29 gennaio 2016

Dieci importanti libri per l'infanzia

La letteratura per l’infanzia non è semplicemente il passaggio obbligato prima di diventare lettori “maturi”, ma qualcosa di più: una traccia che rimane scavata nell’animo, in grado di influenzare le letture future. Non è agevole, per diverse ragioni, fare una classifica dei migliori testi per ragazzi. In primo luogo, un tale elenco, come tutti quelli dello stesso genere, risentirebbe di un ineliminabile grado di soggettività e discrezionalità. Inoltre, molte opere pensate in origine per i più piccoli sono poi divenute dei classici per ogni età; si pensi a Pinocchio o al Piccolo principe. Per questo, senza avere pretese di completezza o di oggettività, mi permetto di segnalare qualche titolo tra quelli che più mi hanno segnato.
1) I fuggitivi, di Thomas Ruth. Straordinario romanzo “on the road”, il mio preferito in assoluto. Julia e Nathan sono due ragazzini dell’estrema periferia inglese, entrambi emarginati dai coetanei e con gravi problemi familiari alle spalle. La condivisione di un segreto sarà l’occasione per fuggire, per intraprendere un lungo viaggio che li porterà alla scoperta del valore dell’amicizia e alla consapevolezza di sé. Il ritmo sostenuto e il crudo realismo ne fanno un piccolo gioiello.
2) Voglio tornare a casa, di Cynthia Voigt. I quattro fratelli Tillerman vengono abbandonati dalla madre nel parcheggio di un supermercato. Potendo contare solo sul reciproco sostegno, inizieranno una straordinaria avventura alla ricerca delle loro radici. Il libro tratta tematiche di stretta attualità, come l’abbandono dei minori, il loro sfruttamento, la miseria, il fanatismo religioso. Per chi vuole saperne di più, la mia recensione è su Sololibri.net.
3) Vacanze all’isola dei gabbiani, di Astrid Lindgren. La grande scrittrice svedese non può mancare in una classifica della migliore letteratura per l’infanzia. Dopo la morte dell’amata moglie, un padre prende in affitto per sé e i quattro figli una casa sulla meravigliosa Isola dei gabbiani. Qui, immersi nella natura, affronteranno un’esistenza diversa, regolata dal ritmo delle stagioni e dai sapori antichi.
4) Di professione fantasma, di Hubert Monteilhet. Romanzo umoristico e piacevole, adatto soprattutto ai più piccoli, narra le peripezie di un bambino che, intrufolatosi in un antico castello, si trova a dover impersonare il ruolo del fantasma. La sua “professione” sarà così quella di spettro. Risate garantite, con un pizzico di mistero.
5) L’eroe di Redwall, di Brian Jacques. Primo di una lunga saga, è un fantasy che ha come protagonisti gli animali. Riprende tutti i canoni del genere, con uno stile decisamente adatto ai più piccoli.
6) La storia infinita e Momo, di Michael Ende. Romanzi che non hanno bisogno di presentazioni e che non è possibile riassumere in poche righe, per la ricchezza di temi, prospettive e suggestioni. Da avere assolutamente.
7) Quell’estate al castello, di Beatrice Solinas Donghi. Libro pensato soprattutto per il pubblico femminile, racconta le avventure, tra il tragico e l’umoristico, di Ippolita e Gina, due amiche che trascorrono l’estate in un misterioso castello. A mio avviso, assieme ai romanzi di Bianca Pitzorno, si tratta di una delle prove più convincenti della narrativa italiana per l’infanzia.
8) Il giardino segreto, di Frances Hodgson Burnett. Si dice fosse uno dei libri preferiti dai fanti-ragazzi della Prima guerra mondiale, perché li aiutava a dimenticare, sia pure per poche ore, gli orrori che li circondavano. Intima e commovente storia, piena di buoni valori; la sua forza è però un’altra: quella di catapultare il lettore nella fredda brughiera inglese, nelle immense stanze di Misselthwaite Manor, alla scoperta di un segreto tenuto nascosto per troppi anni. Grande l’abilità della scrittrice nel costruire un’atmosfera di angoscia e mistero, che si scioglie nel rassicurante lieto fine.
9) Viaggio al centro della Terra, di Jules Verne. Tra tutti i viaggi straordinari che si possano immaginare, questo è certamente uno dei più suggestivi ed emozionanti. Dall’Islanda alla Sicilia, da un vulcano ad un altro, viaggiando a parecchie miglia sotto la crosta terrestre, alla scoperta di cose che sfidano la nostra razionalità.
10) I classici “La spiga”. Concludo non con un libro, ma con una collana. La casa editrice La spiga negli anni Novanta pubblicò molti grandi classici della letteratura, non necessariamente per l’infanzia, in edizioni ridotte e semplificate, veri e propri riassunti di quaranta pagine o poco più. Vi figuravano titoli di ogni epoca, con una predilezione per l’avventura e il fantastico. Iniziativa davvero meritoria, che consentiva a tutti i bambini di conoscere, sia pur sommariamente, alcuni dei testi più importanti che siano mai stati scritti. Punti di forza della collana erano il prezzo ridotto (appena 3.000 lire) e la facilità di lettura.
Alcuni dei testi di cui si parla nell'articolo

17 gennaio 2016

In memoria del pittore cilentano Michele Del Verme

Il 31 gennaio prossimo ricorreranno i quindici anni dalla scomparsa del maestro Michele Del Verme, singolare figura di artista cilentano. In particolare, egli apparteneva a quella schiera di artisti che non esprimono soltanto il mondo che hanno dentro, ma che piuttosto traggono ispirazione dalla realtà che li circonda, dalla società e dalla civiltà di cui sono testimoni e partecipi. Il mondo che rappresentava nei quadri e nei libri era quello del Cilento rurale, o meglio di quella terra antica legata ai cicli delle stagioni, che andava incontro ai grandi eventi storici e ai mutamenti del cosiddetto “Secolo breve”, il Novecento.
Nato nell’ottobre del 1908 nel villaggio di Melito, frazione di Prignano Cilento, mantenne sempre un forte legame con il paese natale, dove trascorse gran parte della propria esistenza e dove morì il 31 gennaio del 2001. La Grande Guerra lo rese orfano di padre; a Napoli, all’Istituto d’Arte e Mestieri, imparò i rudimenti della pittura e delle altre arti, sebbene la sua formazione sia stata prevalentemente autodidatta. La sua pittura, pertanto, non può essere ricondotta entro i canoni di una scuola o di una corrente, mantenendo la propria eccentricità. D’altronde, il Cilento è stata sempre una terra “periferica”, ai margini rispetto alle grandi correnti artistiche e di pensiero; l’arte cilentana non poteva che soffrire di questa marginalità, che tuttavia le ha consentito di svilupparsi in quasi totale autonomia.
Fino alla fine dei suoi giorni, il maestro accolse visitatori e curiosi nella casa-museo dove aveva allestito una mostra di pittura permanente, con l’esposizione delle più significative tra le innumerevoli tele. Dopo la morte, il Comune di Prignano ha deciso di intitolargli l’istituto scolastico.
Fonte d’ispirazione della sua pittura fu l’amato Cilento, e si potrebbe dire che due sono le macrocategorie entro le quali è possibile racchiudere le sue opere. In primo luogo, vi sono le vivide scene della vita contadina, riportate sulla tela con estremo realismo. Nulla nascondeva l’artista della durezza dei campi, niente veniva edulcorato. Ecco così i quadri che seguono il ciclo sempiterno delle stagioni: la raccolta delle olive, l’aratura, la vendemmia, la raccolta dei fichi e la trebbiatura. I suoi realistici bozzetti di vita campestre consacrano il forte legame con la terra natale, dura eppure amata, sì che il pittore diventa la viva voce di quella classe contadina ridotta per secoli al silenzio. Ha scritto in proposito il professor La Greca che nei quadri dell’artista prignanese «emotivi sono i ricordi che si sciolgono in forme semplici che spesso indulgono alla ricchezza di particolari, usata solo per puntualizzare l’essenzialità del messaggio».
Il secondo gruppo di opere è quello dei paesaggi e degli scorci: archi, portali, marine, palazzetti nobiliari, isolati castelli (come quello di Rocca Cilento, più volte raffigurato), chiese o monasteri, ma anche case private. Non mancano poi tele ispirate ai grandi eventi storici, come lo sbarco americano a Paestum durante la Seconda Guerra mondiale.
Tanti i riconoscimenti ottenuti negli anni; tra questi, da ricordare è soprattutto la “Segnalazione bianca” per l’opera Balcone aperto al chiaro di luna al Premio Prora di Verona (1971), la cui giuria era composta da grandi nomi della cultura italiana, come Luciano Bianciardi, Pierluigi Nervi, Enzo Biagi, Dino Buzzati, Eugenio Montale, Mario Soldati e Indro Montanelli.
Altro campo di studi è stata certamente la storia locale; tante le pubblicazioni da lui curate sul tema. In un’epoca in cui non esisteva internet, l’unico modo per affrontare le complesse e costose ricerche storiografiche era la consultazione degli immensi e polverosi archivi, da quelli ecclesiastici e parrocchiali passando per quelli delle Università e degli altri enti di ricerca. Attingendo a piene mani da questo patrimonio, nulla inventando e sempre citando le fonti, Del Verme pubblicò diversi libri. A lui, in particolare, si deve la ricostruzione della storia del suo paese natale, cui dedicò due saggi: Storia e origine di Prignano Cilento e dei suoi casali Melito e Poglisi e il successivo Prignano Cilento. I casali di Poglisi, Melito e San Giuliano. Questi e altri libri, come quelli sull’araldica o sulla storia delle poste, dimostrano l’ecletticità dei suoi interessi, nella continua ricerca di una sapienza sia popolare che colta.
Personalmente, ricordo un incontro che ebbi con lui, nella sua casa-museo; ero un adolescente o poco più e in me era nata la giovanile passione per l’araldica, che poi non ho più coltivato. Ricordo la benevolenza con cui mi accolse, la pazienza con cui mi parlò delle sue ricerche, la passione che sprigionavano i suoi occhi lucidi, l’autorevolezza della lunga barba candida di artista. Quel giorno mi mostrò i quadri e i disegni fatti a mano degli stemmi delle casate, regalandomi anche un paio di sue pubblicazioni.
In un tempo come il nostro di sfrenata globalizzazione, in cui tutti tendono superficialmente a dimenticare le proprie origini, ci sarebbe ancora bisogno di persone come Michele Del Verme, che da autodidatta è riuscito a far conoscere il suo nome oltre gli angusti confini del paese natio, pur raccontando usi e costumi della nostra terra.
 


In senso orario:  1) Il maestro Michele del Verme;  2) Balcone aperto al chiaro di luna (segnalazione Premio Prora 1971);  3) Autoritratto dell'artista circondato da animali.

8 gennaio 2016

"Bastogne" di Enrico Brizzi: la sterile apologia del male

Mentre Jack Frusciante è uscito dal gruppo mi aveva sinceramente entusiasmato, Bastogne è riuscito nell’intento opposto, provocandomi un senso confuso di disturbo e noia. E se l’effetto disturbante era certamente voluto dall’autore, non credo lo fosse il secondo. Il romanzo non mi ha avvinto perché, fin dai primi capitoli, si assiste ad una ripetizione costante di situazioni, gesti ed espressioni, che alla lunga danno il senso del già sentito. Si potrebbe dire che abbondano le scene forti, ma si sente la mancanza di una trama forte.
In una Nizza assai somigliante ad una città della provincia italiana, vivono Raimundo, Ermanno e Dietrich, poco più che ventenni, dediti principalmente allo spaccio di sostanze stupefacenti, alle risse da stadio e ai piccoli furti. La situazione prende una piega ancora più perversa quando fa ritorno in città il Cousin Jerry, punk dell’ultima ora con una vita di espedienti alle spalle, sbandato ma pieno di carisma. Sarà lui a trasformare quel gregge di teppistelli di periferia in un temibile branco di assassini e aguzzini. Spinti dall’odio nei confronti della società borghese e dei suoi simboli, i quattro iniziano a mettere a ferro e fuoco la città, con stupri, omicidi, rapine e violenze di ogni genere. Obiettivo preferito delle loro scorribande sono i “lavoratori”, emblema di un’umanità servile e prona ai doveri, considerata non meritevole di vivere.
I protagonisti sono animati da un vago senso di ribellione sociale, di carattere puramente distruttivo, che li porta a commettere ogni genere di nefandezze, in un crescendo di violenza che non trova alcuna giustificazione, se non in se stessa. Ed è proprio questo il punto debole del romanzo: qual è il senso della rappresentazione di tanto odio? Brizzi non dà alcuna risposta a questa domanda. Il romanzo manca di spunti critici in tal senso; al di là dei feroci strali contro la società borghese, l’autore non sembra porsi la domanda, sì scontata, ma che meriterebbe una risposta: ha senso voler sovvertire una società che si sente come oppressiva utilizzando i mezzi più devastanti e sanguinari che si possano immaginare? Leggendo Bastogne tutti questi interrogativi restano lettera morta. Il libro è il canto perverso di una generazione devastata dalla droga e istupidita dal benessere; proprio in questo senso, i protagonisti non sono poi così diversi dal resto dell’umanità, che pure odiano con tutte le loro forze. Ciò che a loro manca non è la moralità, perché anzi hanno un fortissimo senso dell’amicizia e della lealtà; il loro più grave peccato è l’essere del tutto privi di quella forza liberatoria, anarchica e costruttiva, che è l’unica forma di ribellione possibile. Sono schiavi dello stesso sistema che vorrebbero vincere, preda degli stessi vizi piccolo-borghesi (le donne, la droga, l’alcool, i motori) da cui vorrebbero emanciparsi. Ecco perché la loro prepotenza resta odiosa, stupida, ingiustificata, destinata a sicura sconfitta; ed ecco perché, viceversa, le pagine più solari e vive del romanzo sono quelle che rievocano i giorni spensierati dell’infanzia, pieni di una vitalità sincera, non indotta artificialmente.
Penso dunque che il libro sia riuscito a metà: sia pure coraggioso per i temi affrontati, non riesce però a portare il lettore ad un livello più alto di quello meramente narrativo, ossia il piano della riflessione e del giudizio critico. Una nota di merito, in ogni caso, va allo stile: veloce, efficace, moderno, ricco di neologismi. Con Jack Frusciante e, ancora di più, con Bastogne, Brizzi è riuscito a costruire un linguaggio febbrile, corposo, fulmineo. Se dovessi trovare un punto di forza nel libro, direi che è certamente nella scrittura.