9 giugno 2014

"In culo al mondo" di Antonio Lobo Antunes: un contemporaneo cuore di tenebra

Il colonialismo ha rappresentato una delle pagine più vergognose della storia europea, al punto da essere, come sostenuto da molti, una delle concause del sottosviluppo economico del continente africano. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento ha inizio la lunga stagione dell’indipendenza politica, sebbene le potenze europee non abbiano mai rinunciato del tutto ad un controllo delle ex colonie, specialmente per finalità di sfruttamento economico. Uno dei Paesi che più pervicacemente ha difeso quel che restava del suo impero è stato il Portogallo salazarista, impegnato dal 1961 al 1974 in un’estenuante e sanguinosa guerra in Angola, per molti versi simile a quella combattuta dagli Americani in Vietnam.
Del conflitto di liberazione angolana si è parlato poco, per lo meno al di fuori del Portogallo, forse per la marginalità del Paese lusitano nel contesto continentale. Eppure In culo al mondo, dello scrittore-medico Antonio Lobo Antunes, è un’opera di somma importanza, che andrebbe letta per la sua valenza universale, che trascende le vicende storiche contingenti, e per la capacità di elevarsi a simbolo di un’epoca nefasta, a paradigma del dolore e della crudeltà umana.
Si tratta di un romanzo di forte impronta autobiografica. Protagonista è un ex ufficiale medico dell’esercito portoghese, che narra la sua spaventosa esperienza al fronte ad una donna conosciuta in un bar di Lisbona, senza nasconderle dettagli scabrosi e particolari ripugnanti. Spedito in Angola subito dopo la laurea, egli in poco tempo comprende come la retorica patriottica inculcata all’accademia non abbia nulla a che vedere con la realtà. Pochi giorni sono sufficienti per abbandonare gli agi e gli usi della vita civile, per trovarsi catapultato in un inferno che non ha alcunché di eroico o di letterario. Il libro è un lungo, avvolgente monologo, scandito da un linguaggio duro e senza sconti, in cui le descrizioni crude si alternano alle riflessioni sulla politica, sulla vita militare, sull’insensatezza delle regole della catena di comando e sulla vacuità della vita umana. Le parole del reduce crepitano sulle pagine come scariche di un mitra, lasciando il lettore attonito eppure irresistibilmente attratto ad andare avanti.
Il punto di forza del romanzo sta nella capacità dell’autore di descrivere la metamorfosi che la guerra produce negli uomini, alterandone i tratti somatici, i sentimenti e la psiche.

«Noi non eravamo cani rabbiosi quando arrivammo […], non eravamo cani rabbiosi prima delle lettere censurate, delle offensive, delle imboscate, delle mine, della mancanza di cibo, della mancanza di tabacco, di bibite, di fiammiferi, di acqua, di bare, prima che una camionetta valesse più di un uomo e prima che un uomo valesse una notizia di tre righe sul giornale.»
Non c’è pietà nelle dense pagine di questo libro, né eroismo; c’è spazio solo per una muta compassione e per gesti insignificanti e meschini. E forse è proprio questa la guerra, così diversa da quella raccontata dai megafoni della propaganda.