massimo Zamboni
TIRA OVUNQUE UN'ARIA SCONSOLATA (Grand tour in little Italy)

Un Grand Tour nella piccola italia che va in rovina e che necessita di essere vista e raccontata per gli increduli che verranno dopo di noi. Musica per i tempi nuovi, dove si canta la sfinita bellezza del nostro Paese per una parte della sua gente. Impresa quasi disperante, nell'ora della nostra serafica demolizione. Come intellettuali dei secoli passati, in viaggio di istruzione lungo il nostro Paese andiamo a respirare l'aria che tira per incontrare tutto quello che la televisione mostra, detratti i sorrisi e le menzogne. L'esistenzialismo elettrico di MZ, accompagnato dalla mole augusta di Danilo Fatur, “artista del popolo” di CCCP-Fedeli alla linea, e dalle sonorità di Cristiano Roversi in uno spettacolo di buskerismo estremo, in cui muoversi come si fosse in strada, stazione o angolo desolato, tra rottami e rifiuti, involti di plastica, cartelli strappacuore. Il set di un dramma collettivo dove si elemosinano parole e canzoni. Sono di rigore le monetine.

15 aprile 2014

Recensioni: "La letteratura fantastica" di Todorov e "La pietra lunare" di Landolfi

Riporto due mie recensioni sul romanzo fantastico, già apparse su Sololibri.net.
  
Tzvetan Todorov – La letteratura fantastica
Nel 1970 il critico e filologo bulgaro Tzvetan Todorov diede alle stampe questo saggio, vero e proprio punto di riferimento per ogni studioso di letteratura fantastica.
Secondo l’autore, il racconto fantastico, per esistere, ha bisogno che siano soddisfatte tre condizioni: il lettore deve considerare i personaggi come persone viventi ed esitare tra una spiegazione naturale e una soprannaturale; anche i personaggi possono provare la stessa esitazione; il lettore deve rifiutare sia l’interpretazione allegorica che quella poetica.
Il fantastico nasce quando in un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo, si verifica un avvenimento che non è possibile spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l’avvenimento può optare per due soluzioni: o si tratta di un’illusione dei sensi (e allora le leggi del mondo permangono le stesse), oppure l’avvenimento è realmente accaduto (allora la realtà è governata da leggi a noi ignote). Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza; è dunque l’esitazione provata da un essere, il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte ad un avvenimento apparentemente sovrannaturale.
Esistono dunque fenomeni strani che si possono spiegare in due modi: la possibilità di esitare fra le due spiegazioni (naturale e non) crea l’effetto fantastico. Tutti i principali autori di racconti fantastici credono, secondo Todorov, che siano possibili avvenimenti di due ordini diversi; qualcuno (il lettore o il personaggio) deve scegliere tra il mistero, l’inesplicabile e “l’inalterabile legalità quotidiana”.
L’autore pensa che la formula del fantastico sia riassunta in una frase del Manoscritto trovato a Saragozza del polacco Potocky, quando il protagonista, catapultato in una serie di eventi inspiegabili, riferisce: “Arrivai quasi a credere”. È il quasi che determina il fantastico, il permanere dell’incertezza. Nel racconto fantastico è innanzitutto il protagonista a dubitare.
Todorov spiega altresì che il racconto fantastico si pone ad un livello particolare di interpretazione del testo, che non è né allegorico, né poetico. Dell’allegoria fanno parte le fiabe, che contengono elementi sovrannaturali senza che il lettore si interroghi mai sulla loro natura: se parlano gli animali non ci coglie alcun dubbio, sapendo che ci troviamo ad un livello del testo detto allegorico. L’interpretazione poetica non è fantastica, perché alla poesia non si chiede di essere rappresentativa della realtà, non si cerca di andare al di là delle parole. Il fantastico, dunque, implica una maniera di leggere particolare, che può essere definita solo negativamente: una lettura né allegorica né poetica. Todorov conclude la sua definizione del fantastico spiegandone lo scopo, che è conoscitivo: “al di là del piacere, della curiosità e di tutte le emozioni che suscitano questi racconti lo scopo reale del viaggio meraviglioso e fantastico è l’esplorazione più completa della realtà universale”. 
Tommaso Landolfi – La pietra lunare
Romanzo a metà strada tra il fantastico e il surreale, pubblicato nel 1939, narra la singolare avventura di Giovancarlo, che, tornato al paese natale per le vacanze estive, incontra una strana ma sensuale ragazza di nome Gurù, che in alcune notti dell’anno si trasforma in capra (è una capra-mannara, come tiene a precisare il narratore). La relazione tra i due si trasforma in un’intensa storia d’amore, che svelerà agli occhi del giovane l’altra faccia del reale, quella che si nasconde dietro l’apparenza delle cose. Durante un memorabile sabba notturno in una radura nel bosco, egli avrà modo di assistere alla trasformazione della ragazza e di conoscere personaggi spettrali e mitici, usciti dal mondo onirico dell’inconscio.
Le bizzarrie fantastiche di Landolfi possono essere associate alla dimensione del “fantastico quotidiano”, secondo la definizione di Calvino, poiché non portano ad un altro mondo, ma sono il risultato della quotidianità, esprimendone il risvolto magico. Dietro l’apparente razionalità del nostro mondo, specie quello bieco della provincia addormentata, si nasconde un lato misterioso e spesso ineffabile. É così possibile cogliere il significato del sottotitolo del romanzo, “Scene della vita di provincia”, un sottotitolo realistico, che vuole mostrare il rapporto stretto tra realtà e fantastico. Secondo Landolfi, l’assurdo è “il regolare stravolgimento della normalità”, perché in esso si combinano due elementi contrari: il quotidiano svolgersi della vita e un mondo “altro”, che emerge dal primo senza alcuna apparente frattura. Come evidenziato dal critico Russi, tre sono le componenti del fantastico landolfiano: il retaggio dei racconti popolari e dei miti contadini, la corrente del c.d. realismo magico e l’influenza del pensiero freudiano.
Interessantissima appare la postilla dell’opera, un immaginario “Giudizio del Sig. Giacomo Leopardi sulla presente opera”. È qui contenuta la summa del pensiero landolfiano: “un uomo tanto meno sarà grande quanto più sarà dominato dalla ragione; tutti quelli che possono esser grandi nella poesia e nelle lettere devono esser dominati dalle illusioni. (...) Mentre l’uomo si allontana da quella puerizia in cui tutto è singolare e meraviglioso, in cui l’immaginazione sembra non abbia confini, allora l’uomo perde la capacità di esser sedotto, diventa artificioso, cade tra le branchie della ragione che gli va a ricercare tutti i segreti della realtà. Ma questo senno e questa esperienza sono la morte della poesia”.
La metamorfosi è l’altro grande tema del romanzo, la metafora più nitida per esprimere il trasformarsi continuo della realtà nell’irrealtà ad essa sottesa. Non è solo Gurù a cambiare (da donna a capra-mannara), ma è lo stesso Giovancarlo che muta profondamente visione del mondo, sino ad aderire intimamente alla profonda e volubile realtà della vita e delle cose.

9 aprile 2014

La lezione di Thomas Sankara contro il colonialismo culturale

L’omologazione del linguaggio e dei costumi è uno dei pericoli maggiori che minacciano le culture storiche. Veniamo quotidianamente bombardati da annunci entusiastici che ci dicono che il mondo è sempre più piccolo, che ogni distanza può essere colmata o annullata. Il merito di questo risultato, sulla cui utilità nessuno può obiettare, è tutto dei mezzi di comunicazione di massa. Il rovescio della medaglia, però, è rappresentato dalla globalizzazione del pensiero, dall’affermazione di un sentire unico, che è quello dominante ma non necessariamente il migliore. La posta in gioco è molto alta: è a rischio il concetto stesso di diversità culturale, in un sistema che ci vuole tutti uniformi nei gusti e negli orientamenti. La prevedibilità del pensiero diventa prevedibilità e orientabilità delle scelte, specie quelle del consumatore, il tutto a vantaggio delle multinazionali e delle grandi distribuzioni. Il linguaggio risente di questo processo, per cui, oltre ad impoverirsi, viene letteralmente violentato dall’abuso di espressioni straniere, spesso e volentieri anglosassoni, che ci sembra possano esprimere al meglio nozioni e concetti che, per la verità, sono stati da sempre definiti facendo riferimento alla lingua madre. Ecco che un fuorigioco diventa un “offside”, uno studio legale una “law firm” e un piano per il rilancio dell’occupazione si trasforma in “job act”. Molti di quelli che usano siffatte (e altre) espressioni lo fanno per sembrare più alla moda, o forse per dare apparenza di sostanza a discorsi vacui e fumosi.
A tutti questi, consiglio di ascoltare (è disponibile su YouTube) il famoso “discorso sul debito” che il Presidente del Burkina Faso, Thomas Sankara, fece ad Addis Abeba nel luglio del 1987, di fronte ai rappresentanti dell’Organizzazione dell’Unione Africana e agli osservatori europei. In sintesi, il giovane Presidente dalla voce limpida e dal sorriso sincero, che di lì a pochi mesi sarebbe stato assassinato, secondo alcuni proprio per l’eco suscitata da quel discorso, invitava gli Stati africani a non pagare il debito pubblico, perché essi non ne sono responsabili. Il debito è stato prodotto dai Paesi sviluppati e dalla loro politica coloniale e neocoloniale; per tale ragione, chi ha prodotto tali dannose conseguenze non può chiedere a chi le subisce di rimediarvi: “se noi paghiamo, moriremo; se non paghiamo, gli altri non moriranno”.
Eppure, non è questo l’aspetto su cui vorrei soffermarmi, che pure richiederebbe un’analisi approfondita. Mi interessa, invece, porre l’accento su quello che Sankara dice alla fine di quei sedici memorabili minuti, quando, con parole semplici e un esempio pratico di immediata comprensione, fa la più bella e commovente apologia della difesa della propria cultura e del non conformismo. Indicando la sua giacca, Sankara spiega che tutto il filato usato per produrla proviene dal suo Paese e che è stato tessuto da manodopera burkinabè. Non un solo filo deve provenire dall’Europa, perché l’autoproduzione è il primo passo verso l’emancipazione economica e culturale. Detto questo, a chiusura del suo intervento, il giovane primo ministro conclude così: “dobbiamo vivere africano. È il solo modo di vivere liberi e degni”. Ritengo che questo sia un grande insegnamento morale, valevole per tutti i popoli ed a tutte le latitudini, specialmente oggi, a quasi  trent’anni da quel discorso. “Vivere africano” è la metafora del vivere secondo la propria cultura, senza farsi sopraffare da quei modelli importati, quasi tutti di origine nordamericana, che pretendono di imporre un’unica e manichea visione del mondo. I modelli che ci sono stati imposti, sul presupposto di una presunta superiorità, sono spesso risultati deleteri, nel mondo del lavoro, della scuola e dell’università. Oggigiorno, ascoltare le parole di molti professionisti rampanti o politici di nuova e vecchia  generazione è diventata una triste assuefazione ad un vomito incolore, che il più delle volte serve a nascondere l’imbarazzo del non sapere cosa dire. La sopraffazione culturale è l’arma più potente usata dai colonizzatori; dietro quelle parole che ci possono sembrare più vicine alla sensibilità moderna, si nasconde spesso la volontà di assuefare le coscienze e di annullare il pensiero. Questo Sankara lo sapeva bene, lui che non aveva esitato a mutare il nome del proprio Paese da Alto Volta (denominazione meramente geografica imposta dai colonizzatori) in Burkina Faso, che è un’espressione bellissima, perché significa “il Paese degli uomini integri”. E uomo integro è innanzi tutto colui il quale è in grado di mantenere e difendere il proprio linguaggio e la cultura di appartenenza. La colonizzazione è diabolica perché mira, come fine ultimo, a privare gli assoggettati della propria cultura. La destrutturazione della personalità e la disgregazione dell’individuo si realizzano con il pensiero unico, senza necessità di catene. Eppure, più ancora delle catene sono in grado di assoggettare i popoli.
Thomas Sankara ci insegnava che non dobbiamo farci fottere. La sua lezione di “uomo integro” contiene al tempo stesso un avvertimento e una raccomandazione. L’avvertimento è che la dominazione culturale è l’arma più potente e subdola, perché ottunde le coscienze generando pericolosi desideri di emulazione; la raccomandazione è quella di decolonizzare la nostra mentalità, per vivere finalmente da uomini liberi e degni.
Il Presidente del Burkina Faso, Sankara (1949-1987)