31 marzo 2015

Un itinerario insolito: il casale di Melito nel comune di Prignano Cilento

Goethe e gli altri viaggiatori del Grand Tour raggiunsero il Cilento specialmente per ammirare le rovine di Paestum. La maggior parte preferì seguire la linea della costa; pochi, invece, ebbero l’ardire di inoltrarsi nell’entroterra, in un mondo ancora lontano dalle comodità e dalle corruzioni della modernità, in una terra descritta come selvaggia e inospitale, quasi primitiva. Tra questi ultimi vi erano storici, geologi e geografi che, per diletto, studio o lavoro, attraversarono le contrade interne. Il nobile Francesco Antonio Ventimiglia, vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, autore di un’opera intitolata Il Cilento illustrato, visitò Melito, definendolo “picciol paesetto ma vago”. Interessante è l’aggettivo utilizzato per descrivere il casale. “Vago” è una parola che oggi usiamo per indicare qualcosa di indefinito, di confuso, spesso con un’accezione negativa. Nella lingua letteraria, invece, l’aggettivo può essere impiegato per connotare un luogo, fisico o dell’animo, che presenta una vaga sfumatura di incanto, di soffusa bellezza, quasi onirica. Si pensi al celebre “vago avvenir che in mente avevi” di Giacomo Leopardi.
Melito è una delle frazioni storiche del comune di Prignano Cilento. A differenza di San Giuliano, che è stato di fatto inglobato dal capoluogo, e di Poglisi, che è scomparso, Melito ha mantenuto la propria fisionomia, con gli stretti vicoli, gli archi, una cappella, una torre medioevale e qualche casa antica che, per censo dei suoi proprietari, veniva e viene tuttora chiamata “palazzo”. Si può dire che ancora oggi il villaggio sia connotato di una propria individualità, nonostante una serie di interventi edilizi non sempre felici, che ne hanno mutato in parte l’aspetto, senza stravolgerlo.
Sull’origine di Melito e del suo nome non si hanno fonti certe, per cui è possibile solo fare delle congetture. Secondo la tesi prevalente, venne fondato dagli abitanti delle località marittime che, per sfuggire alle incursioni dei Saraceni che devastavano le zone costiere, si rifugiarono nell’entroterra cilentano. Per tali ragioni, l’origine dell’insediamento potrebbe essere collocata addirittura tra i secoli IX e X d.C., considerando che Agropoli fu occupata dai Saraceni nel periodo che va dall’anno 882 al 915 d.C. Non si può però escludere che il Casalis Maleti (come veniva anticamente chiamato) sia ciò che rimane di un risalente insediamento monastico. Sappiamo, infatti, che molti agglomerati urbani del Cilento sono sorti intorno a conventi o monasteri, di cui spesso non è rimasta traccia. La stessa parola “casale”, che indica solitamente un insediamento rurale, si riferisce ai piccoli stanziamenti umani circondati da terre di proprietà degli enti ecclesiastici, che li concedevano ai contadini affinché potessero trarne mezzi per la loro sussistenza. Questa genesi rurale spiegherebbe anche il nome “Melito”, forse dalla presenza di estesi meleti.
Fare una breve ricognizione della storia del villaggio significa sostanzialmente riportare una lunga sequela di passaggi feudali, dal XII secolo fino all’eversione del regime feudale negli anni 1806-1808. Il grande storico Pietro Ebner ritiene che il villaggio abbia costituito una universitas autonoma sino alla sua aggregazione a Prignano. Per questa ragione, almeno a partire dal XV secolo, la sua storia appare strettamente intrecciata a quella del capoluogo. Prospero Lanara, Giovanni Alfonso Samudio, Bernardino Rota, Giovanni Ayerbo sono alcuni degli evocativi nomi dei feudatari o di coloro che, in qualche modo, ebbero una certa giurisdizione sul villaggio; fino a giungere, nel 1701, alla cessione del casale (e del capoluogo Prignano) ai marchesi Cardone, ultimi titolari del feudo.   
Venendo all’itinerario proposto, si può partire da un largo spiazzo che si trova ad una delle estremità del paese: la cosiddetta “piazza della Croce”. Il nome non è riportato sugli stradari, ma le è stato attribuito dagli abitanti, per via di una colonna in pietra di poco più di due metri, sormontata da una croce di ferro. Il manufatto è stato eretto nel 1712, a ricordo di una missione dei Padri Carmelitani. A seguito di un incidente, la colonna venne abbattuta, per poi essere riposizionata, sia pure ridotta in altezza. Al lato della croce ha inizio il Vico degli aranci, suggestiva stradina che costituisce il nucleo più antico del villaggio. Superati due palazzetti con caratteristici portali decorati in pietra locale, si arriva alla Torre Volpe, certamente l’edificio di maggiore interesse. Si tratta di una struttura difensiva in pietra, poi trasformata in civile abitazione, eretta probabilmente nel corso del secolo XI. Oggetto di un recente e attento restauro, ha struttura quadrangolare e merlata, e conserva sul lato destro rispetto alla facciata le pietre che fungevano da cardini per il ponte levatoio. È alta circa quindici metri e presenta i segni delle antiche feritoie e dei vari rimaneggiamenti succedutisi nei secoli. Sulla facciata è possibile ammirare lo stemma in pietra della famiglia Volpe, che ha dato il nome all’edificio. Fa parte dell’A.D.S.I., associazione che riunisce le dimore storiche italiane. Alla torre è legata un’antica leggenda; si narra che durante i terribili assedi saraceni, venisse installata sulla facciata una particolare macchina da guerra, una specie di grande ruota di mulino con catene di ferro alle cui estremità si trovavano sfere di pietra che, per effetto della rotazione del marchingegno, venivano scagliate contro gli assedianti. 
Uscendo dal Vico degli aranci e svoltando a sinistra, ci si incammina lungo Via S. Caterina, fino ad arrivare, dopo poco più di cento metri, all’omonima cappella, cuore religioso del casale. La chiesa si trova in cima ad una breve scalinata; sulla facciata è un mosaico a piastrelle che raffigura la Santa. Il primo documento ufficiale che attesta l’esistenza della chiesa in Melito è del 1516, anno in cui il Vescovo di Capaccio Vincenzo Galeota conferì al sacerdote Nicolae di Vitiis l’incarico di amministratore perpetuo della cappella “positam intus casale Mileti”. Gli storici, tuttavia, ritengono che l’edificazione risalga ad un’epoca anteriore. In particolare, è probabile che il nucleo originario dell’edificio sia coevo alla fondazione del villaggio, per comprensibili esigenze di culto della popolazione. Sappiamo, inoltre, che anticamente la chiesetta era assai venerata, in quanto il vicario De Pace parla di “magno concurso toti Cilenti” (grande affluenza da tutto il Cilento). Più volte ristrutturata e rimaneggiata negli anni successivi, la Chiesa mantiene della sua forma originaria esclusivamente la struttura. All'interno, a navata unica separata dal presbiterio da un arco a tutto sesto, è un pregevole altare in pietra e calcina, datato 1835. La statua lignea della Santa, raffigurata con la ruota del martirio, è stata acquistata nel 1869. La cappella di Melito ha a lungo conservato una pregevole tela del XVII secolo, raffigurante il Mistico sposalizio di Santa Caterina con Gesù. Per ragioni di sicurezza, e per preservarlo dall’umidità, il dipinto è stato trasferito presso la Chiesa madre di Prignano, dove lo si può ammirare in fondo alla navata sinistra.
L’itinerario melitese si conclude con una breve sortita alla cosiddetta Fontana Vecchia. Sulla sinistra rispetto alla facciata della cappella c’è un’altra scalinata, che conduce ad un caratteristico arco e, superato questo, ad una curiosa fonte che ha la forma di una casetta, anche questa oggetto di recente restauro. Non si hanno notizie certe sulla sua data di edificazione, ma di certo è assai antica, almeno quanto il villaggio. Oltre la porticina d’ingresso, si scorge un unico ambiente, che costituisce la vasca dell’acqua.
Che cosa resta al viaggiatore di questo insolito itinerario? Certamente non avrà ammirato grandi monumenti, né supreme vestigia del passato. Tuttavia, avrà avuto modo di assaporare il silenzio, gli odori, gli scorci e quel suggestivo e malinconico senso di abbandono che costituiscono un tratto peculiare di ogni tipico villaggio rurale dell’entroterra cilentano.
La Piazza della Croce e la Torre Volpe (foto di Alfonso Cernelli)
Per ulteriori informazioni, vi invito a consultare la pagina Wikipedia, che ho curato personalmente.

17 marzo 2015

"Il grande amico Meaulnes" di Alain-Fournier: l'infanzia come "hortus conclusus"

Esiste una particolare categoria di scrittori, quella degli “autori di una sola opera”, che conta molti nomi eccellenti e altri più o meno conosciuti. Di questa nutrita schiera fanno parte personaggi che devono la celebrità ad un solo romanzo, pur avendo composto altre opere (come Tomasi di Lampedusa o Radiguet), e altri che, in effetti, sono autori di un unico lavoro. Alain-Fournier (1886-1914) è uno di questi ultimi; è suo Il grande amico Meaulnes – noto anche con le traduzioni Il gran Meaulnes o semplicemente Il grande amico – che gli ha dato grandissima fama postuma e unanime approvazione di pubblico e critica. Il giornale transalpino Le Monde lo ha inserito al nono posto della sua prestigiosa classifica dei cento libri del XX secolo. Innumerevoli le traduzioni e le edizioni (anche italiane), tantissimi gli intellettuali che ne sono rimasti affascinati, come Salinger e Kerouac. Tra gli italiani, il partigiano Guglielmo Petroni, nel suo celebre romanzo-saggio La vita è una prigione, ricorda con affetto Il grande Meaulnes, per il sollievo che la lettura del libro gli diede nei durissimi giorni della prigionia a Regina Coeli, durante l’occupazione tedesca di Roma.
Il libro è la più vivida e sentita testimonianza di una stagione irripetibile, l’infanzia. Anzi, l’opera ha la capacità di fissare sulla carta il passaggio dall’adolescenza alla maturità, scrutando il momento in cui un incancellabile solco separa le due età.
Il giovane Francesco Seurel, protagonista ed io narrante della vicenda, vede la sua semplice e monotona esistenza sconvolta, in senso positivo, dall’arrivo di un nuovo compagno di scuola, l’immaginoso Agostino Meaulnes, subito ribattezzato “il gran Meaulnes”, per una straordinaria forza dirompente che promana dalla sua persona, che lo rende diverso da tutti gli altri ragazzini. E proprio durante uno dei suoi vagabondaggi, Meaulnes sarà protagonista di una strana avventura, a metà tra il sogno e la realtà, che cambierà profondamente l’esistenza di molti e la stessa percezione del senso della vita. Non posso aggiungere altro, per non svelare troppo la trama.
Meaulnes non è propriamente un Peter pan, perché non c’è in lui la cieca ostinazione di non voler crescere; egli, piuttosto, vive fino in fondo quell’età acerba che è l’adolescenza, fino a trasformarla da passaggio obbligato in punto di arrivo irripetibile, hortus conclusus sempre vagheggiato con infinita nostalgia.
Non si può non fare una notazione sullo stile, straordinariamente evocativo. Alain-Fournier è un grande narratore, che dà il meglio di sé nelle vivide descrizioni campestri e nello scrutare nel fondo dell’animo dei suoi personaggi. Ma soprattutto, è un maestro nella costruzione delle atmosfere soffuse della vita contadina; leggendo le dense pagine, sembra davvero di immergersi nei campi coperti da un sottile strato di bruma, nelle case coi tetti di ardesia, passando per le stanze rischiarate da un fuoco di arbusti e le strade bagnate e luccicanti di pioggia.
Sembra difficile pensare che la persona che ha scritto questo delicatissimo libro sia stata la stessa che, pur potendo per censo e cultura sottrarsi agli orrori della trincea, magari impegnando un posto in retrovia, ha invece chiesto di essere mandata in prima linea. Forse un estremo atto di incoscienza giovanile, o piuttosto il desiderio di morire assieme agli ultimi, quei contadini costretti a diventare fanti, che egli aveva descritto nella sua unica opera. Resta aperta una domanda, e non potrebbe essere altrimenti. Cosa avrebbe potuto ancora regalarci Alain-Fournier se, come molti altri intellettuali e artisti, non fosse caduto in trincea? Impossibile dirlo, ma di certo sarebbe stato difficile superarsi, perché in quest’opera aveva già e consapevolmente deciso di trasfondere tutto se stesso, tutta la sua sensibilità e la sua esperienza di vita, breve ma intensa.
 
Copertina edizione Garzanti 1965

7 marzo 2015

Internet e la deriva del linguaggio

Il fatto di consentire l’immediata e capillare diffusione di pensieri, opinioni e conoscenze è certamente uno dei maggiori pregi della rete internet. Superato il naturale ostacolo delle distanze, e quello artificiale delle frontiere, le idee sono libere di circolare come mai era accaduto in passato, quando spesso erano confinate in circoli elitari, diffuse solamente in circuiti chiusi e difficilmente comunicanti. È però altrettanto evidente, e di questo vorrei parlare, che tale strumento abbia al contempo consentito a milioni di idioti di dare liberamente sfogo agli istinti più primitivi, ben celati dietro un nome di fantasia. Per capire di cosa parlo, è sufficiente aprire un qualsiasi giornale on-line, oppure un video su YouTube, e leggere i commenti dei lettori, specie per quanto concerne gli argomenti di più stretta attualità. Si potrà allora assistere disgustati ad un florilegio di offese di ogni sorta, spesso gravissime, di triviali litigi, di turpiloqui che farebbero impallidire i poveri scaricatori di porto del famoso proverbio. Ogni occasione, dal fatto di cronaca a quello di politica, dal filmato comico all’evento sportivo, diviene propizia circostanza per vomitare sulla tastiera il peggio che l’ignoranza umana possa partorire. Il tutto, con la sicurezza (anzi, grazie alla sicurezza) offerta dall’anonimato. A volte, poi, questi vandali della rete inscenano infimi e pietosi sceneggiati,  lunghissimi litigi a suon di commenti, che, inevitabilmente, chiamano in causa, con i peggiori epiteti possibili, mogli, sorelle, madri e nonne. C’è gente che minaccia gli altri di morte per delle semplici divergenze sui gusti musicali, altri che sputerebbero sulla tomba di chi ha osato difendere gli immigrati. Ed ecco allora che nasce tutto un campionario di insulti, prima sconosciuti: “buonista” (inteso in senso negativo, specie come difensore dello straniero), “bimbominkia” (giovane ebete allineato al sistema), “sinistro” , “berluschino” e così via. E se leggere questi commenti può far ridere, certamente deve anche indurci a riflettere sulla pietosa condizione di chi sfoga le frustrazioni di una vita miserabile sulla tastiera. Lasciare la propria traccia sulla rete, specialmente per chi farebbe bene a legarsi le mani (a causa anche della scarsa conoscenza della lingua), diventa così una gigantesca proiezione dell’io, tra l’eroico e l’erotico, che fa credere di contare qualcosa persino a chi, altrimenti, sarebbe destinato al mutismo ed all’oblio.
Questo accade specialmente, è bene rilevarlo, per i siti più visitati, quali quelli di informazione generale, ove l’accesso è indiscriminato, per cui si vengono a confrontare persone di ogni età, cultura, condizione sociale, opinioni. Ed ecco che mentre nella realtà la discussione, anche tra persone molto diverse, viene di solito intavolata lungo binari di civile confronto, sulla rete tutto si rovescia, fino a trasformarsi nel vomitatoio delle peggiori nefandezze. Se poi volessimo fare un’analisi sociologica di questi tipici frequentatori della rete, potremmo, senza difficoltà, raggrupparli in tre categorie: il fanatico, l’indignato e il giustiziere. Il fanatico è all’agguato ovunque sia possibile parteggiare per qualcuno o qualcosa: nello sport, nella musica, nel cinema. Difende i propri idoli e chiede per loro rispetto, ma non esita ad infangare quelli degli altri. C’è chi, in questo settore, raggiunge stati patologici: si pensi all’amante della musica “seria”, che si sorbisce i video delle popstar di tendenza solo per insultarle. L’indignato, invece, è un appassionato di politica. Usa i polpastrelli per sollevare le masse, è l’alfiere del “tanto sono tutti uguali”, ma poi, nel segreto dell’urna, non riesce a tradire i vecchi partiti, quelli che, bene o male, gli hanno dato da mangiare. L’indignato, che non sa usare l’arma legittima, cioè il voto, dimostra invece di saper maneggiare, almeno a parola, le armi più cruente. Quella del giustiziere è, a mio avviso, la categoria più pericolosa, su cui è opportuno spendere più parole. Il giustiziere vive nei meandri delle pagine di cronaca nera, aleggia come un avvoltoio sui cadaveri, predilige sguazzare nel sangue e nel pettegolezzo. È al contempo esperto, senza aver mai aperto un libro, di psicologia, criminologia e diritto spicciolo, quello primitivo della pietra e del bastone, per intenderci. Riesce ad essere, allo stesso tempo, pubblico ministero, poliziotto e (più raramente) avvocato, tanto da poter giudicare, senza conoscere le carte, il lavoro di tutti questi professionisti. Ma soprattutto, egli è giudice. Le sue nozioni giuridiche sono ancora più ancestrali di quelle di Rotari. Il re legislatore dei Longobardi, nel suo celebre Editto, rispettava il principio di proporzionalità, quello per cui la pena deve essere il più possibile rapportata al male commesso, al punto che la pena capitale non può che costituire l’extrema ratio. I giustizieri della rete, invece, amano la forca, la accarezzano come si farebbe con un cagnolino, la invocano ad ogni occasione, al punto che sarebbero pronti essi stessi a stringere il cappio intorno alla gola del “mostro” di turno, sbattuto sulla prime pagine di tutti i giornali. E sorge quindi il legittimo dubbio che, condannando il male degli altri, vogliano in realtà esorcizzare il proprio, riconquistando una verginità perduta. Come liberarsi di questo fenomeno? Non nego che anche a me è capitato, in passato, di cadere nel gioco dell’offesa gratuita su internet. Poi, oltre alla stupidità del gesto, mi ha convinto a desistere la considerazione che tutte le parole scritte sulla rete scompaiono quasi subito, fino ad essere sommerse dal mare magnum di internet, che è in continua evoluzione e mai si ferma. Cosa rimane di tutti i fiumi di ingiurie, delle tonnellate di indignazione? Solo schizzi di sterco, come quando il benefico sciacquone lava via ogni cosa.
L'anonimato offerto dalla rete incentiva condotte offensive