16 marzo 2016

Un mio racconto dà il titolo alla raccolta "L'estremo approdo", edita da SensoInverso

In questi giorni è stata pubblicata dalle Edizioni SensoInverso una raccolta di racconti di autori vari, intitolata L’estremo approdo, ad esito della selezione del Concorso letterario nazionale Lucenera 2015. La Casa editrice ha scelto il mio racconto per dare il titolo al volume.
Tutti gli scritti che lo compongono appartengono al genere fantastico, declinato nelle sue molteplici sfumature: si va dal racconto dell’orrore a quello metafisico, passando per il fantasy, il surreale, il gotico. Secondo quanto riportato nella presentazione del libro, le novelle hanno lo scopo di “inquietare, offrire emozioni intense e colpire”, ma anche di “portare una parentesi di fantasia nella quotidianità”.
Il mio racconto, intitolato proprio L’estremo approdo, è ispirato alla narrativa fantastica di viaggio, in particolare al Gordon Pym di Edgar Allan Poe, con l’intento di generare nel lettore quel senso di straniamento noto come “sospensione dell’incredulità”.
Per ogni informazione sul volume, per saperne di più o per acquistarlo, visitate il sito dell’Editore cliccando qui.

L'illustrazione di copertina, opera di Giada Cattaneo
L’incipit de L’estremo approdo

9 marzo 2016

"Down by the jetty": il fulminante esordio dei Dr. Feelgood

Tira un ventaccio gelido giù al molo, un soffio incessante e fastidioso, che scompiglia i capelli ma almeno porta via il tanfo delle ciminiere del petrolchimico. Ma d’altronde, se vivi a Canvey Island, che altro puoi fare se non scendere giù al molo? Per andare a spaccarti la schiena in raffineria per pochi quattrini la settimana, oppure anche solo per vedere un po’ di gente. Ecco perché nel 1975, quando i Dr. Feelgood pubblicarono il loro primo LP, non potevano esserci molti dubbi sul titolo: Down by the jetty, "giù al molo", appunto.
Copertina semplice ma di grande impatto: i quattro sulla banchina del porto squassata da un vento freddo, con un’espressione tra l’arrogante e l’infastidito, perché non era gente da perdersi in pedanti servizi fotografici. Lo scatto è memorabile, perfettamente evocativo dei personaggi. Il primo è il bassista John B. Sparks, che sembra una comparsa da bisca di certi poliziotteschi italiani degli anni Settanta. Segue il batterista, noto semplicemente come The Big Figure, sorta di antesignano blues brother. E finalmente i due più inquietanti e pericolosi: Wilko Johnson e Lee Brilleaux. Il primo è una strana razza di chitarrista alieno senza plettro, vestito perennemente a lutto e con uno sguardo liquido e allucinato. Infine, l’immenso Lee Brilleaux, che sul palco ringhia nel microfono e suda, si scuote, si agita nei suoi completi chiari da dandy della working class, mentre suona indiavolato l’armonica. Tutti e quattro poco rassicuranti, tutti funzionali ad un sound quadrato come pochi.
I Dr. Feelgood, all’alba del loro esordio su vinile, erano già una celebrità, per via dei concerti infuocati; però, quando entrarono in sala d’incisione, il dubbio era più che legittimo: sarebbero stati in grado di riproporre anche su disco la stessa atmosfera bollente? I quattro suonavano infatti un grezzo rhytm and blues, contaminato dal rock and roll delle origini, da molti definito pub rock; rifiutavano quindi le sonorità prog di moda in quegli anni, in favore di un suono meno elaborato, furioso, fatto di una sezione ritmica martellante e di potenti riff di chitarra, da precursori del punk.
I dubbi sono presto fugati, già dai primi solchi di She does it right, che leggenda vuole sia stata composta in una sola notte. E questo è un aspetto di cui tenere conto: a differenza di molti gruppi rhytm and blues, i quattro di Canvey Island proponevano anche e soprattutto pezzi originali, oltre a qualche intramontabile classico, interpretato con rinnovato vigore. Tra questi spiccano l’immancabile Boom boom, la strumentale Oyeh! e, soprattutto, la struggente Cheque book, in una versione impreziosita dall’ispirata voce di Brilleaux. La miscela è esplosiva e viene riproposta senza cali sulle due facciate: rimarcabili sono in particolare The more I give, Keep it out of sight, l’impetuosa All through the city e Roxette, vero classico del gruppo, con un celebre assolo finale di armonica.
Vi sono dischi che la critica definisce “seminali”, a voler intendere che hanno avuto la capacità di inventare o rinnovare un genere, oppure semplicemente di influenzare band future. Credo che mai come in questo caso l’aggettivo possa essere utilizzato senza paura di sbagliare: i Dr Feelgood, già a partire dal primo LP, sono stati un gruppo innovativo, che ha saputo rimestare a piene mani nel patrimonio del passato, arricchendolo di un furore nuovo, anche e soprattutto scenico, destinato a far proseliti.

La copertina del disco