27 ottobre 2014

"I know we only get one chance at real love": intervista a Lee Fardon

Lee Fardon è un cantautore inglese che gode di buona popolarità in Italia. Ha da poco pubblicato London Clay, un’antologia acustica dei suoi migliori brani, con quattro inediti. È stata questa l’occasione per contattarlo e farmi raccontare qualcosa di sé. Con grande disponibilità mi ha concesso un’intervista (che riporto anche in inglese), in cui si rivela in tutta la sua sensibilità di artista. Ne viene fuori il ritratto di un musicista che fa dell’onestà intellettuale il suo marchio di fabbrica.
Il suo sito è http://www.leefardon.com/.

Domanda. Su internet ho notato che molte persone in Italia si ricordano di te; inoltre, hai fatto diversi concerti in città italiane qualche anno fa. Qual è il tuo rapporto con questo Paese?
(Question. On the internet I observed that lots of people in Italy remember Lee Fardon; besides, you made several concerts in Italian cities some years ago. What’s your relationship with this country?)
Risposta. Subito dopo la pubblicazione del disco "The God given right”, ho iniziato un tour europeo in Olanda, Belgio e Germania. Abbiamo suonato in piccoli club e pub; l’ultimo spettacolo era in Italia, a Varese, dove abbiamo suonato in un palazzetto dello sport; lì c’è stata l’affluenza di pubblico maggiore dell’intero tour. Non credevo che l’album fosse così conosciuto. Da allora ho fatto diversi tour in Italia, ed è sempre andato tutto bene. Gli italiani sembrano avere un particolare apprezzamento per l’arte.
(Answer. Just after the release of the God Given Right I began a European tour through Holland, Belgium, Germany. We played small clubs, bars; the last show was in Italy in a place called Varese, the venue was a small sports stadium; it was our biggest audience on the whole tour. I had no idea the album was so well known. Since then have toured in Italy many times, and it’s always good. Italians seem to have a well developed appreciation of art.)

D. Ad avviso di molti recensori, “God given right” è il tuo miglior disco. Anche se è stato scritto negli Anni Ottanta, penso sia ancora molto attuale. Hai qualche ricordo particolare (o privato) riguardo questo album?
(According to some reviewers, “God given right” is your best disc. Even if it was produced in Eighties, I think that is still contemporary. Have you got some peculiar or private memories about this record?)
R. “The God given right” è stato il mio secondo album, dopo “Stories of adventure”. All’epoca in cui fu registrato, eravamo sempre in tour. Non avevo un grande budget, e così il disco è stato registrato in sole due settimane, ma ho sempre ritenuto che suona davvero bene dal vivo. L’ho prodotto assieme al mio chitarrista, Jimmy Hall. Sono stato molto fortunato ad aver coinvolto anche Jan Schelhaas, certamente il miglior organista Hammond che io conosca, anche se non era un membro regolare della mia band. La formazione che suonò in quel disco era composta da me (voce e chitarra), Jimmy Hall (chitarra), Colin Fardon (basso), Jan Schelhaas (organo e piano) e Chris Brown (batteria). La registrazione è stata breve, ma ogni momento rimane con me; ogni cosa, sin dal momento in cui iniziammo, andò bene, era come se fossimo benedetti. L’album sarà presto scaricabile dal mio sito.
(The God Given Right was my second album, the first being Stories of Adventure.  At the time it was recorded my band and I were gigging hard, I did not have a big budget so the whole album was recorded in two weeks, I always say that to me it sounds like a really good gig. It was produced by me and my guitarist Jimmy Hall. I was very lucky to get Jan Schelhaas the best Hammond organist I know, as he was not a regular member of my band. The musicians were Lee Fardon guitar and vocals, Jimmy hall guitar, Colin Fardon bass, Jan Schelhaas organ and piano, Chris Brown drums. The recording of the God Given Right was a short period of time yet every moment remains with me, everything from the moment we started it went well, it was like we were blessed. God Given right will soon be available as a download on my website.)

D. Hai scritto molte canzoni; qual è la preferita e perché?
(You wrote so many songs; what’s the favorite and why?)
R. É proprio “The God given right”, che ho scritto per una persona a me molto cara. La melodia è salita come un’onda, è stata schiacciante. Ci credevo davvero in questa canzone. Ora, quando la ascolto o la suono, so che abbiamo un’unica occasione di amare veramente. A quanto pare, è anche la mia canzone che Bob Dylan preferisce. 
(Has to be the God Given Right I wrote it for someone I cared for very mush. The melody came to me like a wave, it was a bit overwhelming. I truly believed in the premise of the song. Now when I hear it or perform it I know we only get one chance at real love. Apparently its Bob Dylan’s favourite song of mine.)

D. Gli Anni Sessanta sono stati anni di rivoluzione, anche musicale. I Settanta hanno conosciuto l’anarchia del punk. Come descriveresti gli Anni Ottanta, che ti hanno visto protagonista?
(The Sixties were years of revolution, even in music. The Seventies were the years of punk’s anarchy. How would you describe the Eighties, that was the period in which you mostly played?)
R. Ad essere onesti, non penso niente di particolare degli Anni Ottanta; io non seguo le mode musicali, per me le cose sono cominciate alla fine degli Anni Settanta e stanno ancora continuando. Non ero realmente consapevole di essere negli Anni Ottanta; io scrivevo e mi esibivo senza curarmi del contesto. Secondo me, c’è sempre stata, in ogni decennio, buona e cattiva musica.
(To be honest I don’t think too much about the 80s. I don’t follow musical fashion, for me things started in the late 70s and just continued I was not really aware of being in the 80s I was writing and performing with no eye on the decade. In my opinion there has been good music bad music in every decade.)

D. Quali sono i modelli musicali, letterari ed artistici nella tua musica?
(What are musical, literary and artistic models in Fardon’s music?)  
R. Quando avevo dieci o undici anni mio padre mi regalò una copia di “Freewheelin” di Bob Dylan. In capo ad un mese avevo la mia prima chitarra. Negli anni ho imparato molto da lui, come ogni “songwriter” della mia generazione. Io, Warren Zevon e Bruce, siamo tutti piccoli fratelli e sorelle di Bob.
(When I was 10 or 11 my father gave me a copy of Bob Dylan’s Freewheelin, within a month I got my first guitar. Over the years I learnt from him like every song writer of my generation. Writers like Warren Zevon, Bruce we are all Bobs little brothers and sisters.)

D. Che tipo di musica ascolti?
(What kind of music do you listen to?)
R. Io non ascolto musica quando compongo, che poi è la maggior parte del mio tempo, perché penso che possa confondere i miei pensieri, e non amo l’influenza diretta che potrebbe suscitare su di me. Mi piace andare nei locali per scoprire musicisti, trovare persone interessanti con cui lavorare. Per rilassarmi, ascolto un disco di Joni Mitchell; mi conforta, la amo.
(I don’t listen to music when I am writing which is pretty much all the time, I find it muddies my thinking, and I don’t like the direct influence it imparts. I like going to local venues to check out musicians, looking for interesting people to work with. To relax I might put on a Joni Mitchell cd she sooths me and I love her.)

D. Dove trovi l’ispirazione per scrivere i tuoi pezzi? Nella vita di tutti i giorni o nella tua immaginazione?
(Where do you find inspiration to write your songs? In everyday’s life or in your imagination?)
R. Non ho mai saputo rispondere a questa domanda; dipende dal momento. Forse ti potrei raccontare di come e perché ho scritto “Sherriff and his sister”. Stavo guardando un vecchio film in bianco e nero sulla Seconda Guerra mondiale. In una scena, decine di ebrei di tutte le età venivano caricati sui treni; tra di loro c’era un bambino di otto o nove anni e una bambina più piccola, che penso fosse sua sorella, entrambi con la stella di Davide sul cappotto. Un soldato tedesco stava per caricare la bambina sul vagone, ma il fratello glielo impedì; volle lui aiutare la sorella a salire, per poi seguirla a sua volta sul treno. É stata la cosa più triste e coraggiosa che abbia mai visto. L’intera scena è durata forse trenta secondi. "The Sherriff and his sister” è su “London clay”. 
(I never know how to answer this question, usually moments in time. Maybe if I tell you how and why I wrote the ‘Sherriff and his sister’. I was watching an old piece of black and white film from the Second World War, this was the scene, scores of Jews of all ages were being loaded on to trains, there was a young boy 8 or 9 years old and a younger girl I took to be his sister, both with stars on their coats, a German soldier was about to lift the little girl into the box car but the  boy stopped him, lifted her in to car himself the climbed in after her, It was the saddest and bravest thing I’ve ever seen. The whole clip of film lasted about 30 seconds. The Sherriff and his sister is on London Clay.)

D. Potresti descrivermi il tuo nuovo disco, “London clay”?
(Could you describe me your new disc, “London clay“?)
R. "London clay" è, in parte, un’antologia retrospettiva, acustica. Ho scelto le tracce dai miei vecchi album – ad esempio “Together in heat”, presa da “God given right” – e le ho rivisitate; include anche quattro nuove canzoni. È una registrazione intima, con molte intense esecuzioni. Qualcuno ha detto che sembra folk/soul? Forse è così. Di certo, è un lavoro sincero, onesto.
(London clay is a part retrospective acoustic style album, I choose songs from my past albums for example ‘Together in heat’ from the God given right’ and re-visited them also it includes 4 new songs. It’s a very intimate recording, featuring some great playing, someone said it sounds like folk/soul? Maybe it does. It’s certainly an honest piece of work.)

D. Il tuo futuro? Tornerai in Italia?
(Your future plans? Will you return in Italy for some gigs?)
R. Ho girato l’Italia in passato ed è stato sempre entusiasmante; mi piacerebbe tornare. Purtroppo il mio amico e agente Carlo Carlini è venuto a mancare alcuni anni fa, e mi risulta difficile trovarne un altro. Ma di certo vorrei sempre suonare in Italia. Il pubblico italiano è il più recettivo tra quelli per cui ho suonato. Mi capisce.
(I have toured in Italy in the past and it’s always been great, would love to come back, unfortunately my friend and promoter Carlo Carlini passed away a few years ago, and I am finding it hard to get another. But sure I would play Italy any time. Italian audiences are the most understanding I have played for. They get me.)

D. Che artista è Lee Fardon?
(What kind of artist is Lee Fardon?)
R. Che tipo di artista sono? Sincero, fiducioso che, ogni tanto, tutto possa andare per il meglio. Mi impegno a raccontare i pensieri della gente, provando a dare una conferma alle cose che già sanno.
(What kind of artist am I? Honest, some time to honest, hopefully still developing. Striving the clarify thoughts for people, trying to confirm things they already know.)
Lee Fardon, London Clay, foto tratta dal sito del musicista 

Il nuovo disco, acquistabile su http://www.leefardon.com/
Per leggere la mia recensione di The God given right, clicca qui

23 ottobre 2014

Nuovo romanzo: "Le rovine in attesa"

Il mio secondo romanzo, Le rovine in attesa, sarà pubblicato entro la fine dell’anno dalle Edizioni Alter Ego di Viterbo.
Ogni novità in merito verrà presto comunicata su questo blog, oltre che sul sito dell’Editore

Protagonista del romanzo è Erminio Narri, un giovane insoddisfatto e frustrato, che vive con precarietà tutte le esperienze della sua modesta esistenza: il lavoro, l’amicizia e l’amore. Appartenente ad una famiglia della media borghesia caduta in disgrazia, è riuscito ad ottenere soltanto una misera occupazione in una vecchia e malandata biblioteca di teologia, nonostante lunghi anni di studi giuridici alle spalle.
Il momento del riscatto sembra però arrivare quando riceve inaspettatamente la lettera di un anziano nobiluomo meridionale, che lo invita a recarsi presso la sua avita dimora per discutere di un “affare urgente e segreto”. Il marchese Alberico Priviano, questo è il nome del misterioso mittente,  vive in un antico e decaduto palazzo, in una “terra circondata dai monti eppure così vicina al mare”. Qui, in mezzo agli amati libri e quasi in solitudine, il marchese coltiva un suo visionario progetto di redenzione collettiva, in cui cerca di coinvolgere Erminio. Questi, nonostante le iniziali titubanze, finirà per aderirvi, nella convinzione di poter ottenere quella fama e quel denaro che, altrimenti, non avrebbe mai creduto di poter raggiungere.
E sarà proprio la trattazione di questo oscuro progetto ad avvincere i protagonisti in un comune destino, che li porterà ad accettare definitivamente il peso della propria inettitudine morale e materiale. I due, apparentemente così diversi, si scopriranno vicini, entrambi pervasi nel profondo dell’animo da una solitudine alla quale hanno cercato di dare maldestramente sollievo con l’ansia del successo e una vana aspirazione di rivincita.
Concepito quale opera sullo spinoso tema dell’unificazione del Paese e sulla genesi della "questione meridionale", il romanzo, pur attraversato da una sottile vena polemica, tipica di un certo “revisionismo” della vicenda risorgimentale, tenta di collocarsi oltre la mera disputa politica. La vicenda narrata diviene pertanto occasione per lanciare un’invettiva contro la seduzione del denaro e un ammonimento sulla inconsistenza dei desideri di gloria e sulla pericolosità dell’ambizione del potere.
Il logo della Casa editrice

22 ottobre 2014

"Breviario del caos" di Albert Caraco: uno sguardo lucido sul tramonto dell'Occidente

Una lettura che fa riflettere e disturba, poco più di cento pagine di meditazioni scandite da immagini apocalittiche e da parole taglienti. Era un filosofo estremo Albert Caraco, delirante provocatore e al contempo lucido cantore delle ossessioni e delle perversioni di un Occidente decaduto, la cui fine viene drammaticamente evocata in questo Breviario del caos.
Lo strano pensatore non ebbe mai fortuna in vita; le sue opere hanno iniziato a circolare solo dopo il suicidio (1971), programmato da lustri ma compiuto solo dopo la morte del padre, unico essere umano a cui mai avrebbe voluto dare un dispiacere.
Ed è proprio la morte che aleggia sinistra nelle pagine di questo libro; ma non è una morte intesa cristianamente come la fine di un percorso naturale, che si conclude nella speranza dell’aspirazione celeste. La morte descritta da Caraco è la peste del 1348, perché non è salvifica e non dà speranza; è come un enorme pozzo nero in cui è l’intera società ad essere inghiottita. Nonostante molte pagine siano letteralmente sconvolgenti, in altre l’autore riesce con grande lucidità ad individuare i nemici dell’umanità, che sono il pensiero unico, la logica capitalista e l’ordine costituito. In proposito, scrive che la massa dei mortali è fatta di sonnambuli, e all’ordine non conviene mai che escano dal sonno, perché diventerebbero ingovernabili”. E per realizzare questo obiettivo, il potere si serve delle attrattive dello spettacolo, della televisione, delle luci della ribalta, che con la loro insulsaggine “ottundono la nostra sensibilità e finiranno con il guastarci il cervello”. Nulla si salva, nemmeno i valori, che anzi sono i principali artefici della decadenza generale: l’ideale di patria, le religioni e la politica sono bersagli dei più feroci attacchi. Il Breviario del caos, con i suoi incisivi aforismi, diventa il canto funebre della civiltà occidentale, avvolta da un sudario composto dalle sue contraddizioni, dalle ingiustizie e dai falsi idoli. L’aberrazione più grande prodotta da questa società è l’aver mutato la natura dell’uomo, trasformato in “fedele”, “consumatore”, “cittadino”, “elettore”, per servire gli interessi dei gruppi di potere. Ecco perché, conclude l’autore, non potremo mai cambiare questa umanità se non distruggendola, per poi ricomporla ex novo.
È stato detto di tutto di Caraco: lo si è definito, forse non a torto, provocatore, folle, miserabile, anarchico, catastrofista, nichilista fino all’estremo. Sarebbe tuttavia stupido non riconoscergli un grande merito: quello di aver scritto, a costo di essere bollato come un reietto dell’umanità, ciò che gli altri si rifiuterebbero sempre di scrivere per paura del severo giudizio dei consociati. E allora è probabile che nel leggere questo libello si possa essere portati a scuotere la testa, a disapprovare gran parte di quello che vi è scritto. Sfido però chiunque si definisca uomo libero a non condividere almeno qualcuna delle amare riflessioni del pensatore francese.

[ Questa mia recensione è apparsa anche su Sololibri.net ]

11 ottobre 2014

"Liege & lief", il capolavoro folk dei Fairport Convention

Alla fine degli anni Sessanta i Fairport Convention decisero di realizzare in Inghilterra un’operazione che era già stata compiuta con successo oltreoceano: la riscoperta delle origini attraverso la riedizione in chiave rock di alcuni traditionals, brani appartenenti al repertorio folcloristico. Iniziarono così a studiare l’immenso patrimonio anglosassone di ballads, raccolto negli anni da studiosi come Francis Child e Cecil Sharp. L’operazione, che ebbe anche una significativa eco commerciale, è tanto più interessante per la scelta del gruppo di utilizzare sia gli strumenti elettrici che quelli acustici. Se si pensa a band coeve come i Pentagle, prevalentemente acustici, si individua la novità del suono dei Fairport, costruito sopra un continuo intrecciarsi di fitti dialoghi tra chitarra elettrica e violino amplificato.
Il 1969 è l’anno di svolta. Liege and Lief, però, “nasce sotto le circostanze più infauste che si potessero immaginare”, come ricorda Joe Boyd, produttore del gruppo. A maggio muore in un incidente stradale il batterista Martin Lamble, gettando nello sconforto gli altri componenti, usciti illesi dallo schianto. Lentamente, però, il gruppo riprende i progetti interrotti, fino a pubblicare questo straordinario disco, uno dei punti più alti, se non il più alto, del revival folk elettrico degli anni Sessanta. A confezionare il piccolo gioiello sono Sandy Denny (voce), Ashley Hutchings (basso), Dave Mattacks (batteria), Dave Swarbrick (violino e viola) ed i due chitarristi Simon Nicol e Richard Thompson.
È un album dai colori pastello, nella grafica e nel suono, rifinito e quadrato come un buon prodotto artigianale. Le tracce sono otto, anche se nella recente riedizione della Island ne sono state aggiunte due, per la verità del tutto trascurabili. Si alternano composizioni originali, scritte dalla band (Come all Ye, Farewell farewell), a traditionals arrangiati in chiave moderna; su tutti spicca Matty Groves, il capolavoro dell’album. É un’antica ballad, la cui origine si perde nella notte dei tempi, che narra del tradimento consumato dalla moglie di un nobile con il suo amante, di nome Matty Groves, conosciuto durante una cerimonia religiosa. La vicenda si conclude tragicamente, con la tremenda vendetta ordita dal marito di lei, che scopre gli amanti e li uccide. La musica si caratterizza per un ritmo ipnotico su cui svetta la voce imperiosa di Sandy Danny. Gli altri brani sono tutti di altissimo livello. Alcuni sembrano essere costruiti intorno alla voce della cantante, come Reynardyne o la dolcissima Farewell farewell. Altri sono invece il banco di prova della perizia tecnica della band; si ascolti in proposito il Medley, con un ritmo concitato e suadente retto da un violino indiavolato. In chiusura dell’album c’è Thin Lin, una canzone che ricorda da vicino i coevi Jefferson Airplane, specialmente quelli più lisergici di After bathing at Baxter’s, con Sandy Danny che sembra fare il verso a Grace Slick.
Gli ascoltatori della radio della BBC l’hanno eletto miglior disco folk di tutti i tempi.  Al di là delle classifiche, che lasciano il tempo che trovano, è certamente un album intenso, di ricerca e grande perizia esecutiva, paragonabile forse soltanto a John Barleycorn must die dei Traffic, che seguirà di un anno.