27 dicembre 2015

Fuggire dalle ideologie e dal pregiudizio: "Zarathustra" del Museo Rosenbach

Uno dei pochi vantaggi del vivere in un’epoca de-ideologizzata è certamente quello di poter valutare le cose e le vicende del recente passato con maggiore obiettività. É questa una delle ragioni della riscoperta negli ultimi anni del Museo Rosenbach. Quando nel 1973 il gruppo ligure diede alle stampe il primo disco, Zarathustra, un colossale equivoco lo condannò all’ostracismo, allontanandolo dalla televisione, dai festival e dai principali circuiti di diffusione. Ciò avvenne in primo luogo per la particolare immagine di copertina, un volto mostruoso e ambiguo realizzato con un abile collage di più elementi, tra cui un busto di Mussolini. In secondo luogo, malvisto era il tema portante del concept, un omaggio a Nietzsche e alla teoria del Superuomo, superficialmente associati al pensiero nazionalsocialista. A nulla valse la giustificazione che l’immagine di copertina fosse una mera provocazione, del tutto priva di intenti apologetici. E dire che la spiegazione era riportata nelle stesse note che accompagnavano l’album, ove era scritto che «la disperata ricerca del Superuomo non vuole realizzarsi nell’immagine del violento condottiero di una razza pura, come è stata erroneamente e tristemente interpretata, bensì nella serena figura dell’uomo che, vivendo in comunione con la natura, tende a purificare da ogni ipocrisia i valori umani». Etichettati come fascisti, i Museo Rosenbach non ebbero alcun riconoscimento all’epoca, per pure ragioni di ostracismo ideologico.
A distanza di tanto tempo, invece, emergono almeno due considerazioni. La prima è che l’immagine di copertina, a guardarla bene, è forse una delle migliori di quegli anni, oltre a ricordare vagamente il celeberrimo volto di In the court of the Crimson King. La seconda è che il Museo non era uno di quei gruppi trascurabili, riscoperti negli ultimi tempi solo perché appartenenti al periodo prog. È infatti una costante tendenza quella di considerare “grandi misconosciuti” gruppi che all’epoca non ebbero alcuna eco per la scarsa qualità e originalità del suono, riesumati di recente per pure ragioni cronologiche. Con il Museo questo rischio non c’è: il loro lavoro è davvero ottimo, uno dei migliori del periodo. Se dovessi fare una mia personale classifica, lo collocherei tra i primi dieci dischi prog, assieme all’omonimo del Banco, al primo dei Napoli Centrale, ad Arbeit macht frei degli Area, all’esordio del Biglietto per l’inferno, ad Aria di Sorrenti e Collage delle Orme. Su internet si leggono tanti autorevoli interventi, da parte di chi addirittura definisce Zarathustra il miglior LP progressive italiano di sempre; sul punto, credo che il giudizio sia inquinato dalla volontà di rendere giustizia postuma al Museo. Un gran bel disco, però, lo è sicuramente.
Ascoltandolo, mi hanno colpito la qualità delle parti vocali (e dei testi) e la varietà del suono. Partendo da quest’ultimo, si nota una maggiore vicinanza ai gruppi anglosassoni; l’ipnotico giro di mellotron in Superuomo, ad esempio, non avrebbe sfigurato in un lavoro dei King Crimson. La prima facciata è interamente occupata da una lunga suite, divisa in quattro momenti. Qualsiasi conoscitore della musica sa quali sono i rischi insiti in una suite di venti minuti: annoiare l’ascoltatore con eccessivi virtuosismi, oppure trascinarlo in una sequela di passaggi disorganici e mal collegati tra loro. Proprio per questo, pochi sono gli esempi del genere compiutamente realizzati. La lunga prima facciata di Zarathustra è uno di questi rari e riusciti casi, grazie al felice combinarsi della chitarra elettrica e delle tastiere, mai troppo invasive, con in più la straordinaria sezione ritmica della batteria di Giancarlo Golzi. I modelli di riferimento sono quelli di oltremanica, con in più delle venature hard rock perfettamente innestate nel contesto.
La seconda facciata è composta di tre lunghe tracce, tra cui l’eccellente Dell’eterno ritorno, con le parti vocali in maggiore evidenza. Proprio questo è un altro punto di forza dell’album, per effetto della duttile voce di Stefano "Lupo" Galifi. Senza voler fare paragoni con le grandi voci di quegli anni, come Di Giacomo o Stratos, non si può però negare che, sia pure senza grandi doti tecniche, anche quella del cantante del Museo sia stata una delle più interessanti del panorama, specialmente per la capacità di inserirsi organicamente nelle parti strumentali e di variare di tono e intensità, passando dalla drammaticità al sussurro, fino all’urlo.
Ci sono ottime ragioni per acquistare questo disco, a prescindere dalle aspre polemiche che, nel bene o nel male, ne hanno decretato la fama. Quando si parla di buona musica, sarebbe bene mettere nel cassetto le ideologie stantie ed aprirsi alla forza persuasiva del suono.
La controversa copertina di "Zarathustra" (1973)

9 dicembre 2015

"Il mare non bagna Napoli" di Anna Maria Ortese: il drammatico conflitto tra ragione e natura

Le polemiche, specie se hanno la capacità di smuovere le coscienze, sono un formidabile volano per un’opera, riuscendo talvolta ad elevarla a vero e proprio “caso letterario”. Questo è quanto accadde nel 1953, all’uscita de Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese. La critica, quasi unanimemente, tributò grandi onori al libro, per la sua indubbia valenza letteraria. Allo stesso modo, però, piovvero aspre critiche, specie da parte degli intellettuali napoletani scelti quali involontari protagonisti, con tanto di nome e cognome, dell’ultima parte della raccolta, intitolata Il silenzio della ragione. Più che un racconto, si tratta di un resoconto. La Ortese, fingendo di dover scrivere un articolo sugli scrittori napoletani del dopoguerra, commissionatole da una rivista del Nord, fa un ritratto impietoso della scena culturale partenopea e dei suoi protagonisti. Luigi Compagnone (il più bersagliato), Domenico Rea, Raffaele La Capria, Michele Prisco, Vasco Pratolini (che visse per un periodo a Napoli), Pasquale Prunas e altri sono descritti senza finzioni di sorta, senza nasconderne virtù, difetti e debolezze, persino quelle della vita privata. Ne viene fuori un quadro sconfortante e apatico, di una classe intellettuale incapace di sciogliersi da un sempiterno “vorrei ma non posso”, collusa e quasi corrotta dai vizi della città che vorrebbe trasformare, magari con gli strumenti del marxismo. Gli inconsapevoli protagonisti di quelle dure e malinconiche pagine non la presero bene; la scrittrice venne accusata di tradimento, e da quel momento iniziò per lei una sorta di ostracismo dalla vita culturale napoletana.
Però, al di là delle polemiche, Il silenzio della ragione è una straordinaria riflessione sull’Italia meridionale; anzi, potremmo addirittura parlare di un’acuta indagine della stessa condizione dell’essere meridionale. Ad avviso della scrittrice, nel Mezzogiorno si combatte da secoli un conflitto dall’esito scontato, quello tra ragione e natura, dove la prima è destinata a soccombere. L’ostinata fantasia, gli indomabili sensi e l’istinto sono i tratti caratteristici di quelle terre e di quelle popolazioni, sì che la razionalità non può che dibattersi inutilmente, soffocata tra le spire della natura. E questa sarebbe la profonda ragione per cui, usando le parole di Tomasi di Lampedusa, tutto cambia per rimanere sempre uguale. Il fallimento degli scrittori napoletani, della loro rivista Sud e dei loro circoli letterari, dunque, non è altro che un’altra versione di una storia che si ripete immutabile nei secoli. Nulla può chiarire il concetto meglio delle stesse parole della Ortese.
«Esiste nelle estreme e più lucenti terre del Sud un mistero nascosto, per la difesa della natura dalla ragione, un genio materno di illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolci e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata. […] Qui il pensiero non può essere che servo della natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell'arte. Se appena accenna a qualche sviluppo critico, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell'uomo delle viscere, è ucciso.»
Un’altra drammatica testimonianza è nel capitolo intitolato La città involontaria, dove ci viene descritta la durissima vita nei Granili, immensi depositi costruiti in epoca borbonica e divenuti dimora per la moltitudine degli sfollati della guerra. La prima cosa che impressiona entrando nei Granili è l’assenza di luce, sì che pare quasi una discesa agli inferi. Vengono incontro all’osservatore esseri di una miseria così profonda da aver perso ogni barlume di dignità, da apparire addirittura ripugnanti. In quegli antri fetidi dove decine di persone sono ammassate in pochi metri quadri, si gioca, si muore, si soffre, ci si ammala, ci si riproduce, si mangia, si canta, si ride e si piange in un’aberrante promiscuità. E fa male pensare che queste cose accadevano nel nostro Paese solo sessant’anni fa.   
L’attenzione verso le fasce più umili della popolazione è ancora presente nei racconti Un paio di occhiali e Oro a Forcella. Il primo è, a mio parere, il più riuscito dell’intera raccolta, per l’intensità drammatica della narrazione che, in un crescendo di rara maestria letteraria, sfocia nel sorprendente finale. Oro a Forcella, invece, è un vivace quadretto di una giornata qualsiasi al Banco dei pegni di Napoli; inoltre, è proprio in questo racconto che viene spiegato il significato del titolo della raccolta. Il mare non bagna Napoli per tutti coloro che, pur vivendo in quella meravigliosa città, non ricordano neppure come sia fatto e quanto sia bello il mare, per via del bisogno e della fame, della necessità di arrabattarsi giorno dopo giorno senza mai poter godere delle cose che rendono piacevole l’esistenza.
Interno familiare, invece, mi ha riportato alla mente Gente di Dublino di Joyce, specialmente per via del tema della precoce senescenza e della fine della giovinezza. In queste pagine, l’attenzione della Ortese si sposta verso una famiglia della piccola borghesia, nei giorni che precedono il Natale; nonostante la modesta agiatezza, il nucleo familiare è corroso dalle invidie, dalla corruzione e dalla malattia. Lo sconforto individuale e la voglia di evadere trascendono le quattro mura della casa, per diventare la cifra di un’intera generazione.
In conclusione, Il mare non bagna Napoli è la narrazione di una città che non c’è più, dei suoi luoghi e della sua varia umanità. È il resoconto della miseria dei bassi e delle meraviglie di Mergellina e di Via Toledo, dell’umiltà degli ultimi e dell’incapacità della borghesia di rinnovarsi. A distanza di tanti anni, il libro vale come testimonianza storica; tuttavia, è ancora possibile scorgervi i tratti caratteristici della gente di Napoli, le miserie e gli splendori, l’aggrapparsi ad un ideale, civile o religioso, come estrema ragione di vita.

27 novembre 2015

"Senza rumore": l'altra storia dei Moda

Il biennio 1988-1989 è stato uno spartiacque importante per il rock italiano, o meglio per quel “rock italiano cantato in italiano”, secondo la calzante definizione di Alberto Pirelli, fondatore dell’IRA, la casa discografica a cui più di ogni altra si deve la scoperta e la promozione dei gruppi new wave nostrani. È infatti in quel periodo che vengono pubblicati tre dischi fondamentali: Litfiba 3, Boxe dei Diaframma e Senza rumore dei Moda. Sono album diversi, che però, oltre all’identità di casa discografica, presentano almeno due punti di contatto. Il primo è che si tratta del terzo LP per tutti e tre i gruppi; il secondo è che gli album in questione rappresentano un punto di svolta decisivo, a volte di non ritorno. Dopo Boxe, Miro Sassolini lascerà i Diaframma, che raggiungeranno i giorni nostri con Fiumani unico membro originario. Dopo Litfiba 3, chiusa la “trilogia del potere”, il gruppo di Pelù e Renzulli andrà incontro al grande successo di pubblico. Di questi due dischi si è parlato tanto; meno, molto meno, di Senza rumore.
Una piccola premessa è d’obbligo. Sto parlando dei Moda (senza accento), gruppo new wave degli anni Ottanta, non dei contemporanei Modà. E in proposito mi permetto un appunto: quando si decide di fondare (e poi promuovere) un gruppo, sarebbe cosa saggia informarsi, per evitare scopiazzature dei nomi che, oltre ad essere fonte di equivoci, sono tremendamente fastidiose. Si pensi in proposito a Il volo, il supergruppo degli anni Settanta con Alberto Radius; come ben sappiamo, il nome è stato plagiato per dare vita ad una discutibile operazione musical-commerciale su cui preferisco soprassedere.
Tornando ai Moda, si potrebbe dire che con Diaframma e Litfiba hanno rappresentato il trittico delle meraviglie della nostra new wave, oltre che le punte di diamante dell’IRA. I Moda, però, anche se capitanati da un leader carismatico come Andrea Chimenti, non hanno avuto né il successo commerciale dei Litfiba, né una continuità discografica e di seguito (sia pure di nicchia) come quella dei Diaframma.  Dopo Bandiera (1986) e il cupo Canto pagano (1987), la band toscana registrò il terzo disco, Senza rumore (1989), che avrebbe dovuto segnarne la definitiva consacrazione. Dietro l’album c’era forse una precisa operazione commerciale: realizzare il passaggio dalle atmosfere visionarie e ombrose degli esordi ad un pop-rock raffinatissimo, ma volutamente più orecchiabile e vicino ai gusti del mercato. Prova ne è il fatto che la line-up sia stata arricchita in studio di registrazione da Daniele Trambusti (futuro Litfiba), Francesco Magnelli (poi CSI) alle tastiere e Demo Morselli ai fiati. Ed è proprio l’uso intenso delle tastiere e dei fiati a togliere un po’ di freschezza alle canzoni, che, se fossero state lasciate nella loro essenzialità elettrica, avrebbero reso meglio.
Dieci le tracce. Si parte con Sogni d’oro, scritta da un Piero Pelù insolitamente (almeno per quegli anni) solare. Seguono Polvere e Cammina, elaborate ballate di forte impatto sonoro, con la splendida voce di Chimenti in evidenza. Ma le canzoni migliori sono nella seconda facciata: Shalalala, dal ritmo piacevole con ottime parti vocali; Gianni Brillante, dura invettiva contro i fabbricanti di armi; infine, Albero nero, in cui ritornano le profonde sonorità degli esordi. Il resto, sia pur pregevole, risente a mio avviso degli anni, appesantito dagli arrangiamenti non proprio felici.
Il risultato è un lavoro riuscito a metà, buono nella perizia strumentale e nelle parti vocali, a volte debole negli arrangiamenti. I Moda tentarono con questo disco il grande salto, ma di lì a poco decisero di sciogliersi. D’altronde, la grande stagione della wave italiana era finita: per i fuoriusciti, non restava che cambiare per sopravvivere, come fecero i Litfiba e i Diaframma. I Moda no, la loro è stata un’altra storia, egualmente entusiasmante e meritevole di rispetto.
La copertina di "Senza rumore" dei Moda

18 novembre 2015

"Figli di ferroviere" di Ugo Pirro: quell'Italia che viveva sui binari

Ugo Pirro, nato a Battipaglia nel 1920 e morto a Roma nel 2008, è stato uno dei più importanti autori del nostro cinema. Sue le sceneggiature di alcuni straordinari lungometraggi di impegno civile, come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso (entrambi con Gian Maria Volonté, per la regia di Elio Petri) e La proprietà privata non è più un furto (sempre di Petri, con Flavio Bucci). Nonostante l’attività di scrittore per il cinema sia quella che gli ha garantito successo e imperitura memoria, Pirro è stato anche un prolifico narratore, dalla prosa semplice e lineare, potremmo dire molto cinematografica.
Figli di ferroviere è una sorta di diario, il racconto autobiografico della vita e dei continui trasferimenti da una città all’altra della famiglia dell’autore, in un lasso di tempo che va dal 1920 alla metà degli anni Cinquanta, passando per il Fascismo e la guerra. Eppure, sarebbe riduttivo limitarne la valentia al mero dato personale, alla rievocazione sull’onda del ricordo. Il libro è soprattutto la storia minima dell’Italia che fu, il racconto collettivo dei ferrovieri, che più di tutti hanno contribuito ad unire il Paese. Si può parlare di un’accurata e nostalgica narrazione di una ferrovia che ora non c’è più; non una semplice storia del treno, ma qualcosa di più profondo e umano: la storia delle Ferrovie dello Stato e dei suoi uomini del personale viaggiante. Figure che sembrano appartenere all’era del mito: i casellanti che conducevano un’esistenza rurale al bordo della massicciata, i macchinisti che sporgevano dal finestrino la testa annerita dal fumo, i frenatori che trascorrevano interminabili giornate nei desolati vagoni merci, i capigestione addetti alla formazione dei convogli, gli accelerati, le vecchie locomotive sbuffanti. E soprattutto i capistazione, con il loro acuto fischietto, le bandiere di segnalazione e il berretto rosso orlato d’oro, simile a quello degli ufficiali dell’esercito. Ma l’aspetto che l’autore vuole evidenziare è soprattutto un altro: la ferrovia da lui raccontata è una grande famiglia, dove il vincolo che unisce non è dato dal sangue, ma dalla comunanza di condizione, da un senso di appartenenza che non ha eguali nella storia industriale italiana.
Un paragone, in particolare, ricorre nel libro: quello tra le famiglie dei ferrovieri e quelle degli zingari e dei circensi; le prime, come le seconde, assai numerose e sempre in viaggio. Scrive infatti l’autore:
«La vita nostra sembrava esistere soltanto tra treni, stazioni, locomotive, telegrafi, orari ferroviari, trasferimenti da una stazione all’altra. Viaggiavamo anche quando ci affacciavamo alla finestra della nostra casa nella stazione. I treni visti dalle  nostre finestre erano così familiari che sembravano nostri, come se vivessimo sui treni, alla pari dei nomadi. E chissà se questo nomadismo ferroviario alla fine non abbia fatto viaggiare liberamente i pensieri, l’immaginazione.»
Scorrere le pagine è come fare un viaggio nei vecchi scompartimenti di terza classe, alla scoperta di un tempo in cui il capostazione era una figura amata e rispettata al pari di un’autorità, un tempo in cui i figli dei ferrovieri godevano di una libertà per altri ragazzi sconosciuta, perché il loro campo di giochi era un mondo meraviglioso, fatto di vagoni fermi sui binari morti, immensi piazzali, scali merci, locomotive su cui montare con sprezzo del pericolo. Ma non bisogna pensare che la narrazione sia semplicisticamente edulcorata; Pirro nulla nasconde di quegli anni, parla della fame, delle lotte sindacali, delle paghe misere, della povertà, della Napoli bombardata durante la guerra, degli scontri tra fascismo e massoneria. La sua analisi sa essere spietata, senza risparmiare nessuno, persino l’amato padre.
A chi è destinato questo libro? Come ho detto, lo stile è semplice, asciutto, non indulge in coloriture letterarie. Lo apprezzeranno i vecchi ferrovieri, i figli di ferroviere, ma anche tutti quelli che hanno voglia di leggere una testimonianza storica, il resoconto sentito di un mondo che non esiste più. Perché anche la ferrovia è cambiata e forse per questo non esercita più il suo incanto. D’altronde, quanto a bellezza e fascino, avrebbe senso paragonare una E.636 con un attuale locomotore dell’alta velocità? La prima, sia pure meno “moderna” (ma siamo sicuri che questo sia un difetto?), vincerebbe sotto tutti i punti di vista.

6 novembre 2015

"Il posto" di Ermanno Olmi: l'attualità di una pellicola del 1961

Inserito nella prestigiosa lista dei “100 film italiani da salvare”, che raccoglie le pellicole che hanno saputo raccontare meglio la storia collettiva del Paese, Il posto di Ermanno Olmi (1961) è un capolavoro nascosto, un lungometraggio che brilla pur raccontando una vicenda minima.
Domenico è un ragazzo di Meda, figlio di una campagna ormai snaturata, diventata estrema periferia della metropoli che avanza. I genitori sognano per lui il posto fisso, l’occupazione che dura una vita, garanzia di un’esistenza senza stenti e preoccupazioni. Per loro, come per tutti quelli che ne vivono ai margini, Milano significa soprattutto un impiego stabile, speranza di un futuro migliore.
Una fredda mattina d’inverno Domenico prende il treno diretto verso la città, per partecipare alle selezioni di una grande azienda alla ricerca di diverse figure professionali. E sebbene gli esami si risolvano in semplici esercizi di aritmetica e banali test psico-attitudinali, sono comunque in grado di svelare la cruda spietatezza del sistema. Uno dei candidati, padre di famiglia, non riesce a risolvere il problema di calcolo, venendo così escluso. E sono proprio gli occhi disperati di quest’uomo, inquadrati per pochi fotogrammi, a restituire tutto il dolore di chi è posto ai margini della società, privato di un benessere di cui tutti gli altri possono apparentemente godere.
Domenico, invece, riuscirà senza sforzi ad essere assunto, sia pure come semplice aiuto-fattorino. Entrato in azienda, avrà modo di conoscere lo squallore della vita impiegatizia: la prepotenza dei capi, la strafottenza dei raccomandati, la  routine che piega gli anni, le invidie e i rancori che stagnano nel profondo degli animi. Olmi è abilissimo nel tratteggiare tutti questi aspetti, con scene fatte soprattutto di sguardi, tic nervosi, gesti e poche, misurate parole.
Per il ruolo del protagonista venne scelto un attore non professionista: il quindicenne Sandro Panseri, uno dei volti più espressivi del cinema nostrano. Il suo sguardo smarrito resta impresso nella mente dello spettatore, come nella celebre scena dell’esame psicologico, dove il ragazzo risponde attonito ed esterrefatto alle incomprensibili (per lui) domande che gli vengono fatte. Nei suoi occhi si legge la speranza di ottenere l’impiego, ma al contempo un muto disincanto, una sorta di invincibile nichilismo, la vaga consapevolezza che è inutile cercare di dominare le regole del sistema, perché queste sono oscure e impenetrabili. Solo l’amore può essere una via d’uscita dal vicolo cieco; ma per Domenico il miracolo non si avvererà.
Altro “personaggio” del film è la città industriale, che meraviglia e sovrasta i protagonisti, fino ad inglobarli nei suoi ingranaggi. Tutto è mostruoso: i lavori della metropolitana, la ressa delle pause caffè, lo sferragliare dei tram e il traffico impazzito. Eppure, nessuna forza di ribellione si annida nel cuore di Domenico, perché la resistenza è impossibile. Alla fine, entrerà a fare parte di quel sistema che, in cambio dell’anima, offre un’anonima scrivania e l’agognato posto fisso.
La felicità tanto sperata, però, non arriverà. Nella scena finale, Domenico guarda avanti a sé la schiera grigia delle schiene dei colleghi, con aria interrogativa. Forse non capisce fino in fondo di essere diventato la rotella di un ingranaggio pauroso, ma percepisce di non appartenere più a se stesso. Perché conquistare il “posto” non ha il sapore glorioso del successo, ma porta con sé un marcescente sentore di morte.
E la domanda che aleggia nell’aria, quando scorrono i titoli di coda, è soltanto una: qual è il prezzo che Domenico ha dovuto pagare per ottenere “il posto”?  
Domenico (Sandro Panseri) alla sua scrivania

26 ottobre 2015

Il canto crepuscolare dei C.F.F.

C.F.F. e il Nomade Venerabile ha rappresentato una delle realtà musicali più interessanti e originali degli ultimi quindici anni, soprattutto per la capacità di unire rock, danza e teatro in trascinanti esibizioni live. Ricordo di averli visti nel 2006 al festival Today I’m rock di Capaccio, quando presentarono i brani del loro EP Ghiaccio, impressionandomi per la tecnica e, soprattutto, per i suggestivi effetti scenici. Sembrava di assistere ad una performance dei CCCP degli anni migliori, quelli di Annarella e Fatur, per intenderci.
Canti notturni è il primo album a marchio (semplicemente) C.F.F., pubblicato ad ottobre 2015 per l’etichetta Maxsound Records. É un lavoro di svolta, non solo perché la formazione è ridotta a tre elementi, ma perché Anna Maria Stasi (voce e tastiere), Anna Surico (chitarre e sequenze) e Vanni La Guardia (alla sezione ritmica) hanno scelto coraggiosamente di operare una cesura rispetto al passato, che tuttavia non è abiurato, ma echeggia nelle nove tracce che compongono il disco.
Evocativo il titolo, che già suggerisce le atmosfere in cui l’ascoltatore sarà calato. Occorre però sgombrare il campo da un preconcetto. La notte raccontata dai C.F.F. non è il luogo della paura, la ragnatela perversa degli esorcismi umani, ma è il momento in cui i ricordi più intensi vengono a trovarci, dove l’uomo svela la propria natura, senza infingimenti. Si potrebbe dire, per quanto possa apparire una contraddizione, che la notte nasconde ogni cosa ma rivela l’uomo a se stesso, culla la sua umanità e la palesa. Non per nulla il titolo richiama un fondamentale caposaldo della nostra letteratura, quel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi, che, per la complessità strutturale e pregnanza di significati, viene ad assumere una valenza più filosofica che lirica. D’altronde, i C.F.F. credono in una musica “istruita”, lontana dal puro intrattenimento, che abbia la capacità di raccontare l’uomo com’è, spogliato dalle sovrastrutture. Si considerino i versi di Stelle nere, seconda traccia dell’album: “Abbandonate dalla luna / le stelle rare si tuffano nel mare / luci gemelle nel riflesso / danzando libere sul precipizio dell’abisso. / E non c’è niente che mi faccia stare in pace con il mondo / come quel canto furibondo”.
I C.F.F. propongono una melodia diversa, di non facile presa, ma al tempo stesso niente affatto ostica. C’è sperimentazione, ma questa è ricondotta entro i binari di un’elettronica non invasiva, delicato tappeto sonoro al servizio di uno splendido canto. Sebbene non manchino richiami alla musica popolare (pur non potendosi parlare di revival folk), si potrebbe parlare di un disco di cantautorato colto, filtrato da una sensibilità tutta contemporanea, che predilige il dato intimista a quello civile.
Se proprio dovessi fare dei paragoni, tre sono gli artisti che mi vengono in mente. La prima è Alice dei grandi album di fine Ottanta – inizio Novanta (su tutti, Park hotel e Il sole nella pioggia); si ascolti in proposito la seconda traccia, l’eterea Quando viene marzo. In Forse, invece, si sente qualche eco di musica popolare, con i Musicanova di Eugenio Bennato quale possibile punto di riferimento. Infine, la proposta musicale dei rinnovati C.F.F. si avvicina agli Spain di Josh Haden, band che più di ogni altra ha portato avanti la bandiera di un rock colto, minimale, diretto all’essenzialità del suono.
Sorprendente l’inizio di Un paese innocente, con quei versi destinati a rimanere a lungo nella mente: “Nel paese dove sei falena / non hai squame sulle ali / ma polvere da sparo”. Il testo è criptico, ma nella mia interpretazione personale ho visto nel “paese innocente” una rappresentazione dell’Italia, così come è diventata. Il Paese degli amori che corrono sulle linee telefoniche, delle piazze pacifiche e delle “percosse democratiche” (forse un riferimento a recenti fatti di cronaca, che hanno visto coinvolti uomini delle istituzioni?). Il brano viene poi proposto anche in una versione alternativa, intitolata Un solo minuto di vita, caratterizzata da sottili divagazioni elettroniche ed un uso più corposo dei campionamenti.
Degne di nota sono poi Quando viene marzo, che si regge su improvvise aperture armoniche, e In assenza di gravità, con un impiego più evidente delle chitarre elettriche, che strizza l’occhio alle esperienze contemporanee della musica indie.
Segue Come fiori, una canzone sull’olocausto dei rom e dei sinti. È dedicata a Johann Trollmann, meglio noto come Rukelie (l’Albero), pugile tedesco di origine sinti, ucciso nel 1943 in un campo di concentramento. Una storia poco nota, che si aggiunge all’orrore che già conosciamo. La triste parabola del pugile diviene così “pretesto” per raccontare l’eccidio di un intero popolo. E colpiscono davvero al cuore le parole del ritornello: “Noi sinti siamo come fiori / ci possono strappare / o lasciare a seccare / ma vivi di colori sempre / noi sinti non possiamo / che ritornare”. E anche qui si ritorna alla metafora della notte, vista questa volta come obnubilamento della coscienza umana; d’altronde, non si intitola proprio La notte un celebre romanzo di Elie Wiesel, una delle più crude testimonianze sulla barbarie nazista?
Chiude l’album Il mio inverno, il cui oscuro inizio lascia gradualmente il passo ad una luminosa ballata: “Se potessi fermarmi / resterei in quell’angolo di mondo / dove si può osservare tutto / senza essere visti / e tu / saresti il mio tutto”.
In sostanza, quello che i C.F.F. propongono è un canto crepuscolare, un momento di cauta riflessione, la colonna sonora dell’imbrunire che lascia il passo all’incedere della notte. Da ascoltare più volte, per cogliere tutte le suggestioni che nasconde. Così classico, eppure così dannatamente contemporaneo.

La copertina del disco

19 ottobre 2015

"Fiorirà l'aspidistra" di George Orwell: una guerra personale contro il dio denaro

“Siamo figli delle stelle, pronipoti di Sua Maestà il Denaro”, cantava qualche lustro fa Franco Battiato. Se Gordon Comstock, il protagonista del romanzo di Orwell, avesse conosciuto i versi di questa canzone, probabilmente li avrebbe eletti a proprio inno.
Gordon è un trentenne londinese, rampollo di una famiglia della media borghesia caduta in disgrazia. I pochi parenti superstiti, e soprattutto la sorella Julia, sognano per lui un buon posto di lavoro, convinti che potrà ridare lustro all’annacquato casato. Ma Gordon, più di ogni altra cosa, odia la vita piccolo-borghese che gli viene prospettata, disprezza le abitudini dei benpensanti, abiura la misera esistenza dell’uomo medio. Per lui, ciò che conta non è fare bene nella vita, perché questo inevitabilmente comporta la schiavitù, l’asservirsi alle regole di un sistema che detesta. Non vuole “fare bene”, ma sopravvivere nella sottile terra di nessuno tra l’apparente benessere e la nera miseria, cercando di avere successo nella poesia, sua grande passione e sincera aspirazione.
Tutto il suo odio si concentra su due simboli: il denaro e le aspidistre. Il primo è un bieco tiranno, elevato dagli uomini a vera è propria divinità; per i moderni, “è ciò che dio soleva essere” per gli antichi. Gordon ha un atteggiamento ambiguo verso il denaro, che chiama Dio Quattrino. Da un lato, vorrebbe affrancarsene, per essere libero come un anacoreta; dall’altro, però, ne ha un maledetto bisogno per le semplici necessità quotidiane. Dovrà perciò constatare che anche una vita al limite della indigenza ha un costo, e non può prescindere dal possesso di una somma, sia pur irrisoria, di denaro. L’altro nemico giurato è l’aspidistra, una pianta dalle foglie a forma di scudo, che decora le case della piccola borghesia inglese. Nell’aspidistra il protagonista identifica la summa del mondo che odia, il concentrato di tutte le perversioni umane. Perché, in fin dei conti, l’uomo medio altro non sogna che “sistemarsi, far bene, vendersi l’anima per una villetta o un’aspidistra”. Tutte le case londinesi hanno una di queste piante, così diffuse per la longevità e la straordinaria capacità di adattarsi ad ogni clima, di sopravvivere all’incuria umana, di crescere dove neppure il più esile filo d’erba riuscirebbe ad andare avanti. L’aspidistra, nella sua semplicità di pianta comune, è la quintessenza delle aspirazioni e del fallimento della classe media: il desiderio di una vita agiata che si scontra con l’amara constatazione della realtà, fatta di biechi agenti di commercio, operai pagati meno di una sterlina la settimana, modiste zitelle, procaci bariste di sordidi pubs, mariti annoiati che si trastullano con prostitute. Più che il simbolo del benessere borghese, l’aspidistra è il simulacro di un’esistenza solo apparentemente agiata, il fallace segno di chi crede di “avercela fatta” e la espone alle finestre come una bandiera.
Il credo di Gordon, professato con somma intransigenza, è tanto semplice quanto impossibile da realizzare: “unica religione è tenersi lontani dal sudicio denaro”. Eppure, per quanto fermo nei suoi propositi, Gordon non riuscirà a portare fino in fondo la sua ribellione, sarà costretto a soccombere alla malia del denaro (e delle aspidistre). E si troverà così a dover scegliere, a malincuore, tra una vita rispettabile e l’ostinata guerra ai quattrini, che conduce inevitabilmente al carcere, alla fogna, al cimitero.
In questo straordinario romanzo, Orwell ha compiuto una precisa scelta ideologica. La graduale soccombenza del protagonista, che da scapestrato diventa un borghese modello, con tanto di cravatta e aspidistra, non è altro che la vittoria del profitto sul puro ideale, la sconfitta dell’individualismo anarchico a tutto vantaggio di una visione utilitaristica dell’essere umano, semplice pedina di una scacchiera che non può dominare. Eppure, forse proprio per questa precisa scelta politica, il romanzo appare non solo realistico, ma addirittura vero, di una illuminante concretezza.
I personaggi si muovono in una Londra paurosa e tetra, abitata da esseri che hanno una consistenza poco più reale di quella di un fantasma; “in una città come Londra, ogni vita che si vive deve essere intollerabile e senza significato”, arriva a dire il giovane Comstock. Eppure, anche in questa cloaca dolorante e purulenta ci sono degli spiriti eletti, il cui contributo sarà essenziale per il rinsavimento di Gordon. Il primo è Ravelston, direttore della rivista Anticristo, cui Gordon occasionalmente collabora con delle poesie. Di famiglia agiata, Ravelston è una sorta di mecenate, che cerca di mettere in pratica i principi del socialismo: la sua casa è un andirivieni di artisti falliti, che aiuta con laute sovvenzioni. Poi c’è Rosemary, la devota fidanzata di Gordon, una delle più intense figure di donna che la letteratura del Novecento ci ha regalato. È una ragazza del popolo, dotata di solido buonsenso e di un temperamento mite ma non remissivo. Accetta le stranezze del fidanzato, anche se non riesce a capire fino in fondo la sua ossessione per il denaro; eppure, sarà proprio il suo amore devoto e incondizionato a ricondurlo sui solidi binari di un’esistenza borghese.
Sono tante e profonde le suggestioni di quest’opera, che con cocciuta superficialità viene definita “minore”. In verità, in essa c’è tanto della vita e del pensiero di Orwell, che alla lotta contro la tirannide – sia questa politica o finanziaria – dedicò la miglior parte della sua produzione letteraria.

La copertina di una vecchia edizione Mondadori

8 ottobre 2015

Alla scoperta di Wilko Johnson & The Solid Senders

Se compri un LP a due euro, il rischio è maggiore del possibile beneficio. E non parlo della perdita economica, ma dell’azzardo di poter esporre le orecchie ad una tortura immeritata. Ho capito che quando un vinile si trova ad un prezzo irrisorio sui banchi di un mercatino dell’usato, i casi sono tre. O si tratta della solita spazzatura dance-soul-pop anni Settanta-Ottanta con copertine tra il pessimo e l’ammiccante (nel 95% dei casi), oppure di una pietra miliare della storia della musica, che l’incauto commerciante non è consapevole di svendere ad un cinquantesimo del suo valore reale (2,5% dei casi). Residua un’ultima, sia pur marginale, possibilità: quella di aver adocchiato in mezzo a tanto ciarpame, e per giunta al prezzo di un astuccio di Big-babol, un decente disco di un artista ignoto ai più, quasi nuovo perché suonato pochissime volte. L’album ti attira perché, sebbene non hai la più pallida idea di quale sia il suo contenuto, strizza l’occhio a qualcosa che conosci, ha un’aria familiare e rassicurante. E quando lo ascolti, ti convinci definitivamente di aver fatto l’affare.
È quello che mi è accaduto con questo primo, omonimo e unico LP dei Solid Senders, misconosciuta (almeno per me) band inglese di fine Settanta. Mi sono imbattuto in una copertina che ricorda molto Marquee moon dei Television: i quattro del complesso in atteggiamento tra il serio e il minaccioso, con il leader in primo piano che pare un Tom Verlaine meno emaciato e più incazzato, con uno sguardo folle di sfida e tutto vestito di nero, dalla giacca alla camicia tutta abbottonata. Poi vengo a scoprire che il tizio, che risponde al nome di Wilko Johnson, è una celebrità nel Regno Unito, per essere stato il chitarrista dei leggendari Dr. Feelgood. E proprio per i dissapori con gli altri componenti della sua vecchia band, Wilko se ne andò sbattendo la porta e fondando nel 1978 i Solid Senders, assieme ad Alan Platt (batteria), Steve Lewins (basso) e John Potter (tastiere).
Quando il disco inizia a girare sul piatto è subito chiaro che non si tratta di punk, né di nascente new wave alla Television: è blues-rock, il primo amore di Wilko, quello mai abbandonato. Il gruppo propone un suono contaminato in parte dal beat (Beatles, Kinks) e, sia pure in misura minore, dal garage. È un lavoro onesto, che lascia trasparire la tecnica cristallina di Wilko. Restano nella memoria specialmente i pezzi della prima facciata, quali Blazing fountains, You’re in my way e First thing in the morning (impreziosita dal sax).
Il disco scorre via nelle sue undici tracce senza alti né bassi, sempre sulla stessa falsariga, senza raggiungere picchi significativi ma lasciando soddisfatto l’ascoltatore. Insomma, se lo trovate abbandonato e dimenticato sopra un polveroso banco dell’usato, ricordatevi dell’immagine qui sotto e compratelo.
Copertina del disco. Foto tratta da vynilrock.net
Su YouTube ci sono molti video per poter apprezzare la perizia tecnica di Wilko Johnson, coi suoi completi neri, l’aria assonnata e spettinata, le smorfie continue e il celebre incedere “da papera” sul palco. Uno fra i tanti è questo.

26 settembre 2015

Cadere tra le braccia della Venere di Milo: "Marquee moon" dei Television

Marquee moon dei Television è uno di quei dischi perfetti, che hanno l’ostinata capacità di resistere agli anni e alle mode. Un lavoro diverso da ogni altro, originalissimo e dal suono inconfondibile. L’anno era il 1977, quando i clamori del punk, dopo due anni o poco più, erano già sul punto di spegnersi; la scintilla che tanto aveva infiammato l’Europa e l’America sembrava giunta alla sua fine naturale, aver terminato il breve ciclo di combustione. D’altronde, il “no future” era proprio uno dei principali inni del movimento.
I newyorkesi Television erano capitanati da Tom Verlaine, la cui chitarra distorta, secondo la calzante definizione di Patti Smith, aveva “un suono simile allo stridio di mille uccelli”. Completavano la formazione Richard Lloyd alla seconda chitarra, Billy Ficca alla batteria e Fred Smith al basso.
Il disco di esordio si presenta talmente innovativo e convincente da costituire imprescindibile punto di riferimento per tanti artisti che verranno dopo. Marquee moon non si presta a facili definizioni, perché porta avanti il discorso del punk e lo supera. Si potrebbe citare un altro lavoro coevo, ovvero The scream di Siouxsie and the Banshees; rispetto a quest’ultimo, però, l’album di Verlaine e soci è portatore di una forza ancora più dirompente. É l’anello di congiunzione tra il punk e la new wave, tra due modi differenti di esprimere il malessere esistenziale: se il primo era velocità e due accordi, i Television dimostrano invece di saper suonare e, soprattutto, di farlo con un proprio stile.
Da rimarcare la centralità dei testi. Il nome d’arte del leader del gruppo è un chiaro omaggio al grande poeta francese; le sue liriche sono criptiche e visionarie, dense di immagini distorte e riflesse, tra l’illusione e l’allucinazione. Raccontano il male di vivere, l’incapacità di esprimersi dell’uomo contemporaneo. Un’immagine su tutte: nel brano che dà il titolo all’album appare l’inquietante figura di un’auto che esce da un cimitero e invita il protagonista a montare su, per condurlo nei luoghi più remoti e oscuri del suo animo.
Otto le tracce. La title track, di oltre dieci minuti, è un lungo viaggio nelle tentazioni oniriche di Verlaine, un impasto stridente di chitarre che seguono due linee melodiche diverse, con un perfetto innesto della sezione ritmica. Ipnotica e allucinante, è destinata a rimanere a lungo nella mente dell’ascoltatore. Seguono le divagazioni crepuscolari di Friction ed Elevation, gli sprazzi di luce di Guiding light (a dirci che non tutto è perduto), la melodia apparentemente balneare di Prove it, nonché quello che – a mio modesto avviso – è il capolavoro dell’intero disco: Venus. Il brano, che richiama atmosfere velvettiane, è un incedere maestoso culminante nell’epico ritornello, dove Tom, senza nascondersi, ammette di essere “caduto tra le braccia della Venere di Milo”, approdo di un’esistenza votata all’indagine degli aspetti più reconditi e immaginari dell’esperienza umana. Chiude il disco Torn curtain, epica e teatrale, che lascia intravedere altri mondi possibili oltre il velo della tenda, al di là dello scuro sipario.
A quasi quarant’anni dall’uscita, resta un disco fondamentale, che avrebbe meritato ben altra fortuna. I Television spariranno di lì a poco, ma con l’orgoglio di aver composto un lavoro originale, l’anello mancante, la traccia di collegamento tra il punk e la new wave. Il tutto senza dimenticare il passato, che portava i nomi di Velvet Underground, Jefferson Airplane e 13th Floor Elevators.
La leggendaria copertina del disco

14 settembre 2015

"Giuseppe Tardio" di Antonio Caiazza: una biografia del brigante-avvocato cilentano

Tra tutte le figure di “briganti” che la storia e le narrazioni popolari ci hanno tramandato, quella di Giuseppe Tardio da Piaggine occupa un posto particolare, per almeno due ragioni. La prima riguarda il suo status sociale: mentre la maggior parte dei briganti proveniva dagli strati più miserabili della società – poveri braccianti, fittavoli analfabeti, pastori, criminali comuni, soldati sbandati del disciolto esercito borbonico – Tardio era un avvocato. Laureatosi in Legge nel 1858, decise, dopo una parentesi antiborbonica, di aderire alla causa dei legittimisti, fondando una delle bande più temute della Provincia di Principato Citra (l’attuale Cilento e Vallo di Diano). Anziché sfruttare il proprio ruolo sociale e intraprendere una carriera, quella forense, che gli avrebbe garantito successi e agiatezza, preferì rintanarsi sui monti e sostenere la causa antiunitaria. Già questo aspetto contribuisce a sfatare un’inesattezza storica, delineando il ruolo che le classi più elevate e le persone istruite ebbero nella lotta che maturò dopo il 1860. Il secondo elemento di sicuro interesse è rappresentato dalla natura eminentemente politica dell’azione rivoluzionaria di Tardio. Ricevuto il grado di Maggiore direttamente dal Governo borbonico in esilio, il piagginese agì al solo scopo di restaurare la legittima monarchia sul trono di Napoli. Ogni sua azione venne presentata sotto le insegne di Francesco II, di cui Tardio si qualificava come emissario ufficiale. L’aspetto eminentemente politico dell’attività dell’avvocato cilentano porta a riconsiderare lo stesso termine “brigantaggio”, che in tale ipotesi appare decisamente improprio, trattandosi più che altro di un’azione legittimista e non di criminalità comune. Resta quindi aperta una domanda: si può definire “brigante” un uomo le cui gesta, sia pure contra legem, erano munite di legittimazione sovrana?
Tutti questi aspetti sono chiaramente messi in luce nel saggio di Antonio Caiazza. Giuseppe Tardio. Brigantaggio politico nel periodo postunitario in Provincia di Salerno è stato pubblicato per la prima volta nel 1986, per poi essere ristampato, in edizione riveduta, nel 2015 dalle Edizioni dell’Ippogrifo. Si tratta di un’opera fondamentale per conoscere una vicenda forse poco nota a livello nazionale, ma che cambiò profondamente il volto e la storia del Cilento. L’autore ricostruisce con esattezza e ricchezza di dettagli l’impresa legittimista del Tardio, dallo sbarco di Agropoli fino alla battaglia di Magliano Grande del giugno del 1863, che di fatto pose termine alle scorrerie. Il resoconto di tutte le azioni “brigantesche” è dettagliato e attento; Caiazza si avvale di una mole sterminata di documenti, privilegiando soprattutto le fonti giudiziarie, quali gli atti processuali: interi stralci di sentenze e di verbali di udienza sono infatti riportati in nota e in appendice. L’autore riesce abilmente ad evitare toni apologetici, mantenendo uno stile neutro e distaccato, che non dà giudizi e lascia al lettore ogni valutazione in merito. La figura di Tardio che emerge dal libro appare così bifronte: da un lato, ci appare come il paladino degli oppressi contro gli oppressori; dall’altro, però, non si possono tacere le violenze e le grassazioni che avvennero in nome del Re considerato legittimo.  
Il libro, inoltre, è arricchito da foto e documenti dell’epoca (anche autografi dello stesso Tardio), tabelle e schemi riassuntivi. Ma non è semplicemente un lavoro sull’operato del legale piagginese; il libro è un quadro vivido del Cilento (e, più in generale, dell’Italia meridionale) negli anni che seguirono l’unificazione, un resoconto puntuale che consente al lettore di comprendere le ragioni dei vincitori e dei vinti, nonché il modus operandi – egualmente spietato e contrario alla legge – degli uni e degli altri. Lo si può leggere, dunque, secondo due prospettive: o come biografia di un personaggio a suo modo eccezionale, oppure come completamento di uno studio di più ampia portata sul cosiddetto brigantaggio postunitario.

6 settembre 2015

"Le rovine in attesa": il video della presentazione alla Fondazione Alario

Il 25 agosto 2015, nella suggestiva cornice di Palazzo Alario in Ascea Marina (Sa), si è tenuta la presentazione de “Le rovine in attesa” curata dalla Fondazione Alario e da Il giglio marino o.n.l.u.s. L’incontro era inserito nel cartellone della rassegna LeggerMente – Incontri d’autore alla Fondazione Alario, che nei mesi di luglio e agosto ha ospitato generi letterari fra i più disparati, dalla narrativa alla poesia, dal teatro al reportage.
Voglio ringraziare coloro i quali hanno reso possibile l’evento: Nicola Botti (organizzatore), Gerardo Russo (giornalista), Marcello D’Aiuto (Presidente della Fondazione Alario) e Vince Esposito (responsabile della Biblioteca Alario).
Un ringraziamento particolare, infine, va al numeroso pubblico, ad Antonino Tomeo per il filmato ed a Sara Nigro per le fotografie.



2 settembre 2015

I miei video su YouTube

Su YouTube è presente una pagina con tutti i filmati che mi riguardano, dalle presentazioni dei libri alle altre iniziative ed eventi cui ho partecipato. La playlist è periodicamente aggiornata.

26 agosto 2015

"Le rovine in attesa: un nuovo genere di romanzo filosofico". La recensione di Gerardo Russo

Una recensione de Le rovine in attesa è stata pubblicata sul sito sudsostenibile.it. La riporto di seguito, ringraziando l’autore, il giornalista Gerardo Russo, per le parole di elogio che ha voluto spendere.

“LE ROVINE IN ATTESA”: UN NUOVO GENERE DI ROMANZO FILOSOFICO
A cura di Gerardo Russo 
Cosa c’è dietro un maniero che si erge sulla cima di una collina, all’estremità di un paese del Mezzogiorno? Cosa ne anima ancora le mura austere, gli stanzoni bui e freddi e la stessa vita dell’ultimo discendente di una stirpe di condottieri, prelati e grossi proprietari terrieri? I secoli han portato via il regno di cui queste mura robuste erano a guardia, ne han portato via l’autorità e il potere. I secoli ne hanno decretato la morte, lenta e inesorabile.
Eppure non tutto è perduto: quelle mura possenti hanno ceduto solo in parte; rimane, indelebile, un patto etico che la sensibilità, messa a dura prova dal mondo virtuale, potrebbe riuscire ancora cogliere. Sono queste “le rovine in attesa” e questi i pensieri che si affollano nella mente dopo che gli occhi si sono staccati dall’ultima pagina del romanzo del giovane Alfonso Cernelli. La struttura narrativa de “Le rovine in attesa” ha una valenza filosofica più che letteraria: non v’è una narrazione allegorica che si sviluppa sulla dialettica “protagonista-antagonista”, non v”è una vera e propria “fabula” ricca di intrecci. Il racconto inizia con una descrizione quasi giornalistica della vita di due giovani in una città: uno di loro, Erminio Narri, ha terminato, con ottimi risultati, gli studi giuridici. La triste condizione di una società in via di decadenza lo costringe a lavorare in una biblioteca e a tentar di strappare una donna ad un poeta dozzinale attraverso circoli, bar e bistrot. A modificare questa monotonia “fin de siècle” è la lettera di un marchese del Sud, sembra quasi di leggerne una provenienza cilentana, Alberico Priviano, che offre al giovane l’incarico, segreto sino a metà del romanzo, di fondare uno Stato meridionale attraverso una nuova Carta Costituzionale, una summa di valori etici che colleghino l’austerità del passato con la frivolezza del moderno. Questa carta dei valori viene concepita e redatta, ma, causa l’interdizione del nobile, rimane sui fogli che Priviano, in attesa di essere quasi deportato al sanatorio, scorre con lo sguardo compiaciuto e firma, sottoscrivendone l’intesa valoriale. La dialettica, si diceva, non è narrativa, ma scorre sul terreno della costruzione filosofica. La narrazione si dirama su due registri epidittici. Il primo registro promana dall’austerità del passato. Si fonda su una nobiltà, forse un tempo ricca di vizi, ma pregna di valori e di contenuti, ormai in decadenza: l’antica torre di palazzo Priviano svetta ancora sulla vallata e sul paese sottostante, rimane ancora il cuore forte e altero del resto del palazzo e del giardino a pezzi.
Questo registro narrativo definisce un effetto compartecipativo: si svolge in una narrazione più piana, ricca di particolari descrittivi che ne accelerano una confidenzialità estetica. Il secondo registro è invece più distaccato, ha un’intensità semantica volutamente più fredda, quasi a voler sfiorare il racconto dei fatti in un processo. E’ la frivolezza del presente: dalla precarietà del lavoro del giovane guirista, che nel romanzo non verrà mai chiamato per nome, ma sarà, quasi col gelo della cronaca giudiziaria, “il Narri”, alla debolezza di un amore tra Erminio ed Anna. Un sentimento, quest’ultimo, che già alla nascita non ha consistenza e si sfarina, nel prosieguo della narrazione, nei vani tentativi di Erminio di scrivere lettere d’amore dalla residenza nobiliare e in una sorta d’inseguimento quando, tornato per pochi giorni in città, rivede la ragazza uscire dal portone di casa. Sembra che, questa dell’inseguimento, sia un’impresa cominciata controvoglia: più per dare spiegazioni che col preciso intento di ridare consistenza al gioco amoroso. La contrapposizione, non dialettica, avviene tra questi due registri narrativi: il “pathos” che svetta dal passato con un ultimo discendente di una casata nobiliare in rovina e l’insicurezza di un’attualità liquida, dove niente ha più sostanza, nemmeno gli affetti. Si potrebbe affermare che la contrapposizione è tra “due decadenze”: un mondo che non c’è più, ma di questo se ne scorgono le vestigia prepotenti, e un mondo che forse non c’è mai stato, vissuto e trasmesso su fogli virtuali. Tutto è perduto? Non ci può essere un ponte tra queste due derive? Il ponte, sembra suggerire il giovane autore, non può essere virtuale, deve poggiare sulla consistenza di un esercizio quotidiano e costante. La sigla della Costituzione, nelle ultime pagine del romanzo, vuole sancire un patto, un ponte di valori etici che da contratto intergenerazionale tra un vecchio signore, ormai privo di autorità, e un giovane giurista, che non sa come sbarcare il lunario. Proprio su questo lembo tra passato e presente si eleva un richiamo esistenziale. Il richiamo al Mezzogiorno acquista così un valore di palingenesi culturale più che avere contenuti meridionalisti. Il Mezzogiorno è depositario di valori che hanno attraversato i secoli: le “rovine in attesa” sono al Sud, ma questa non vuole essere un’ammonizione, è invece un richiamo, quasi sussurrato con la forza descrittiva della natura, delle pietre, dei palazzi, che, nonostante l’età e l’incuria, rimangono in piedi nella loro severa austerità. Questo è, in sintesi, il valore filosofico del romanzo, il secondo, di Alfonso Cernelli.     
E’ un lavoro che detta con maggiore incidenza un percorso che si intravedeva già nella sua opera di esordio. E’, il romanzo filosofico, un’ottica per indagare l’animo umano che ha origini lontane, un campo poco battuto nella deriva di “thrilleraggio” che, ormai da decenni, ha assunto l’industria editoriale contemporanea. Eppure, la ricchezza di prospettiva, la rara perizia del giovane autore nel toccare temi così alti e austeri, fanno del romanzo un vero e proprio capolavoro.

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22 agosto 2015

"Pensieri puri e pericolosi: rovine in attesa". La recensione di Serena Di Sevo

Sulla rivista “La Mandragola” è apparsa una interessante recensione de Le rovine in attesa, a cura della giornalista Serena Di Sevo. Riporto di seguito le sue parole, cogliendo l’occasione per ringraziarla per i molti e nuovi spunti di riflessione sull’opera.

PENSIERI PURI E PERICOLOSI: ROVINE IN ATTESA
A cura di Serena Di Sevo 
Tra le tentazioni della modernità sua eccellenza tentazione è di certo quella del passato, un luogo in cui rifugiarsi alla ricerca di quei valori che si ritengono perduti. La modernità può essere vissuta con fastidio, condanna e incomprensione, farsi concetto assoluto del disagio e dell’estraneità rispetto al sentire altrui. È nella politica che questo disagio si manifesta prepotente: una tabula rasa di programmazione, ideali, diversificazione che produce quell’horror vacui che con termine terribile chiamiamo qualunquismo ma che di fatto è rassegnazione a un presente che non si può cambiare. La lotta, laddove resiste, parla la lingua vecchia del passato, un passato che nostalgicamente proviamo a ricostruire criticamente. Nelle desolate terre del sud Italia la rassegnazione è incancrenita nella convinzione di essere condannatati a un destino ineluttabile e crudele originato, secondo l’opinione di molti, da quella ferita mai curata dell’unificazione nazionale. Chi ha strappato il meridione dai fasti e dalla gloria, da un’identità di popolo unito sotto la stessa cultura, lo stesso re, lo ha fatto con false promesse e con cattiva coscienza. Il nostro sud è come una vecchia casa in rovina ristrutturata secondo regole scorrette che hanno impiantato, in luogo di forti pietre e pregiati legni, effimere promesse laddove profumavano i limoni e fiorivano le vigne e i ciliegi. Pensiero puro e pericoloso. Rovine in attesa.
Cosa accadrebbe se da questo pensiero si provasse a fare un passo più in là, un progetto di rinascita, un progetto rivoluzionario che porti le lancette della storia indietro nel tempo senza cancellare l’esperienza del tempo intanto trascorso? L’ultimo libro del giovane scrittore di origini cilentane Alfonso Cernelli, "Le rovine in attesa", parte proprio da questo presupposto per narrare con delicatezza il tema del passato nell’ossessione di un nobiluomo in rovina, arroccato nel suo palazzo, nascosto tra i libri di una ricca biblioteca, a coltivare progetti rivoluzionari per la propria terra. Un destino, quello del marchese Alberico Priviano, condannato e fatalmente destinato ad incontrarsi con altrettanta solitudine: il giovane Erminio Narri, giurista bibliotecario insoddisfatto e frustrato riceve una misteriosa lettera in cui gli viene offerto un incarico segretissimo e importante. Erminio lascia tutto, un amore, un lavoro sicuro, gli amici, per abbandonarsi al caso e all’incertezza, per inseguire la tentazione di un sogno di grandezza, trovare uno scopo più alto alla propria esistenza.
I due uomini si immergono nella costruzione di un nuovo ordine socio-politico e si abbandonano alla folle illusione di poter cambiare il corso della storia. Sprofondati nella solitudine, don Alberico e il Narri trovano reciproco sostegno nutrendosi di entusiasmo per un comune e nobile obiettivo: fondare un nuovo stato e dotarlo di una carta costituzionale. Nella storia di don Alberico e del Narri troviamo una tentazione e una sconfitta che è affermazione di un’attesa: il nostro sud, le rovine del passato mummificate, le potenzialità sempre inespresse della nostra terra, attendono che la lotta si compia nel presente, con la lingua e la testa di oggi per costruire il domani. Il coraggio di esprimere questo concetto semplice e cruciale risiede nella stesura stessa del libro, nella scelta di esprimersi in narrativa, in una narrazione peraltro non sentenziosa, che non conclude: il libro lascia aperto il finale, le conclusioni e persino le interrogazioni, evitando il bozzetto meridionalista, ponendolo anzi come imputato. Perché gli slogan e le sublimazioni, le frasi fatte e i luoghi comuni, sono forse i peggiori nemici della nostra ossessione di rinascita: gli alimentatori di confusioni e ignoranze sotto le quali ci siamo irrimediabilmente sepolti.


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20 agosto 2015

"Slow man" di J.M. Coetzee: un uomo a metà

Un uomo perde una parte di sé per ritrovare se stesso. O meglio, un uomo perde l’integrità fisica per recuperare quella morale. Questa l’essenza del romanzo di Coetzee pubblicato nel 2006, dopo il conferimento all’autore del Premio Nobel per la Letteratura.
Paul Rayment ha sessant’anni e vive da solo in un grande appartamento di Adelaide, circondato dalle fotografie sulla storia dell’Australia che intende donare alla Biblioteca civica. Una volta passato a miglior vita, nessuno si ricorderà di lui e il suo nome rimarrà impresso soltanto in un polveroso archivio pubblico, sui documenti del fondo che gli sarà intitolato. L’occasione di cambiare vita e, soprattutto, di spargere nel mondo un po’ d’amore, si presenta inaspettata, quando un incauto automobilista lo travolge facendogli perdere una gamba. L’incidente, anziché avvicinarlo alla morte, diviene un’occasione di rinascita. La chiave del cambiamento è l’amore per Marijiana, l’infermiera di origine croata che lo accudisce. Ma questo sentimento supera la dimensione puramente carnale del rapporto uomo-donna, per diventare qualcosa di diverso e più profondo. Paul Rayment intraprende una strada che mai avrebbe immaginato di poter percorrere: l’esperienza della paternità. L’amore per Marijiana, infatti, trascende la solida figura di lei, per irradiarsi su tutta la sua famiglia, in particolare sui figli. La passione (non corrisposta, per la verità) diventa travolgente, passando dall’adorazione all’ossessione, mettendo lo stesso Paul in ridicolo. Eppure, il suo desiderio è privo di ogni malizia: vorrebbe semplicemente diventare il nume tutelare della famiglia di Marijiana, provando la sensazione e la responsabilità di essere padre, anche se in tarda età.
L’opera dello scrittore sudafricano scruta con profondità di analisi un aspetto spesso trascurato, per disinteresse o reticenza: il rapporto tra handicap e desiderio. E il merito di Coetzee è quello di aver indagato con sensibilità e giusto distacco, sul presupposto che la vitalità dei sensi prescinde dalla pienezza della forma fisica. Si può amare da anziani e da malati, con la stessa drammatica pienezza della gioventù.
Slow man non è certamente il miglior romanzo di Coetzee, né un libro imprescindibile. Tuttavia, riesce ad offrire interessanti spunti di riflessione su tematiche di rilevanza universale, quali il contrasto tra deformità e bellezza, l’accettazione del diverso, l’insopprimibile bisogno di andare avanti anche quando il destino sembra aver poggiato un velo scuro sulle nostre spalle.

1 agosto 2015

"Le rovine in attesa": la recensione di Giuseppe Baiocco

Lo scrittore e neuropsichiatra Giuseppe Baiocco ha scritto una interessante recensione del mio romanzo Le rovine in attesa, cogliendone con grande maestria spunti e suggestioni. Lo ringrazio per il graditissimo omaggio.

La recensione 
Nel romanzo "Le rovine in attesa" di Alfonso Cernelli, il palazzo turrito di don Alberico ci appare come il santuario dell’umana esistenza, svettante verso la sommità del cielo dove ci si aspetterebbe di vedere Mosè ricevere le tavole della legge. Di legge, in realtà, nella torre avita si parla e molto ma nel senso di Costituzione morale da consegnare all’aristocrazia del mondo per liberare l’uomo da ogni "strumento di repressione". Un uomo non utopico – ben inteso – ma storicamente agente nelle lotte di popolo contro il tiranno. Si può giustificare il travolgimento violento di una civiltà, sia pure in rovina, per promuovere un'utopica Costituzione moralmente alta al fine di rendere buona e giusta l'umanità così generata? É da qui che prende corpo la stupenda narrazione del romanzo, anche se lo spleen narrativo si lascia pervadere sin da subito dall'attesa cotardiana del crollo cosmico (una sorta di Aspettando Godot alla rovescia): l’umana ragione dei protagonisti – disastrata dalle storie che la sconvolgono – vive con la disposizione d’animo di chi va in rovina, rassegnato alla fine ineluttabile. Affabulante nella sua desolazione ci appare questo santuario pensile sospeso nel cielo, per raggiungere il quale c’è solo un'angusta via metafisica, il corso: "espressione tanto fuori luogo" da essere essa stessa un non-luogo di quel mondo.
Eccoci dunque, alle relazioni tra i personaggi del romanzo tutte pregne di una crepuscolarità umorale depressa che oscura l'eros del sentimento pur di allontanare la rovina che incombe. E a nulla servirà fuggire lontano in cerca di fortuna, come fa Erminio: la sua non è una ribellione titanica contro il dio-tiranno della storia (i piemontesi) ma un acquattarsi in attesa per ritrovare in essa un cantuccio in cui vivacchiare. Come appaiono lontani i vagheggiamenti su Errico Malatesta al Caffè degli Oracoli e sugli ideali rissosi degli spiriti ribelli!
Quello di don Alberico è un palazzo dell'immaginario, è una galassia dove si approda dalle vie più disparate e da cui non c'è più ritorno perché è frontiera di troppi mondi fantasmatici insieme, quello della ragione in fuga, delle emozioni coercite, delle passioni ritualizzate, dei sentimenti-ossessione. Il marchese e i suoi "cortigiani" si muovono sullo scenario del romanzo come controfigure dell'inconscio, un inconscio più simile ai gironi danteschi che alle istanze freudiane.
Chi vive nella torre è un “eletto” o meglio un predestinato e forse per questo tra di loro si stabilisce un collante umano forte quanto una religione, una cospirazione, una regola monastica, una mistica sovversiva. Lì, ove si abbatte ogni genere di avversità con la forza fascinatrice del mito (intemperie, desolazione, rovina, vecchiaia), non può non allignare anche l’archetipo dell'umanità più malvagia: i due amanti fedifraghi. Su di loro non deve calare un giudizio morale di condanna perché "necessari" all'economia del romanzo, necessari quanto Giuda al trionfo di Cristo. Solo che in "Rovine in attesa" non c'è delitto, né castigo e, peggio ancora, non c'è crisi catartica, quindi "resurrezione".
Un consiglio: il libro è così denso di retrogusti che va assaporato soprattutto dopo che si è finito di leggerlo, rivisitandone le "stanze" che hanno scaricato sul nostro immaginario le loro suggestioni visuali.

L’autore
Giuseppe Baiocco dice di sé: «Sono un marchigiano delle Marche "sporche" (cioè del maceratese), mi sono sempre nutrito di sentimenti forti e passioni che hanno costellato la mia esistenza, in modo diverso a seconda delle stagioni della vita. La biologia è stata la prima di queste solo per ordine di tempo (anche perché è quella che mi ha nutrito - in tutti i sensi - per quarant'anni), poi la poesia (Aretusa, 1986) e infine la narrativa (Storie di Borgo e di Bottega, 2002 - La donna di Villamare, 2014). In mezzo a queste, si è inserito l'amore per la fotografia (fotoSvagando), arte che in qualche modo rappresenta un ponte tra le due potendo essa figurare immagini estratte dall'immaginario delle altre. Ho rincorso tutta la vita il grande sogno di scrivere il "mio" romanzo, perché quello (specie se è il primo e magari sarà anche l'unico) ti rappresenta come nessuna altra cosa al mondo e proprio come un mondo in cui ti sei incarnato lo puoi  condividere, nella sua pienezza psicologica, anche con chi non ti conosce e non ti conoscerà mai. Il destino ha voluto che, proprio grazie a "lui", io abbia incontrato per i "mari delle lettere" Alfonso e il suo romanzo "Le rovine in attesa". Ecco perché mi trovate in questo blog».