31 marzo 2014

"L'opera dei Turchi" di Prignano Cilento, tra devozione e catarsi

Tra le tante e antiche tradizioni tuttora vive nei paesi del Cilento, un ruolo particolare riveste la rappresentazione detta Opera dei Turchi, che si svolge a Prignano il lunedì dell’Angelo. La suggestiva Piazza del Plebiscito, su cui si affacciano la Chiesa madre e il palazzo marchesale della famiglia Cardone, è il palcoscenico di questa manifestazione, la cui origine risale alla notte dei tempi, profondamente legata com’è all’antichissima devozione dei prignanesi per San Nicola di Bari. 
Si tratta di una rappresentazione teatrale in costume, che rievoca due miracoli attribuiti al Santo dall’agiografia ufficiale. Si recita a soggetto, perché non esiste un testo scritto. Tutti i prignanesi, però, ne conoscono le battute, che si tramandano oralmente di generazione in generazione. Nel primo atto viene ricordato il miracoloso salvataggio di Diodato, un adolescente cristiano rapito dai Saraceni. La scena si apre con una tavola imbandita, dove un gruppo di Saraceni (chiamati genericamente “i Turchi”) si accinge a consumare un lauto pasto. A servirli è appunto lo sfortunato Diodato. In più occasioni il “Capoturco” lo provoca, invitandolo ad abiurare la sua religione e ad unirsi all’allegra compagnia. Diodato, però, rifiuta sdegnosamente l’invito, perché intende celebrare con il digiuno la festa di San Nicola di Bari, a cui è molto devoto. All’ennesimo rifiuto, il temibile Saraceno apostrofa duramente il giovane servo : “Ah, sciocco, sciocco! Se San Nicola fosse realmente un Santo miracoloso, verrebbe qui a liberarti dalla nostra schiavitù!”. A questo punto si compie il primo miracolo. Intenerito dalle esortazioni del fanciullo, il Santo invia un angelo a salvarlo, perché lo porti via, volando, lontano dalla schiavitù dei Saraceni, sbigottiti e increduli per quanto avviene di fronte ai loro occhi. Questo è uno dei momenti centrali della rappresentazione. Un bambino vestito di bianco, appeso con un robusto gancio ad una carrucola che scorre su una fune, vola letteralmente dal campanile della Chiesa madre fino al palco dove si trova la tavolata dei Turchi. Diodato si aggrappa all’angelo e viene portato via. È questo il volo dell’angelo, che riempie di angoscia e stupore gli astanti, fin quando i due non approdano di nuovo sul campanile della chiesa, con le campane che suonano a festa. La seconda scena racconta invece un episodio della vita del Santo, quando era ancora vescovo di Myra. Nicola desidera rifocillarsi dopo un lungo viaggio e si ferma in un’osteria. L’oste è un uomo malvagio e senza scrupoli, che non esita a dare in pasto ai suoi avventori tenera carne di bambino, spacciata per “tonnina”. Nicola, però, consapevole del turpe inganno, ordina all’oste di mostrargli il tino dove viene conservata la carne. Non appena la botte viene scoperchiata, quattro bambini escono fuori, vivi e vegeti, ringraziando il vescovo Nicola, che li aveva resuscitati con la forza della preghiera. Scoperto il terribile segreto, l’oste non può evitare la punizione capitale. Viene così condotto da una guardia nel fortilizio della città, per essere bruciato vivo. La scena dell’esecuzione viene riprodotta con l’esplosione dei fuochi d’artificio, seguiti da un lungo applauso liberatorio degli spettatori. L’uccisione dell’oste, che non esito a definire barbara, funge tuttavia da catarsi, come nelle antiche tragedie greche. Il sacrificio del colpevole alleggerisce gli animi degli spettatori, che vengono in tal modo esorcizzati dal male e dalla tentazione.
Le festività pasquali si avvicinano. Per questo, invito tutti quelli che non hanno mai assistito alla rappresentazione a recarsi a Prignano, intorno all’ora di pranzo, subito dopo la solenne Messa del lunedì in Albis. Si tratta di un’ottima occasione per conoscere meglio le nostre tradizioni, il terreno di coltura da cui tutti proveniamo.
Scorcio di Piazza del Plebiscito in Prignano Cilento, con il palazzo Cardone

23 marzo 2014

"The God given right": il Vangelo secondo Lee Fardon

Quando avevo quindici anni o poco più, agli albori della mia passione musicale, non era raro che acquistassi un disco soltanto per la sua copertina. Raramente ho sbagliato. In alcuni casi ho trovato dei veri e propri capolavori (il primo, omonimo e monumentale disco degli Affinity, ad esempio), in altri è stato un totale fallimento.
Così, quando ho adocchiato, sui polverosi banchi di un mercatino dell’usato, The god given right, LP di uno sconosciuto (almeno per me) Lee Fardon, ho deciso di acquistarlo senza tanti indugi. Forse il disco che ho pagato di meno, un euro solamente; certamente, un album di valore decisamente superiore a molti di quelli per cui ho sborsato dieci o venti volte tanto. Sulla copertina di questo LP (Aura records) c’è un ragazzo sopra un letto sfatto, con il materasso ben in vista, che guarda verso l’osservatore con aria annoiata. In alto a sinistra uno straccio, o forse una coperta, o forse addirittura una bandiera del Regno Unito stropicciata. Insomma, tutto il contrario della classica estetica da rockstar. Più che altro un’immagine intimista, che ben avrebbe potuto costituire la copertina di un disco di Nick Drake.
L’anno era il 1982 e il nostro Lee, nato negli anni ’50 dalle parti di Londra, si accingeva a pubblicare il suo secondo album, dopo Stories of an adventure (1981). All’incisione di The god given right (più o meno, “il diritto dato da Dio”) partecipano musicisti quadrati e puliti nell’esecuzione: Jim Hall alla chitarra, Colin Fardon al basso, Chris Brown alla batteria e l’ottimo Jan Schelhaas alle tastiere. Le tracce sono dieci e, come spesso succede, il lato A è il migliore. Già dai solchi iniziali, quelli di Show me (like this again), si capisce che il nostro ha talento da vendere. Nella prima facciata c’è una sequenza davvero notevole di pezzi, su cui spicca la terza traccia, Together in heat. Sul lato B spiccano, invece, Like an automatic, con quel ritornello cantilenante che ti entra nella testa, e lo struggente finale di I remember you.
Ma di quale tipo di musica si tratta? Non ha torto chi l’ha definito un emulo di Springsteen, ma è una definizione sommaria e parziale. Lee Fardon ha un proprio stile, che fonde egregiamente il gusto della ballata “springsteeniana” con suoni che discendono direttamente dalla new-wave. Lee è un cantante dalla voce profonda, simile a quella di Ian Curtis; sa dosare egregiamente le tastiere, che, anziché avere quel gommoso sapore anni ’80, sono ben inserite nel contesto, con accenni di Hammond anni ’60.
Si tratta certamente di un disco non perfetto, con qualche episodio meno felice, ma che risulta piacevole dall’inizio alla fine. A giudicare dalle notizie pescate sulla rete, sembrerebbe proprio che questo album abbia avuto una certa diffusione in Italia. Non dovrebbe essere raro, allora, trovarlo sulle bancarelle o in qualche fiera del vinile. Compratelo, non ve ne pentirete. Lo sfortunato Lee Fardon merita un po’ della nostra fiducia.    

Lee Fardon mi ha anche concesso un'intervista. Per leggerla, CLICCA QUI!

10 marzo 2014

"Percezione dell'inverno, da qualche parte a Sud". La recensione di Serena Di Sevo

Riporto di seguito la bella recensione di Serena Di Sevo su Percezione dell’inverno, apparsa stamattina sulla rivista on-line “La Mandragola”. Ne approfitto per ringraziare di cuore l’autrice.

PERCEZIONE DELL'INVERNO, DA QUALCHE PARTE A SUD
a cura di Serena Di Sevo
“Un romanzo di impressioni più che di eventi”. È con questo semplice e pregno sintagma che l’autore ci avverte, sulla soglia del libro, che non vi troveremo alcun viaggio interspaziale, alcuna tragedia, nessuna oscura metamorfosi. Un ragazzo del sud alle prese con i ricordi, in una città che potrebbe essere Napoli, Bari, o ammesso che sia importante, Salerno. Poi i ragazzi diventano due quando la voce che dice io incontra il piccolo Santiago. Due ragazzi come tanti, studenti di una scuola come tante, alla ricerca di una rottura con la quotidianità deserta e metafisica.
Il personaggio di Santiago, il migliore amico del protagonista, è, oltre che motore dell’azione, essenza stessa della ricerca, un personaggio con funzioni metaletterarie, che equivale alla manipolazione della realtà a cui la letteratura aspira e che rende credibile l’incredibile: Santiago indaga, guarda oltre l’oceano, frequenta la stazione dei treni e il porto, rompe le regole scolastiche e l’ordine costituito, è affascinato dalla giostra dei cavalli e dalla vita circense, dalla purezza e dalla strada, Santiago vuole partire su una grande nave blu…
La realtà dell’io narrante è solo percezione di silenzi e attese, come un palcoscenico vuoto col sipario aperto. I luoghi si animano con l’ingresso di personaggi eccentrici che aggiungono un elemento magico alla realtà e che sono i fantasmatici messaggeri della perdita di certezze e dell’apprendimento del mondo, un mondo diverso, pericoloso, conquistato facendo a pugni con la paura e l’incertezza. Ogni capitolo, costruito come resoconto su ciascun personaggio, contiene una piccola storia di ribellione, una piccola avventura, una scoperta: ogni incontro con Elena, Sirio, Farad, Elisa, Principe, ogni luogo, la scuola, la stazione dei treni, il bar, il giardino e ogni apparizione, la giostra, il circo, il treno, il pozzo, sono percepiti mediante i due punti di vista antitetici io narrante/Santiago che, sebbene percorrano soluzioni e stati d’animo contrapposti, finiscono sempre per trovare una sintesi.
Percezione dell’inverno è un breve e prezioso racconto in prima persona del cammino di crescita e di apprendimento di un ragazzo che lotta contro la timidezza, la prudenza e il timore delle conseguenze derivate dalla rotture delle regole imposte dalla scuola, dalla famiglia e dal pensiero collettivo. È fuori dalla scuola che si realizza l’apprendimento concreto: la scuola è bigotta e vigliacca, un contenitore di ingiustizie che non si vuole tuttavia negare o distruggere. Tutto in questo libro delinea una smisurata passione per la letteratura e per l’arte, molti personaggi leggono o provano a scrivere, hanno gli occhi rivolti all’orizzonte, alla letteratura sudamericana, agli espedienti del realismo magico e del romanzo di formazione in cui l’eccezione assume spesso il senso di una viscerale ricerca di conferma alle certezze del proprio mondo.
L’autunno domina la narrazione e colora l’atmosfera dolce e precaria dell’adolescenza in cui il vento, la pioggia e il freddo sono ancora discreti, quasi invisibili, in cui un dolore, un errore o un tradimento non hanno la prepotenza dell’irrimediabile e in cui l’amicizia sopravvive nonostante tutto; ma presto verrà l’inverno e tutto sarà diverso.

1 marzo 2014

L'editore che dà voce ai muti della storia: intervista a Giuseppe Galzerano

Dalla lettura dell’interessante saggio Fonologia del dialetto cilentano è nata l’idea di chiedere un’intervista all’editore Giuseppe Galzerano, che mi è stata gentilmente concessa. La Casa editrice Galzerano, con sede a Casalvelino Scalo, nel Cilento, è attiva dal 1975 e, come riportato sul sito ufficiale, “pubblica i libri "dell'altra Italia": storia sociale e politica, anarchismo, antifascismo, emigrazione, rivolte contadine, cultura popolare, questione meridionale e Cilento”. Libri che hanno lo scopo di “dare "voce" ai ribelli e ai rivoluzionari, ai vinti e ai sofferenti”.

Recensione del volume Fonologia del dialetto cilentano:
http://www.sololibri.net/Fonologia-del-dialetto-cilentano.html
Di seguito, l’intervista.

Domanda. Dottor Galzerano, come è venuto a conoscenza dell’esistenza del testo del prof. Ondis? Come si è svolta l’attività di ricerca successiva?
Risposta. A distanza di anni non ricordo esattamente come venni a conoscenza della preziosa testimonianza sul dialetto del Cilento di Lewis Amedeus Ondis, anche se certamente è avvenuta o leggendo altri libri o frequentando le biblioteche italiane ed estere, in quanto la Casa Editrice con le sue ricerche non si è mai chiusa in un mero localismo, ma ha avuto sempre la capacità di condurre - pur con le poche risorse a disposizione e nonostante le difficoltà economiche e linguistiche - ricerche in Italia e all’estero, come testimoniano anche altri libri che abbiamo pubblicato. Una volta venuto a conoscenza della Biblioteca americana che possedeva il volume, ne chiedemmo una fotocopia. Poi chiesi a un mio amico, Cosimo Corsano, docente universitario negli Stati Uniti, figlio di un emigrato ebolitano, con il quale ero entrato in contatto per aver pubblicato anni prima il volume di Antonio Margariti America! America!, che mi recensì, la traduzione dell’opera, traduzione controllata da una giovane universitaria salernitana. Una volta scoperta l’origine cilentana dell’autore, misi in moto la ricerca per sapere da quale paese proveniva. Sono così entrato - anche grazie alla collaborazione dell’avvocato James Segreto, figlio di emigrati cilentani, che ho conosciuto personalmente - in contatto con i discendenti di Ondis (qualcuno di loro è certamente ancora in vita)  e sono riuscito a ricostruire la sua vita di emigrante e di studioso, trovando anche la testimonianza di una sua allieva, Marta E. Hesson. La ricerca, oltre che in Italia e negli Stati Uniti, è stata fatta anche in Germania per trovare la recensione in tedesco fatta da Gerhard Rohlfs all’opera di Ondis, pubblicata in inglese nel 1932. Questa ricerca, della quale parlo anche nel libro, è stata fatta quando si scrivevano ancora le lettere, non c’era internet né Facebook…

D. Nella prefazione al libro si legge che Ondis è morto nel 1987, quando lei era già venuto in possesso del testo. È riuscito a conoscerlo di persona?
R. Purtroppo, non solo non ho conosciuto Ondis, morto ad Athens, nel 1987, a 93 anni, anche se ero già in possesso del suo libro, ma non sono stato in contatto con lui neanche per corrispondenza. Naturalmente mi avrebbe fatto grande piacere conoscerlo.

D. Il prof. Ondis è un emigrante di successo che, come lei scrive nella prefazione del libro, ha dato lustro alla sua terra natale ed alla sua nuova patria, l’America. Oggi in Italia si discute molto dell’attribuzione del diritto di cittadinanza ai figli degli immigrati nati nel nostro Paese (il c.d. ius soli). Ondis, senza il riconoscimento civile della cittadinanza americana, probabilmente non avrebbe potuto intraprendere una così luminosa carriera. Secondo lei, non sarebbe il caso di riconoscere la cittadinanza italiana a quelli che, pur essendo originari di terre lontane, sono nati e si sono formati in Italia?
R. Ho sempre pensato che l’emigrazione sia una ricchezza per il paese che accoglie gli emigranti. Il caso di Ondis lo dimostra in maniera eloquente, figlio di emigrati diventato docente universitario, contribuendo così alla diffusione della cultura americana, ma ha fatto anche conoscere il Cilento e la sua cultura. Il nostro è un paese in ritardo, perché attraversato da una politica di destra, che nega la cittadinanza italiana a chi è nato nel nostro paese. Naturalmente io sono per il superamento della cittadinanza italiana, che dovrebbe essere acquisita automaticamente alla nascita, perché mi sento e sono cittadino del mondo. Ritengo che il mondo intero è patria di tutta l’umanità e penso che i confini e le barriere fra gli Stati - creati dai governanti - dovrebbero essere superati e aboliti. La storia dell’umanità è sempre stata una storia di emigrazione e di meticciato e le emigrazioni hanno arricchito, non impoverito. Non si può stare chiusi nel proprio guscio, ma bisogna confrontarsi, mescolarsi con gli altri…

D. I dialetti arretrano sotto la spinta dell’esterofilia dominante e dei nuovi linguaggi nati su internet. Anche i giovani, che pure si esprimono in dialetto, spesso hanno dimenticato molte delle parole che usavano i nonni. A suo avviso, si può parlare di un impoverimento del linguaggio dialettale, così come si è soliti parlare di un impoverimento della lingua ufficiale?
R. Senza alcun dubbio, stiamo vivendo un forte impoverimento culturale e ci troviamo di fronte ad una notevole perdita culturale ogni qualvolta dimentichiamo i termini dialettali per descrivere nella nostra parlata alcuni oggetti, che magari non usiamo più. Ricordo in proposito una bella e significativa poesia di Ignazio Buttita. Il rincorrere vocaboli esteri e linguaggi internettiani è un male per la nostra identità.

D. Nella prefazione all’opera di Ondis, definisce il dialetto la lingua dei “muti della storia”. La sua produzione editoriale dà spesso voce a questi “muti”; basti pensare alle biografie di Passannante o Bresci. Cosa ha significato per lei dare voce a questi personaggi, in opposizione alla retorica benpensante?
R. La ringrazio per questa domanda e per questo interessante collegamento linguistico e politico. Parlando il dialetto i cilentani sono stati esclusi dalla storia, ovvero la storia non si è interessata delle loro sofferenze, delle loro rivolte… Ecco perché sono i “muti della storia”. Aggiungo che sono muti della storia tutti i popoli, tutti gli uomini e le donne dei quali la Storia non ci documenta le sofferenze, le oppressioni patite, gli atti di rivolta contro il potere. Anche i regicidi Giovanni Passannante e Gaetano Bresci, l’uno lucano e l’altro emigrante toscano, dei quali mi sono occupato, erano ignoti alla storia e nelle biografie che ho dedicato alla loro vita, alle loro lotte e ai loro attentati al re d’Italia, quell’Umberto I, definito spesso «re mitraglia» per aver fatto sparare sul popolo affamato, ho seguito la voce dei ribelli che intendono liberare l’umanità dalla catene, nelle quali i potenti li tengono legati. E il discorso è proseguito anche con quelli che hanno combattuto il fascismo. Poi per riportare il discorso al Cilento, mi sono occupato anche dei rivoltosi e dei combattenti della nostra terra, come i fratelli Capozzoli, Antonio Galotti, Costabile Carducci fino a Carlo Pisacane, alcuni dei quali erano completamente dimenticati e sconosciuti. Le mie ricerche, sempre documentate e mai affidate alla fantasia, hanno fatto conoscere questi uomini e queste lotte.

D. Lei è un editore controcorrente, perché parla di storia locale, emigrazione e lotta politica in un’epoca in cui predominano i prodotti letterari sciatti e di facile consumo. Cosa ha significato portare avanti queste tematiche in Italia e soprattutto nel Meridione? Quali difficoltà ha incontrato?
R. Oltre che controcorrente, sono un editore che crede nelle cose che fa, e le fa con passione e convincimento, che non ha mai seguito mode commerciali. Naturalmente le scelte si pagano ed anch’io ho pagato, ma non sono pentito delle mie scelte culturali e politiche. Avrei potuto fare altri libri, inseguire la ricchezza, ma certamente avrei fatto libri che non sarebbero durati nel tempo, invece i miei libri sono un punto di riferimento nel panorama letterario ed editoriale italiano, oserei dire anche all’estero, perché - oltre ad avere avuto clienti e lettori all’estero - spesso mi capita di trovare le mie edizioni in importanti Biblioteche estere.

D. Il revisionismo della vicenda risorgimentale è tornato di grande attualità, specie dopo il successo del libro Terroni di Pino Aprile. In questo dibattito si sono affermati anche orientamenti cosiddetti “neoborbonici”, con punte di estremismo che a mio avviso non aiutano sempre a comprendere fino in fondo la complessa vicenda storica. Come si colloca Giuseppe Galzerano in questo dibattito?
R. Non sono per il revisionismo, lo ritengo un male, perché non si basa sulla storia e sulla documentazione. Molti revisionisti ripetono affermazioni prive di fondamento, che hanno sentito o letto da altri, che non hanno verificato, che non documentano. Frequentando gli archivi non mi è mai capitato di incontrare i cosiddetti «storici revisionisti », anzi qualche volta ho chiesto se alcuni di loro erano stati in Archivio, ma non risultava nessuna loro presenza. Questa è una pratica che qualche volta è seguita anche da alcuni professori universitari, i quali però, pur non andando in Archivio, affidano le ricerche ai giovani laureandi, con il rischio che i giovani possano tralasciare alcuni documenti. La storia invece si fa trovando e analizzando i documenti, facendo confronti.
Le mie ricerche nascono da un’attenta consultazione della documentazione archivistica, sempre citata nelle note, e spesso per scrivere poche notizie dietro ci sono ricerche, lunghi viaggi, giornate trascorse in archivio a sfogliare, leggere e trascrivere carte polverose, magari consultate per la prima volta, letture di altri libri. Io mi ispiro alla pratica: niente documento, niente storia. Per me, se manca il documento, la storia ha necessariamente delle lacune e non potrebbe essere diversamente; invece c’è chi riempie questi vuoti della storia ricorrendo alla propria fantasia, in questo caso fa il romanzo non la storia.

D. Quali sono i nuovi progetti editoriali della sua casa editrice?
R. I progetti naturalmente e fortunatamente sono tanti, ma siamo fermi anche per ragioni economiche, perché si vendono sempre meno libri per la crisi che sta attanagliando il nostro paese. Ma non ci lasciamo scoraggiare e andiamo avanti. E’ imminente l’edizione di un’ampia ricerca sull’attentato di Paolo Lega all’allora presidente del Consiglio, on. Francesco Crispi, avvenuto a Roma a giugno del 1894, sulla repressione del dissenso e sulle leggi speciali votate dal Parlamento del regno d’Italia che ridussero le già limitate libertà politiche che godevano gli italiani. E’ un attentato sul quale non è stato scritto mai nulla, che ricostruisco attraverso un’ampia documentazione archivistica e giornalistica.
Oltre a questo libro, ho anche altre cose sul Cilento che attendono di essere pubblicate, come il viaggio di uno straniero nella nostra terra, del quale ho pronta da tempo la traduzione, saggi di varia natura, ecc. Ci piace conoscere e studiare, ci piace far conoscere e far studiare il Cilento attraverso gli occhi e i sentimenti di chi è venuto da un’altra cultura, da un altro paese a scrivere sulla nostra terra. E lo ha fatto con obiettività, con verità e con sincerità. Anche per questo siamo cilentani-cittadini del mondo!
L'editore Giuseppe Galzerano (foto tratta dal sito Giornale del Cilento)