27 dicembre 2015

Fuggire dalle ideologie e dal pregiudizio: "Zarathustra" del Museo Rosenbach

Uno dei pochi vantaggi del vivere in un’epoca de-ideologizzata è certamente quello di poter valutare le cose e le vicende del recente passato con maggiore obiettività. É questa una delle ragioni della riscoperta negli ultimi anni del Museo Rosenbach. Quando nel 1973 il gruppo ligure diede alle stampe il primo disco, Zarathustra, un colossale equivoco lo condannò all’ostracismo, allontanandolo dalla televisione, dai festival e dai principali circuiti di diffusione. Ciò avvenne in primo luogo per la particolare immagine di copertina, un volto mostruoso e ambiguo realizzato con un abile collage di più elementi, tra cui un busto di Mussolini. In secondo luogo, malvisto era il tema portante del concept, un omaggio a Nietzsche e alla teoria del Superuomo, superficialmente associati al pensiero nazionalsocialista. A nulla valse la giustificazione che l’immagine di copertina fosse una mera provocazione, del tutto priva di intenti apologetici. E dire che la spiegazione era riportata nelle stesse note che accompagnavano l’album, ove era scritto che «la disperata ricerca del Superuomo non vuole realizzarsi nell’immagine del violento condottiero di una razza pura, come è stata erroneamente e tristemente interpretata, bensì nella serena figura dell’uomo che, vivendo in comunione con la natura, tende a purificare da ogni ipocrisia i valori umani». Etichettati come fascisti, i Museo Rosenbach non ebbero alcun riconoscimento all’epoca, per pure ragioni di ostracismo ideologico.
A distanza di tanto tempo, invece, emergono almeno due considerazioni. La prima è che l’immagine di copertina, a guardarla bene, è forse una delle migliori di quegli anni, oltre a ricordare vagamente il celeberrimo volto di In the court of the Crimson King. La seconda è che il Museo non era uno di quei gruppi trascurabili, riscoperti negli ultimi tempi solo perché appartenenti al periodo prog. È infatti una costante tendenza quella di considerare “grandi misconosciuti” gruppi che all’epoca non ebbero alcuna eco per la scarsa qualità e originalità del suono, riesumati di recente per pure ragioni cronologiche. Con il Museo questo rischio non c’è: il loro lavoro è davvero ottimo, uno dei migliori del periodo. Se dovessi fare una mia personale classifica, lo collocherei tra i primi dieci dischi prog, assieme all’omonimo del Banco, al primo dei Napoli Centrale, ad Arbeit macht frei degli Area, all’esordio del Biglietto per l’inferno, ad Aria di Sorrenti e Collage delle Orme. Su internet si leggono tanti autorevoli interventi, da parte di chi addirittura definisce Zarathustra il miglior LP progressive italiano di sempre; sul punto, credo che il giudizio sia inquinato dalla volontà di rendere giustizia postuma al Museo. Un gran bel disco, però, lo è sicuramente.
Ascoltandolo, mi hanno colpito la qualità delle parti vocali (e dei testi) e la varietà del suono. Partendo da quest’ultimo, si nota una maggiore vicinanza ai gruppi anglosassoni; l’ipnotico giro di mellotron in Superuomo, ad esempio, non avrebbe sfigurato in un lavoro dei King Crimson. La prima facciata è interamente occupata da una lunga suite, divisa in quattro momenti. Qualsiasi conoscitore della musica sa quali sono i rischi insiti in una suite di venti minuti: annoiare l’ascoltatore con eccessivi virtuosismi, oppure trascinarlo in una sequela di passaggi disorganici e mal collegati tra loro. Proprio per questo, pochi sono gli esempi del genere compiutamente realizzati. La lunga prima facciata di Zarathustra è uno di questi rari e riusciti casi, grazie al felice combinarsi della chitarra elettrica e delle tastiere, mai troppo invasive, con in più la straordinaria sezione ritmica della batteria di Giancarlo Golzi. I modelli di riferimento sono quelli di oltremanica, con in più delle venature hard rock perfettamente innestate nel contesto.
La seconda facciata è composta di tre lunghe tracce, tra cui l’eccellente Dell’eterno ritorno, con le parti vocali in maggiore evidenza. Proprio questo è un altro punto di forza dell’album, per effetto della duttile voce di Stefano "Lupo" Galifi. Senza voler fare paragoni con le grandi voci di quegli anni, come Di Giacomo o Stratos, non si può però negare che, sia pure senza grandi doti tecniche, anche quella del cantante del Museo sia stata una delle più interessanti del panorama, specialmente per la capacità di inserirsi organicamente nelle parti strumentali e di variare di tono e intensità, passando dalla drammaticità al sussurro, fino all’urlo.
Ci sono ottime ragioni per acquistare questo disco, a prescindere dalle aspre polemiche che, nel bene o nel male, ne hanno decretato la fama. Quando si parla di buona musica, sarebbe bene mettere nel cassetto le ideologie stantie ed aprirsi alla forza persuasiva del suono.
La controversa copertina di "Zarathustra" (1973)

9 dicembre 2015

"Il mare non bagna Napoli" di Anna Maria Ortese: il drammatico conflitto tra ragione e natura

Le polemiche, specie se hanno la capacità di smuovere le coscienze, sono un formidabile volano per un’opera, riuscendo talvolta ad elevarla a vero e proprio “caso letterario”. Questo è quanto accadde nel 1953, all’uscita de Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese. La critica, quasi unanimemente, tributò grandi onori al libro, per la sua indubbia valenza letteraria. Allo stesso modo, però, piovvero aspre critiche, specie da parte degli intellettuali napoletani scelti quali involontari protagonisti, con tanto di nome e cognome, dell’ultima parte della raccolta, intitolata Il silenzio della ragione. Più che un racconto, si tratta di un resoconto. La Ortese, fingendo di dover scrivere un articolo sugli scrittori napoletani del dopoguerra, commissionatole da una rivista del Nord, fa un ritratto impietoso della scena culturale partenopea e dei suoi protagonisti. Luigi Compagnone (il più bersagliato), Domenico Rea, Raffaele La Capria, Michele Prisco, Vasco Pratolini (che visse per un periodo a Napoli), Pasquale Prunas e altri sono descritti senza finzioni di sorta, senza nasconderne virtù, difetti e debolezze, persino quelle della vita privata. Ne viene fuori un quadro sconfortante e apatico, di una classe intellettuale incapace di sciogliersi da un sempiterno “vorrei ma non posso”, collusa e quasi corrotta dai vizi della città che vorrebbe trasformare, magari con gli strumenti del marxismo. Gli inconsapevoli protagonisti di quelle dure e malinconiche pagine non la presero bene; la scrittrice venne accusata di tradimento, e da quel momento iniziò per lei una sorta di ostracismo dalla vita culturale napoletana.
Però, al di là delle polemiche, Il silenzio della ragione è una straordinaria riflessione sull’Italia meridionale; anzi, potremmo addirittura parlare di un’acuta indagine della stessa condizione dell’essere meridionale. Ad avviso della scrittrice, nel Mezzogiorno si combatte da secoli un conflitto dall’esito scontato, quello tra ragione e natura, dove la prima è destinata a soccombere. L’ostinata fantasia, gli indomabili sensi e l’istinto sono i tratti caratteristici di quelle terre e di quelle popolazioni, sì che la razionalità non può che dibattersi inutilmente, soffocata tra le spire della natura. E questa sarebbe la profonda ragione per cui, usando le parole di Tomasi di Lampedusa, tutto cambia per rimanere sempre uguale. Il fallimento degli scrittori napoletani, della loro rivista Sud e dei loro circoli letterari, dunque, non è altro che un’altra versione di una storia che si ripete immutabile nei secoli. Nulla può chiarire il concetto meglio delle stesse parole della Ortese.
«Esiste nelle estreme e più lucenti terre del Sud un mistero nascosto, per la difesa della natura dalla ragione, un genio materno di illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolci e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata. […] Qui il pensiero non può essere che servo della natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell'arte. Se appena accenna a qualche sviluppo critico, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell'uomo delle viscere, è ucciso.»
Un’altra drammatica testimonianza è nel capitolo intitolato La città involontaria, dove ci viene descritta la durissima vita nei Granili, immensi depositi costruiti in epoca borbonica e divenuti dimora per la moltitudine degli sfollati della guerra. La prima cosa che impressiona entrando nei Granili è l’assenza di luce, sì che pare quasi una discesa agli inferi. Vengono incontro all’osservatore esseri di una miseria così profonda da aver perso ogni barlume di dignità, da apparire addirittura ripugnanti. In quegli antri fetidi dove decine di persone sono ammassate in pochi metri quadri, si gioca, si muore, si soffre, ci si ammala, ci si riproduce, si mangia, si canta, si ride e si piange in un’aberrante promiscuità. E fa male pensare che queste cose accadevano nel nostro Paese solo sessant’anni fa.   
L’attenzione verso le fasce più umili della popolazione è ancora presente nei racconti Un paio di occhiali e Oro a Forcella. Il primo è, a mio parere, il più riuscito dell’intera raccolta, per l’intensità drammatica della narrazione che, in un crescendo di rara maestria letteraria, sfocia nel sorprendente finale. Oro a Forcella, invece, è un vivace quadretto di una giornata qualsiasi al Banco dei pegni di Napoli; inoltre, è proprio in questo racconto che viene spiegato il significato del titolo della raccolta. Il mare non bagna Napoli per tutti coloro che, pur vivendo in quella meravigliosa città, non ricordano neppure come sia fatto e quanto sia bello il mare, per via del bisogno e della fame, della necessità di arrabattarsi giorno dopo giorno senza mai poter godere delle cose che rendono piacevole l’esistenza.
Interno familiare, invece, mi ha riportato alla mente Gente di Dublino di Joyce, specialmente per via del tema della precoce senescenza e della fine della giovinezza. In queste pagine, l’attenzione della Ortese si sposta verso una famiglia della piccola borghesia, nei giorni che precedono il Natale; nonostante la modesta agiatezza, il nucleo familiare è corroso dalle invidie, dalla corruzione e dalla malattia. Lo sconforto individuale e la voglia di evadere trascendono le quattro mura della casa, per diventare la cifra di un’intera generazione.
In conclusione, Il mare non bagna Napoli è la narrazione di una città che non c’è più, dei suoi luoghi e della sua varia umanità. È il resoconto della miseria dei bassi e delle meraviglie di Mergellina e di Via Toledo, dell’umiltà degli ultimi e dell’incapacità della borghesia di rinnovarsi. A distanza di tanti anni, il libro vale come testimonianza storica; tuttavia, è ancora possibile scorgervi i tratti caratteristici della gente di Napoli, le miserie e gli splendori, l’aggrapparsi ad un ideale, civile o religioso, come estrema ragione di vita.