16 febbraio 2016

"La musica, anche quando è ricerca, è prima di tutto comunicazione": intervista a Paolo Tarsi

Il marchigiano Paolo Tarsi è un musicista d’avanguardia che sta ottenendo importanti riscontri, già indicato dalla critica come una delle figure emergenti della musica sperimentale nostrana. Recentemente ha pubblicato il suo secondo disco, Furniture music for new primitives. Ho avuto il piacere di recensirlo e di fare una chiacchierata con Paolo. Buona lettura.

La recensione
Ci vuole molto coraggio, non solo in senso figurato, ad immergersi nel mare magnum della sperimentazione. Eppure, è forse proprio in questo settore, più che altrove, che si viene a creare una corrispondenza personale, direi quasi intima, tra l’artista e l’ascoltatore. Ho usato volutamente la parola “ascoltatore”, perché mai come nell’ambito della musica d’avanguardia occorre abiurare la parola “fruitore” che spesso viene utilizzata in altri contesti, prettamente commerciali. Questo secondo disco del marchigiano Paolo Tarsi, dopo Dream in a landscape, merita proprio di essere “ascoltato”, ossia non semplicemente “sentito”, ma compreso nella sua complicata struttura. Furniture music for new primitives ha suscitato l’attenzione di molti critici, che hanno individuato in Paolo Tarsi una delle figure emergenti della musica sperimentale nostrana. Il disco, dedicato allo scrittore beat William Burroughs, è stato pubblicato dalla storica etichetta Cramps, quella degli Area e del primo Finardi, per intenderci. Numerosi sono gli artisti che hanno partecipato al progetto; tra questi, Paolo Tofani, che suona la sua trikanta veena in Construction dans l’espace et le silence, la formazione d’archi Quartetto Maurice, Roberto Paci Dalò e il sassofonista Michele Selva. L’intento del progetto, come chiarito dallo stesso musicista, è un ritorno alle origini del minimalismo, in un continuo e fecondo dialogo tra rock sperimentale, elettronica, improvvisazione e musica contemporanea.
Si apre con Dreamtime, che ci cala subito nelle atmosfere del disco, con un cupo clarinetto basso che si staglia su echi elettronici, scampoli di suoni provenienti da altre galassie. In Cluster #2 il tappeto sonoro si arricchisce; anche se non c’è una linea ritmica di fondo, che sostenga tutto il discorso, non si può negare che il brano possieda una propria unitarietà, con arpeggi di chitarra elettrica a dominare la scena. Segue Electric Sakuhin, sicuramente il pezzo più complesso e compiuto, arricchito da lievi percussioni. Suonato con la collaborazione del Junkfood 4tet, è un sottile gioco elettronico, di continui rimandi e rinvii sonori, dall’incedere quasi ipnotico. Sebbene stiamo parlando di avanguardia, è questa forse la traccia più “accessibile” dell’album, in cui il convulso esordio si scioglie in una ben definita linea melodica. Maestoso il finale, quasi da opera rock, con la chitarra in grande evidenza. In the total animal soup of time può essere letta come un’ideale prosecuzione, su toni più soffusi, della traccia precedente. Si viene catapultati in un territorio mistico, dominato però da suoni computerizzati; l’impressione è quella di trovarsi in un tempo futuro eppure primordiale, senza uomini e senza dèi. Si arriva poi a Construction dans l’espace et le silence, con la collaborazione del grande Paolo Tofani, che suona la sua trikanta veena; suggestioni orientali, sentori d’incenso, tracce di musica indiana si combinano in un felice connubio. Chiude il disco Minutes to go, ancora con Tofani, dove affiora un parlato lontano, metallico; è forse in questa traccia che più si sente l’influenza delle sperimentazioni estreme degli Area, come quelle contenute in Crac.
Una proposta interessante, tra minimalismo ed improvvisazione, ambient e musica da camera, tracce di un certo rock primitivo, con gli Area, Battiato, Eno e Cage a fare da apripista. Per chi ama l’avanguardia, per chi osa lasciare la strada sicura della musica tradizionale per affrontare ardui percorsi sonori in salita.

L’intervista
Domanda. Ciao Paolo. Qual è il significato di un titolo apparentemente così criptico come Furniture music for new primitives? E chi sono i “nuovi primitivi”?
Risposta. Il titolo dell’album prende spunto in parte dalla traduzione in inglese di Musique d’ameublement (letteralmente significa “musica da arredamento”, talvolta tradotta con “musica da tappezzeria”), l’espressione coniata da Erik Satie per definire l’ultima fase della sua produzione. Non manca un riferimento, poi, al presente in cui viviamo. Un mondo completamente saturo di segnali e modi di comunicare, popolato sempre più spesso da creature completamente virtuali che si muovono quasi come dei nuovi primitivi di fronte alle possibilità tecnologiche del XXI secolo. Ed è per tentare di rispondere ai sovraccarichi di messaggi che caratterizzano la nostra epoca che le composizioni di questo disco si basano tutte su pochissimi elementi musicali. Un modo per permettere a questi brani di imprimere al loro passaggio un segno più duraturo nella memoria di chi ascolta, ma non solo. Ogni composizione è prima di tutto esaustiva nella propria essenzialità.

D. Nelle tracce del disco si avvertono echi della musica sperimentale italiana degli anni Settanta, come Area, il primo Battiato, gli Arti e mestieri, il Perigeo. In quali aspetti ne hai tratto ispirazione? E quali sono, invece, le chiavi del tuo personale linguaggio musicale?
R. Il disco in un certo senso è inversamente speculare all’album Maledetti degli Area, con cui condivide peraltro una dimensione aperta. Laddove in Maledetti (1976) una formazione classica – il quartetto d’archi – decostruiva Bach in un contesto progressive, qui trovano spazio miniature per piccoli ensemble da camera (più o meno elettrificati) accanto a un unico brano propriamente rock. Quindi, come giustamente hai notato, gli Area sono stati un punto di riferimento molto importante per me. Hanno saputo unire in maniera unica la sperimentazione elettronica con rock, free jazz, avanguardia colta e persino con la canzone, senza dimenticare mai che la musica, anche quando è ricerca, è prima di tutto comunicazione. Ad ogni modo i miei punti di riferimento sono innumerevoli e non solo musicali. Nel disco compaiono in codice omaggi a Richard Wright e ai Pink Floyd, a Donald Fagen degli Steely Dan, al compositore Edward Elgar, a Roy Lichtenstein e a Burroughs, naturalmente. Credo sia fondamentale filtrare il mondo che ci ruota attorno per poi trovare una personale chiave di lettura, un modo del tutto proprio di raccontare le cose. Ogni artista, sono convinto, deve trovare una sua autonomia che lo porti ad essere indipendente dagli altri, per questo sono molto critico verso me stesso nel mio lavoro. Mi fa sempre molto piacere quindi vedere riconoscere in questo disco, da parte di chi lo ha ascoltato, forte e ben identificabile la mia firma. Per intenderci, questo non è – né vuole esserlo – un disco à la manière de. I riferimenti a cui accennavo non devono trarre in inganno.

D. In un’epoca come la nostra, di quasi totale desertificazione culturale, quali sono le motivazioni che spingono un artista a spendere se stesso e la sua creatività per la sperimentazione, per l’avanguardia?
R. Non saprei, la mia non è una posizione ideologica. Scrivo musica in completa libertà e so di essere fortunato perché non sempre ciò è possibile. Direi che semplicemente inseguo ciò che più mi gratifica. È anche una forma di ricerca interiore, se vuoi. Però, in futuro, se dovessi sentire l’esigenza di esprimermi in maniera più diretta lo farò con la stessa onestà intellettuale e senza soffermarmi troppo sui distinguo di genere.

D. La tua è una musica colta, di non immediata assimilazione. Chi sono i destinatari di questo messaggio?
R. Quando scrivo non penso mai alla reazione del pubblico. Con questo non voglio dire che non tenga in considerazione la figura dell’ascoltatore, tutt’altro! Semplicemente non cerco di compiacerlo, il risultato non soddisferebbe nessuno. Allo stesso tempo non si tratta di un progetto pensato per una ristretta cerchia di ascoltatori: per avvicinarsi alle musiche contenute in questo disco non è necessario leggere alcun manuale di istruzioni! Chi ama Brian Eno, Battiato, Björk, i Pink Floyd o i Radiohead, così come Philip Glass, Steve Reich, Terry Riley e i Velvet Underground, ha tutti gli strumenti per avvicinarsi a queste sonorità senza dover essere necessariamente a sua volta un addetto ai lavori. Detto ciò, se l’arte è libertà di espressione, tolta anche questa, oggi agli artisti cosa resterebbe? Dato che le possibilità di guadagno ultimamente si sono ristrette un po’ per tutti, mentire agli altri e prima ancora a se stessi non avrebbe proprio senso.

D. Mi ha sempre incuriosito la figura di Paolo Tofani: dagli esordi con i Califfi, passando per gli Area, Claudio Rocchi e gli Hare Krishna. È anche uno degli ospiti del tuo disco; cosa puoi raccontarci di lui?
R. Paolo è una persona semplicemente fantastica e un musicista che non si è fermato al percorso, pur importante, avuto con gli Area. Ha saputo rinnovarsi giorno dopo giorno grazie a una mente rivolta al futuro, esplorando idee nuove e sonorità sempre fresche. Il suo ultimo album, Real Essence (2015), ne è la dimostrazione più lampante.

D. Venendo alla struttura del disco, ho una curiosità. Si può parlare di un concept album, nel senso che le tracce sono legate da un continuum, oppure vivono in completa autonomia le une dalle altre?
R. Il concept del disco si ispira alla struttura del romanzo Le città della notte rossa di William S. Burroughs, in cui la percezione della realtà del racconto ad ogni capitolo si fa sempre più distorta e intricata. Come risucchiato in un piccolo vortice, dopo un inizio quieto e quasi rassicurante l’album approda in un cumulo di elettricità e di elettronica indecifrabile dove la voce affilata di Burroughs e quella magnetica di Paolo Tofani si incontrano e si infrangono in uno specchio gonfio di suoni saturi. Ed è in questa traccia nascosta, dal titolo Minutes to Go, che trova conclusione un lavoro fortemente unitario e, se vuoi, persino un po’ enigmatico grazie anche alla bellissima veste grafica originale realizzata da Luca Domeneghetti e Roberto Masotti.

D. Quali sono i tuoi progetti futuri?
R. Recentemente sono entrato in studio per registrare materiale inedito che verrà presentato a breve, seguiranno nuovi concerti e l’uscita di un documentario per cui ho scritto le musiche. Ho anche in cantiere un libro ma, come sempre, il futuro resta tutto da scrivere. Ho già preso carta e penna ma per ora sono pagine di un diario segreto. Promuovere adeguatamente il nuovo album resta l’obiettivo principale.
Paolo Tarsi (a sinistra) con Paolo Tofani

La suggestiva copertina del disco

Furniture Music for New Primitives (Cramps/Rara Records) è acquistabile:
in digital download su iTunes, Amazon, Google Play
in e-commerce (spedizione a casa) scrivendo a contemporaryjukebox@gmail.com
Alis non tarsis (Facebook)

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