9 dicembre 2015

"Il mare non bagna Napoli" di Anna Maria Ortese: il drammatico conflitto tra ragione e natura

Le polemiche, specie se hanno la capacità di smuovere le coscienze, sono un formidabile volano per un’opera, riuscendo talvolta ad elevarla a vero e proprio “caso letterario”. Questo è quanto accadde nel 1953, all’uscita de Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese. La critica, quasi unanimemente, tributò grandi onori al libro, per la sua indubbia valenza letteraria. Allo stesso modo, però, piovvero aspre critiche, specie da parte degli intellettuali napoletani scelti quali involontari protagonisti, con tanto di nome e cognome, dell’ultima parte della raccolta, intitolata Il silenzio della ragione. Più che un racconto, si tratta di un resoconto. La Ortese, fingendo di dover scrivere un articolo sugli scrittori napoletani del dopoguerra, commissionatole da una rivista del Nord, fa un ritratto impietoso della scena culturale partenopea e dei suoi protagonisti. Luigi Compagnone (il più bersagliato), Domenico Rea, Raffaele La Capria, Michele Prisco, Vasco Pratolini (che visse per un periodo a Napoli), Pasquale Prunas e altri sono descritti senza finzioni di sorta, senza nasconderne virtù, difetti e debolezze, persino quelle della vita privata. Ne viene fuori un quadro sconfortante e apatico, di una classe intellettuale incapace di sciogliersi da un sempiterno “vorrei ma non posso”, collusa e quasi corrotta dai vizi della città che vorrebbe trasformare, magari con gli strumenti del marxismo. Gli inconsapevoli protagonisti di quelle dure e malinconiche pagine non la presero bene; la scrittrice venne accusata di tradimento, e da quel momento iniziò per lei una sorta di ostracismo dalla vita culturale napoletana.
Però, al di là delle polemiche, Il silenzio della ragione è una straordinaria riflessione sull’Italia meridionale; anzi, potremmo addirittura parlare di un’acuta indagine della stessa condizione dell’essere meridionale. Ad avviso della scrittrice, nel Mezzogiorno si combatte da secoli un conflitto dall’esito scontato, quello tra ragione e natura, dove la prima è destinata a soccombere. L’ostinata fantasia, gli indomabili sensi e l’istinto sono i tratti caratteristici di quelle terre e di quelle popolazioni, sì che la razionalità non può che dibattersi inutilmente, soffocata tra le spire della natura. E questa sarebbe la profonda ragione per cui, usando le parole di Tomasi di Lampedusa, tutto cambia per rimanere sempre uguale. Il fallimento degli scrittori napoletani, della loro rivista Sud e dei loro circoli letterari, dunque, non è altro che un’altra versione di una storia che si ripete immutabile nei secoli. Nulla può chiarire il concetto meglio delle stesse parole della Ortese.
«Esiste nelle estreme e più lucenti terre del Sud un mistero nascosto, per la difesa della natura dalla ragione, un genio materno di illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolci e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata. […] Qui il pensiero non può essere che servo della natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell'arte. Se appena accenna a qualche sviluppo critico, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell'uomo delle viscere, è ucciso.»
Un’altra drammatica testimonianza è nel capitolo intitolato La città involontaria, dove ci viene descritta la durissima vita nei Granili, immensi depositi costruiti in epoca borbonica e divenuti dimora per la moltitudine degli sfollati della guerra. La prima cosa che impressiona entrando nei Granili è l’assenza di luce, sì che pare quasi una discesa agli inferi. Vengono incontro all’osservatore esseri di una miseria così profonda da aver perso ogni barlume di dignità, da apparire addirittura ripugnanti. In quegli antri fetidi dove decine di persone sono ammassate in pochi metri quadri, si gioca, si muore, si soffre, ci si ammala, ci si riproduce, si mangia, si canta, si ride e si piange in un’aberrante promiscuità. E fa male pensare che queste cose accadevano nel nostro Paese solo sessant’anni fa.   
L’attenzione verso le fasce più umili della popolazione è ancora presente nei racconti Un paio di occhiali e Oro a Forcella. Il primo è, a mio parere, il più riuscito dell’intera raccolta, per l’intensità drammatica della narrazione che, in un crescendo di rara maestria letteraria, sfocia nel sorprendente finale. Oro a Forcella, invece, è un vivace quadretto di una giornata qualsiasi al Banco dei pegni di Napoli; inoltre, è proprio in questo racconto che viene spiegato il significato del titolo della raccolta. Il mare non bagna Napoli per tutti coloro che, pur vivendo in quella meravigliosa città, non ricordano neppure come sia fatto e quanto sia bello il mare, per via del bisogno e della fame, della necessità di arrabattarsi giorno dopo giorno senza mai poter godere delle cose che rendono piacevole l’esistenza.
Interno familiare, invece, mi ha riportato alla mente Gente di Dublino di Joyce, specialmente per via del tema della precoce senescenza e della fine della giovinezza. In queste pagine, l’attenzione della Ortese si sposta verso una famiglia della piccola borghesia, nei giorni che precedono il Natale; nonostante la modesta agiatezza, il nucleo familiare è corroso dalle invidie, dalla corruzione e dalla malattia. Lo sconforto individuale e la voglia di evadere trascendono le quattro mura della casa, per diventare la cifra di un’intera generazione.
In conclusione, Il mare non bagna Napoli è la narrazione di una città che non c’è più, dei suoi luoghi e della sua varia umanità. È il resoconto della miseria dei bassi e delle meraviglie di Mergellina e di Via Toledo, dell’umiltà degli ultimi e dell’incapacità della borghesia di rinnovarsi. A distanza di tanti anni, il libro vale come testimonianza storica; tuttavia, è ancora possibile scorgervi i tratti caratteristici della gente di Napoli, le miserie e gli splendori, l’aggrapparsi ad un ideale, civile o religioso, come estrema ragione di vita.

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