27 novembre 2015

"Senza rumore": l'altra storia dei Moda

Il biennio 1988-1989 è stato uno spartiacque importante per il rock italiano, o meglio per quel “rock italiano cantato in italiano”, secondo la calzante definizione di Alberto Pirelli, fondatore dell’IRA, la casa discografica a cui più di ogni altra si deve la scoperta e la promozione dei gruppi new wave nostrani. È infatti in quel periodo che vengono pubblicati tre dischi fondamentali: Litfiba 3, Boxe dei Diaframma e Senza rumore dei Moda. Sono album diversi, che però, oltre all’identità di casa discografica, presentano almeno due punti di contatto. Il primo è che si tratta del terzo LP per tutti e tre i gruppi; il secondo è che gli album in questione rappresentano un punto di svolta decisivo, a volte di non ritorno. Dopo Boxe, Miro Sassolini lascerà i Diaframma, che raggiungeranno i giorni nostri con Fiumani unico membro originario. Dopo Litfiba 3, chiusa la “trilogia del potere”, il gruppo di Pelù e Renzulli andrà incontro al grande successo di pubblico. Di questi due dischi si è parlato tanto; meno, molto meno, di Senza rumore.
Una piccola premessa è d’obbligo. Sto parlando dei Moda (senza accento), gruppo new wave degli anni Ottanta, non dei contemporanei Modà. E in proposito mi permetto un appunto: quando si decide di fondare (e poi promuovere) un gruppo, sarebbe cosa saggia informarsi, per evitare scopiazzature dei nomi che, oltre ad essere fonte di equivoci, sono tremendamente fastidiose. Si pensi in proposito a Il volo, il supergruppo degli anni Settanta con Alberto Radius; come ben sappiamo, il nome è stato plagiato per dare vita ad una discutibile operazione musical-commerciale su cui preferisco soprassedere.
Tornando ai Moda, si potrebbe dire che con Diaframma e Litfiba hanno rappresentato il trittico delle meraviglie della nostra new wave, oltre che le punte di diamante dell’IRA. I Moda, però, anche se capitanati da un leader carismatico come Andrea Chimenti, non hanno avuto né il successo commerciale dei Litfiba, né una continuità discografica e di seguito (sia pure di nicchia) come quella dei Diaframma.  Dopo Bandiera (1986) e il cupo Canto pagano (1987), la band toscana registrò il terzo disco, Senza rumore (1989), che avrebbe dovuto segnarne la definitiva consacrazione. Dietro l’album c’era forse una precisa operazione commerciale: realizzare il passaggio dalle atmosfere visionarie e ombrose degli esordi ad un pop-rock raffinatissimo, ma volutamente più orecchiabile e vicino ai gusti del mercato. Prova ne è il fatto che la line-up sia stata arricchita in studio di registrazione da Daniele Trambusti (futuro Litfiba), Francesco Magnelli (poi CSI) alle tastiere e Demo Morselli ai fiati. Ed è proprio l’uso intenso delle tastiere e dei fiati a togliere un po’ di freschezza alle canzoni, che, se fossero state lasciate nella loro essenzialità elettrica, avrebbero reso meglio.
Dieci le tracce. Si parte con Sogni d’oro, scritta da un Piero Pelù insolitamente (almeno per quegli anni) solare. Seguono Polvere e Cammina, elaborate ballate di forte impatto sonoro, con la splendida voce di Chimenti in evidenza. Ma le canzoni migliori sono nella seconda facciata: Shalalala, dal ritmo piacevole con ottime parti vocali; Gianni Brillante, dura invettiva contro i fabbricanti di armi; infine, Albero nero, in cui ritornano le profonde sonorità degli esordi. Il resto, sia pur pregevole, risente a mio avviso degli anni, appesantito dagli arrangiamenti non proprio felici.
Il risultato è un lavoro riuscito a metà, buono nella perizia strumentale e nelle parti vocali, a volte debole negli arrangiamenti. I Moda tentarono con questo disco il grande salto, ma di lì a poco decisero di sciogliersi. D’altronde, la grande stagione della wave italiana era finita: per i fuoriusciti, non restava che cambiare per sopravvivere, come fecero i Litfiba e i Diaframma. I Moda no, la loro è stata un’altra storia, egualmente entusiasmante e meritevole di rispetto.
La copertina di "Senza rumore" dei Moda

18 novembre 2015

"Figli di ferroviere" di Ugo Pirro: quell'Italia che viveva sui binari

Ugo Pirro, nato a Battipaglia nel 1920 e morto a Roma nel 2008, è stato uno dei più importanti autori del nostro cinema. Sue le sceneggiature di alcuni straordinari lungometraggi di impegno civile, come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso (entrambi con Gian Maria Volonté, per la regia di Elio Petri) e La proprietà privata non è più un furto (sempre di Petri, con Flavio Bucci). Nonostante l’attività di scrittore per il cinema sia quella che gli ha garantito successo e imperitura memoria, Pirro è stato anche un prolifico narratore, dalla prosa semplice e lineare, potremmo dire molto cinematografica.
Figli di ferroviere è una sorta di diario, il racconto autobiografico della vita e dei continui trasferimenti da una città all’altra della famiglia dell’autore, in un lasso di tempo che va dal 1920 alla metà degli anni Cinquanta, passando per il Fascismo e la guerra. Eppure, sarebbe riduttivo limitarne la valentia al mero dato personale, alla rievocazione sull’onda del ricordo. Il libro è soprattutto la storia minima dell’Italia che fu, il racconto collettivo dei ferrovieri, che più di tutti hanno contribuito ad unire il Paese. Si può parlare di un’accurata e nostalgica narrazione di una ferrovia che ora non c’è più; non una semplice storia del treno, ma qualcosa di più profondo e umano: la storia delle Ferrovie dello Stato e dei suoi uomini del personale viaggiante. Figure che sembrano appartenere all’era del mito: i casellanti che conducevano un’esistenza rurale al bordo della massicciata, i macchinisti che sporgevano dal finestrino la testa annerita dal fumo, i frenatori che trascorrevano interminabili giornate nei desolati vagoni merci, i capigestione addetti alla formazione dei convogli, gli accelerati, le vecchie locomotive sbuffanti. E soprattutto i capistazione, con il loro acuto fischietto, le bandiere di segnalazione e il berretto rosso orlato d’oro, simile a quello degli ufficiali dell’esercito. Ma l’aspetto che l’autore vuole evidenziare è soprattutto un altro: la ferrovia da lui raccontata è una grande famiglia, dove il vincolo che unisce non è dato dal sangue, ma dalla comunanza di condizione, da un senso di appartenenza che non ha eguali nella storia industriale italiana.
Un paragone, in particolare, ricorre nel libro: quello tra le famiglie dei ferrovieri e quelle degli zingari e dei circensi; le prime, come le seconde, assai numerose e sempre in viaggio. Scrive infatti l’autore:
«La vita nostra sembrava esistere soltanto tra treni, stazioni, locomotive, telegrafi, orari ferroviari, trasferimenti da una stazione all’altra. Viaggiavamo anche quando ci affacciavamo alla finestra della nostra casa nella stazione. I treni visti dalle  nostre finestre erano così familiari che sembravano nostri, come se vivessimo sui treni, alla pari dei nomadi. E chissà se questo nomadismo ferroviario alla fine non abbia fatto viaggiare liberamente i pensieri, l’immaginazione.»
Scorrere le pagine è come fare un viaggio nei vecchi scompartimenti di terza classe, alla scoperta di un tempo in cui il capostazione era una figura amata e rispettata al pari di un’autorità, un tempo in cui i figli dei ferrovieri godevano di una libertà per altri ragazzi sconosciuta, perché il loro campo di giochi era un mondo meraviglioso, fatto di vagoni fermi sui binari morti, immensi piazzali, scali merci, locomotive su cui montare con sprezzo del pericolo. Ma non bisogna pensare che la narrazione sia semplicisticamente edulcorata; Pirro nulla nasconde di quegli anni, parla della fame, delle lotte sindacali, delle paghe misere, della povertà, della Napoli bombardata durante la guerra, degli scontri tra fascismo e massoneria. La sua analisi sa essere spietata, senza risparmiare nessuno, persino l’amato padre.
A chi è destinato questo libro? Come ho detto, lo stile è semplice, asciutto, non indulge in coloriture letterarie. Lo apprezzeranno i vecchi ferrovieri, i figli di ferroviere, ma anche tutti quelli che hanno voglia di leggere una testimonianza storica, il resoconto sentito di un mondo che non esiste più. Perché anche la ferrovia è cambiata e forse per questo non esercita più il suo incanto. D’altronde, quanto a bellezza e fascino, avrebbe senso paragonare una E.636 con un attuale locomotore dell’alta velocità? La prima, sia pure meno “moderna” (ma siamo sicuri che questo sia un difetto?), vincerebbe sotto tutti i punti di vista.

6 novembre 2015

"Il posto" di Ermanno Olmi: l'attualità di una pellicola del 1961

Inserito nella prestigiosa lista dei “100 film italiani da salvare”, che raccoglie le pellicole che hanno saputo raccontare meglio la storia collettiva del Paese, Il posto di Ermanno Olmi (1961) è un capolavoro nascosto, un lungometraggio che brilla pur raccontando una vicenda minima.
Domenico è un ragazzo di Meda, figlio di una campagna ormai snaturata, diventata estrema periferia della metropoli che avanza. I genitori sognano per lui il posto fisso, l’occupazione che dura una vita, garanzia di un’esistenza senza stenti e preoccupazioni. Per loro, come per tutti quelli che ne vivono ai margini, Milano significa soprattutto un impiego stabile, speranza di un futuro migliore.
Una fredda mattina d’inverno Domenico prende il treno diretto verso la città, per partecipare alle selezioni di una grande azienda alla ricerca di diverse figure professionali. E sebbene gli esami si risolvano in semplici esercizi di aritmetica e banali test psico-attitudinali, sono comunque in grado di svelare la cruda spietatezza del sistema. Uno dei candidati, padre di famiglia, non riesce a risolvere il problema di calcolo, venendo così escluso. E sono proprio gli occhi disperati di quest’uomo, inquadrati per pochi fotogrammi, a restituire tutto il dolore di chi è posto ai margini della società, privato di un benessere di cui tutti gli altri possono apparentemente godere.
Domenico, invece, riuscirà senza sforzi ad essere assunto, sia pure come semplice aiuto-fattorino. Entrato in azienda, avrà modo di conoscere lo squallore della vita impiegatizia: la prepotenza dei capi, la strafottenza dei raccomandati, la  routine che piega gli anni, le invidie e i rancori che stagnano nel profondo degli animi. Olmi è abilissimo nel tratteggiare tutti questi aspetti, con scene fatte soprattutto di sguardi, tic nervosi, gesti e poche, misurate parole.
Per il ruolo del protagonista venne scelto un attore non professionista: il quindicenne Sandro Panseri, uno dei volti più espressivi del cinema nostrano. Il suo sguardo smarrito resta impresso nella mente dello spettatore, come nella celebre scena dell’esame psicologico, dove il ragazzo risponde attonito ed esterrefatto alle incomprensibili (per lui) domande che gli vengono fatte. Nei suoi occhi si legge la speranza di ottenere l’impiego, ma al contempo un muto disincanto, una sorta di invincibile nichilismo, la vaga consapevolezza che è inutile cercare di dominare le regole del sistema, perché queste sono oscure e impenetrabili. Solo l’amore può essere una via d’uscita dal vicolo cieco; ma per Domenico il miracolo non si avvererà.
Altro “personaggio” del film è la città industriale, che meraviglia e sovrasta i protagonisti, fino ad inglobarli nei suoi ingranaggi. Tutto è mostruoso: i lavori della metropolitana, la ressa delle pause caffè, lo sferragliare dei tram e il traffico impazzito. Eppure, nessuna forza di ribellione si annida nel cuore di Domenico, perché la resistenza è impossibile. Alla fine, entrerà a fare parte di quel sistema che, in cambio dell’anima, offre un’anonima scrivania e l’agognato posto fisso.
La felicità tanto sperata, però, non arriverà. Nella scena finale, Domenico guarda avanti a sé la schiera grigia delle schiene dei colleghi, con aria interrogativa. Forse non capisce fino in fondo di essere diventato la rotella di un ingranaggio pauroso, ma percepisce di non appartenere più a se stesso. Perché conquistare il “posto” non ha il sapore glorioso del successo, ma porta con sé un marcescente sentore di morte.
E la domanda che aleggia nell’aria, quando scorrono i titoli di coda, è soltanto una: qual è il prezzo che Domenico ha dovuto pagare per ottenere “il posto”?  
Domenico (Sandro Panseri) alla sua scrivania