21 aprile 2016

La rabbia come passione d'amore: riflessioni su due romanzi di Carlo Castellaneta

Undici anni separano i romanzi Una lunga rabbia (1961) e La paloma (1972) di Carlo Castellaneta, undici anni di profondi cambiamenti nel Paese, che passa dal sogno del benessere all’incubo del terrorismo. La cesura è tanto più evidente se, nel leggere le due opere, si segue la cadenza cronologica. Se è vero che nel secondo libro la scrittura dell’autore milanese si fa più matura, è altresì innegabile l’avanzare di un cupo pessimismo, di una totale disillusione verso il sistema. Si potrebbe dire che in Una lunga rabbia il germe della violenza è ancora contenuto, sì che lo stesso sistema si presenta nelle forme del datore di lavoro burbero ma bonario, aduso alle piccole meschinità a danno dei suoi sottoposti, che ancora possono covare una speranza nel cambiamento. Ne La paloma, invece, la violenza esplode in tutta la sua cieca brutalità, arrivando finanche all’omicidio politico.
Iniziando l’analisi comparativa dal primo romanzo, preme sottolineare una curiosa coincidenza: il libro di Castellaneta venne pubblicato nel 1961, nello stesso anno in cui nelle sale cinematografiche uscì Il posto di Ermanno Olmi. Simile la trama: un ragazzo della periferia milanese, lasciata la scuola, cerca un impiego stabile, il cosiddetto posto fisso, feticcio di un’esistenza libera dal bisogno. Identica la scenografia: la Milano in piena trasformazione degli anni Sessanta, divisa tra la sua più antica anima popolare e quella moderna degli affari, destinata infine a prevalere. Diverso è però l’animus dei due protagonisti. Domenico, il protagonista del film di Olmi, è un ragazzo di un’ingenuità disarmante, disposto ad accettare apaticamente le regole che gli vengono imposte, senza tentare una ribellione. Rico, il personaggio principale del romanzo di Castellaneta, invece, rifiuta di accettare i compromessi, contesta le regole stesse del sistema e cerca degli strumenti per opporvisi. Nessuno, tuttavia, si mostrerà sufficiente: né lo studio, né l’onesta, né il reato, né tantomeno l’arte, a lungo vagheggiata da Rico quale unica ancora di salvezza. E allora, che cosa rimane di vero in questo inestricabile groviglio che è il mondo? È il pittore Oreste, amico e mentore di Rico, a dare la risposta: soltanto un’infinita rabbia.
«Una lunga rabbia è una cosa grossa, che capita a pochi, come una passione d’amore. Di piccole rabbie, di capricci, siam buoni tutti. Ma una rabbia lunga, ragionata, coltivata giorno per giorno, che sia da sola una ragione per campare, non è facile averla.»
Eppure, nonostante l’apparente crudezza di queste parole, il libro lascia trasparire una sottile speranza, nella convinzione dei personaggi di riuscire prima o poi a conquistarsi il tanto agognato posto al sole.
La paloma, invece, è un libro più duro e pessimista, che riflette il clima degli anni in cui fu concepito e scritto. L’Italia è quella degli anni Settanta, dilaniata dagli scontri di piazza, dalla strategia della tensione e dalle trame eversive. Pietro, il protagonista del romanzo, è un ferroviere anarchico (un palese omaggio alla figura di Pinelli), che ha eletto la rabbia a ragione di vita. Egli, tuttavia, rifiuta la violenza, sia quella dei “compagni” che quella di Stato. L’ideale per cui combatte è puro, racchiuso in poche, efficaci immagini.
«L’anarchia è il bosco, la ragnatela, la foglia, amore della vita, rivoluzione dentro le cose. […] L’incendio che noi professiamo è dentro il cervello dell’uomo, mica dentro le caserme.»
La narrazione si snoda lungo tre piani, che rappresentano le tre dimensioni del protagonista: il lavoro, la famiglia e il circolo politico. Castellaneta adotta un’efficace scelta narrativa: l’io narrante del romanzo non è infatti Pietro, ma la moglie Lisetta, che descrive il marito in pagine pregne di commozione e di amaro disincanto. Eppure, nonostante Pietro sia una figura positiva e quasi luminosa, sarà destinato a soccombere, schiacciato da due violenze, che egli egualmente abiura: quella scientifica dello Stato borghese e quella irrazionale delle frange più estreme del movimento anarchico. Il libro si chiude così con un’immagine forte: le parole di vendetta vergate sui muri della città, a voler significare che non è possibile uscire incolumi dal circolo della violenza.
Lo scrittore Carlo Castellaneta (foto tratta da Repubblica.it)

11 aprile 2016

"Le rovine in attesa" si aggiudica una Menzione Speciale alla V edizione del "Premio letterario Mino De Blasio"

«Ad un narratore che ha saputo rappresentare il confronto generazionale sullo sfondo di un’utopia politica e culturale. Mondi apparentemente lontani trovano affinità nel progetto utopistico di una nuova rivoluzione del Sud attraverso i due personaggi principali, Erminio Narri e il marchese Priviano, che lasciano il segno per la loro caratterizzazione e l’incisività del dialogo.»

Questa è la motivazione della Menzione Speciale conferita al mio romanzo Le rovine in attesa dalla Commissione esaminatrice della V edizione del Premio letterario nazionale Nero su bianco – Mino De Blasio. La cerimonia di premiazione si è svolta sabato 9 aprile nella Sala convegni di Palazzo Colarusso, in San Marco dei Cavoti (BN).
Il Premio, organizzato dall’Associazione culturale “Provenza…Mino” e dal Comune di San Marco dei Cavoti, è stato istituito per ricordare la figura dello scrittore e poeta sannita. Mino De Blasio, nato nel 1954 e scomparso prematuramente nel 2010, è stato un intellettuale profondamente legato alla terra natia, che ha cercato di trasfondere le proprie idee  e il proprio mondo affettivo in opere di prosa e versi, più volte premiate con importanti riconoscimenti della critica.
Ricevere la menzione speciale è stato per me un grande onore, tenuto anche conto dell'elevato numero di partecipanti al Premio. Desidero dunque ringraziare la giuria per avermi conferito tale significativo riconoscimento.

La pergamena della Menzione Speciale a Le rovine in attesa
Palazzo Colarusso, sede della cerimonia di premiazione

5 aprile 2016

"Le rovine in attesa": la recensione di Michele De Angelis su "L'Opinione"

Una recensione de Le rovine in attesa è apparsa sulla pagina culturale del giornale L’Opinione. Ringrazio l’autore, il giornalista Michele De Angelis, che cura la rubrica La voce degli scrittori, che si occupa della promozione degli autori emergenti.
La recensione
Ritorna la rubrica con la quale “L’Opinione delle Libertà” dà voce e spazio ai nuovi volti della letteratura italiana. Questa settimana vi consigliamo “Le rovine in attesa” di Alfonso Cernelli (Alter Ego Edizioni). Cernelli è nato a Roma nel 1985. Ha esordito nel 2010 con il romanzo “Percezione dell’inverno” (Aletti editore), vincitore del Premio letterario nazionale “N. Zingarelli”, con l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica.
Due uomini tanto diversi quanto profondamente simili. La storia di una rincorsa spasmodica verso un successo assai fragile. Un’opera nella quale convergono intensamente le tematiche legate al meridionalismo e all’influenza degli autori del Novecento. La vera protagonista indiscussa è la lettera, che serva a descrivere luoghi o personaggi poco importa, ciò che emerge è un amore innato per il linguaggio e per tutte le sue sfumature. Ogni singola parola viene scelta e mescolata sapientemente con le successive, permettendo così la creazione di un animo letterario in grado di pervadere ogni angolo dei nostri meandri più intimi. Erminio Narri è un giurista goffo e inetto, convinto però di avere doti superiori rispetto a quelle finora riconosciutegli. La lettera di un nobiluomo meridionale strappa così la sua esistenza, inducendolo ad abbandonare tutto per recarsi avventurosamente a scoprire i tratti di questo affare segreto di cui si parla nella missiva. Veniamo dunque resi partecipi di un vero e proprio progetto rivoluzionario, in cui si deve credere profondamente per poterne uscire vincenti. La sottotrama primaria ci narra però di due uomini profondamente soli, tanto insicuri quanto frangibili, eternamente impegnati in una rivincita illusoria. L’autore ama le parole e con queste ci concede di fare l’amore per tratti brevi e intensi, così come sono angusti i pensieri illusori dei due personaggi.
Nel finale del libro uno dei protagonisti si definirà come una rovina in attesa. Si domanderà se il suo fallimento possa essere principalmente fonte di amarezza o comunque di soddisfazione, per una vita che gli ha concesso delle possibilità straordinarie.

1 aprile 2016

"Il barone Bagge" di Alexander Lernet-Holenia: la realtà non esiste

Nel corso della Prima guerra mondiale, uno squadrone di cavalleria viene inviato alle pendici dei Carpazi ungheresi per una rischiosa missione ricognitiva. Scopo dell’operazione è quello di rilevare la posizione dei russi, senza ingaggiare alcun combattimento. Il comandante della spedizione, però, incurante del pericolo e guidato soltanto da una smodata ambizione, disobbedisce agli ordini e manda lo squadrone incontro al nemico. Giunti in prossimità di un ponte sul fiume Ondava, i cavalieri si lanciano all’attacco contro la fanteria russa asserragliata sull’altra sponda. Ed è a questo punto che gli eventi prendono una piega inaspettata, di cui il lettore avrà contezza solo nelle ultime pagine.
Questa, in sintesi, la trama de Il barone Bagge, breve romanzo del 1936 di Alexander Lernet-Holenia (1897-1976), scrittore austriaco molto celebrato in patria, meno conosciuto in Italia. La sua produzione è stata molto varia, comprendendo romanzi, raccolte di racconti, poesie, saggi, sceneggiature per il cinema e traduzioni; tra queste ultime, famosa in particolare quella dei Promessi Sposi (Die Verlobten). Si deve alla casa editrice Adelphi il merito di aver fatto conoscere anche nel nostro Paese il suo nome.
Il barone Bagge è un racconto che può essere diviso in due parti, antitetiche e speculari come lo sono la vita e la morte, il sonno e la veglia. La prima si chiude proprio nel momento in cui lo squadrone di cavalleria si lancia all’attacco suicida, attraversando il ponte sull’Ondava sotto il fuoco dell’artiglieria russa. A questo punto vi è una cesura, un taglio netto che non riguarda soltanto la narrazione, ma coinvolge le stesse categorie dello spazio e del tempo, destinate a trovare una composizione, sia pur precaria, soltanto nel sorprendente finale.
Il libro condivide diversi aspetti con le opere di un altro grande narratore austriaco, Arthur Schnitzler. Rimane, tuttavia, una differenza di fondo: mentre in Schnitzler il contrasto sogno/realtà è determinato dal disturbo psichico, ossia dalla psicopatologia, in Lernet-Holenia vi è una piena compenetrazione tra le due dimensioni, sì che non è possibile scinderle. Il sogno, cioè, ha la medesima consistenza del reale, così come la stessa realtà non è altro che sogno. L’ambiguità connota la stessa esistenza umana, sino a riflettersi sul binomio vita/morte, che, ad avviso di Lernet-Holenia, sono concetti relativi, questioni di punti di vista. La tesi dell’autore austriaco è tanto semplice quanto paradossale: noi siamo abituati a chiamare morte ciò che per altri è vita, e siamo soliti chiamare sogno ciò che per altri è realtà. D’altronde, il tema non è nuovo nella letteratura: non era stato forse Shakespeare, già nel Seicento, a sostenere che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni?
La vicenda si dipana tra acquitrini e insidiose nebbie, vulcani spenti e cittadine animate da un lieve sentore di morte, il tutto con uno stile ottocentesco, corposo, vivido, magnificamente suggestivo. Un’originale proposta di lettura, indispensabile per chi ha già avuto modo di apprezzare un autore come Schnitzler.