27 maggio 2016

Cos'è la musica, se non una somma di piccole cose?

Se si volesse definire con un’unica parola l’ultimo disco di Niccolò Fabi, bisognerebbe utilizzare l’aggettivo “intimo”. Una somma di piccole cose è un album raccolto, individuale ma non individualista, che scruta i sentimenti profondi dell’artista e dell’ascoltatore. L’atmosfera confidenziale emerge già dai titoli dei brani, come Le chiavi di casa o Facciamo finta, che evocano una dimensione chiusa in se stessa. La sensazione è confermata dalla graziosa confezione in digipack e dal libretto interno, che raccoglie due sole foto dell’artista, che, chitarra sulle spalle, passeggia con aria meditabonda in un sentiero in mezzo al bosco.
Basterebbe questo, basterebbe osservare il disco prima ancora di inserirlo nel lettore, per comprendere appieno in quali atmosfere si verrà calati. Come riportato nelle note interne, il lavoro è stato scritto, suonato e registrato dal solo Niccolò Fabi, che per l’occasione si è ritirato in un casolare a Campagnano di Roma nei mesi di febbraio-aprile 2016. Unico ausilio esterno quello dei cori; per il resto, Fabi ha suonato da solo tutte le tracce, prediligendo gli strumenti acustici. Si tratta di un disco dalle tinte folk, anche se estremamente contemporaneo nelle tematiche trattate; a me ha ricordato Nebraska di Springsteen e Bryter Layter di Nick Drake. La musica è un sottile tappeto che sostiene le liriche, tutte di buon livello. Prevale la chitarra acustica, con tracce di pianoforte e di elettronica, mentre mancano quasi del tutto le percussioni. Le canzoni sono nove, con una cover degli Hellosocrate, Le cose non si mettono bene.
Una somma di piccole cose è il canto di una generazione che, dopo essere stata illusa dalla società tecnocratica e dall'effimero benessere, vuole ritrovare le radici di sé. Ciò è evidente nel brano Ha perso la città, dove Niccolò tratteggia abilmente una metropoli italiana dei nostri giorni (leggasi Roma), evidenziando il punto cruciale dell’attuale disastro, che non è solo nella cementificazione selvaggia, quanto piuttosto nel fatto che si è perso il valore della comunità umana. Occorre dunque adeguarsi ad una Filosofia agricola, citando il titolo della quarta traccia. Il disco è arricchito da meravigliose ballate, come la nostalgica Facciamo finta, l’eterea Una mano sugli occhi e la sorprendente Le chiavi di casa, con testi sempre sopra la media. La canzone che dà il titolo all’album, invece, è una vera e propria dichiarazione d’intenti, un invito ad abbandonare i bisogni apparenti imposti dalla società dei consumi, in favore di una vita di piccole cose, quale ancora di salvezza e strumento di felicità. Il disco si chiude con una enigmatica canzone, Vince chi molla, dove di fatto viene rovesciato il mito dominante dell’essere vincenti ad ogni costo.
Alcuni recensori, commentando questo lavoro, hanno parlato di piena maturità artistica per Niccolò Fabi. Non conosco sufficientemente  la discografia del cantautore per potermi esprimere al riguardo. Di certo, è un gran bel disco, che si lascia ascoltare e assimilare, che intrattiene piacevolmente e al tempo stesso fa riflettere.

17 maggio 2016

Quattro buoni motivi per leggere ancora Martin Mystère

Martin Mystère è una delle serie a fumetti più longeve del panorama nazionale, nata dalla creatività e dall’ironia di Alfredo Castelli. Edita ininterrottamente dal 1982, prima mensile e oggi bimestrale, si appresta a festeggiare i trentacinque anni di carriera, anniversario che più o meno coinciderà con il numero 350 della serie regolare.
Per chi non la conoscesse, è possibile in questa sede dare soltanto poche informazioni, utili per farsi un’idea. Martin Mystère, a differenza di molti eroi dei fumetti, è un personaggio ben calato nel mondo contemporaneo, un uomo che vive tutte le contraddizioni della nostra epoca. Risiede a New York, dove esercita la professione di scrittore “di cose misteriose” e di presentatore di un programma televisivo che si chiama, guarda caso, “I misteri di Mystère”. Non è un archeologo e neppure un professore, quantomeno nell’accezione accademica del termine; eppure, talvolta riveste i panni dell’uno e dell’altro. Possiede una cultura smisurata, che ricomprende le più varie branche del sapere: arte, letteratura, storia, archeologia, paleontologia, geografia, fisica, glottologia e innumerevoli altre. Viene spesso chiamato ai quattro angoli del globo per risolvere i “mysteri” che affliggono l’umanità, che egli svela (anche se non sempre) grazie alle sue formidabili doti. Per chi volesse saperne di più, è presente una ricca pagina in proposito su Wikipedia.
Ciò che a me preme sottolineare, soprattutto per chi già conosce le avventure di Martin Mystère, sono le ragioni che possono ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni, spingere un potenziale lettore ad acquistare il fumetto. A mio avviso, sussistono almeno quattro ottimi motivi.
Il primo è una delle chiavi del successo della serie, che all’epoca del suo esordio era davvero innovativa (e in parte lo è ancora). A differenza degli eroi del fumetto classico, Martin Mystère è un paladino dell’intelletto e non della forza. Egli non disdegna una sana scazzottata, ma odia profondamente la violenza. Ama affrontare gli enigmi e persino i nemici più con la ragione che con l’azione. La prevalenza dell’intelletto sulla brutalità lo porta a dilungarsi in digressioni colte, che, se possono apparire pedanti, costituiscono una delle peculiarità del personaggio.
In secondo luogo, Martin ci insegna a non accettare mai le verità preconfezionate, ad indagare cosa si nasconde sotto l’apparenza e la verità ufficiale, che spesso è solo una menzogna di comodo. Non a caso i suoi principali antagonisti sono gli “Uomini in nero”, membri di una setta oscurantista che vuole nascondere la genuina storia dell’umanità, in modo da non mettere in discussione l’attuale status quo economico e politico, perpetuandolo. L’insegnamento di Mystère è tanto più utile in un’epoca quale la nostra, in cui tutti possiedono le stesse informazioni, in cui verità e menzogna spesso si propagano alla stessa velocità grazie ad internet, sì che non è più possibile discernere l’una dall’altra.
In terzo luogo, la serie a fumetti insegna ai suoi lettori il valore dello studio, la decisività dell’approfondimento, l’importanza di impostare la propria vita come una lunga ricerca.
Infine, Martin Mystère è un uomo senza pregiudizi, un cittadino del mondo che odia ogni forma di razzismo o prevaricazione; lo dimostra il fatto che il suo migliore amico e assistente è Java, un vero e proprio uomo di Neanderthal. Le avventure del professor Mystère consentono così al lettore di viaggiare per il mondo senza preconcetti, di conoscerne usi, costumi, culture e popoli.
Oggi si parla tanto di crisi del fumetto, specialmente per le serie più longeve, che hanno perduto un po’ dello smalto di un tempo. La sfida più grande, però, resta quella di valorizzare testate come Martin Mystère, che oramai fanno parte della cultura nazionale, per non lasciare che si disperda il patrimonio di cui sono portatrici. Soprattutto per le nuove generazioni, così omologate e incapaci di una “ricerca mysteriana”.
Logo della testata, dal sito Sergio Bonelli Editore

2 maggio 2016

Pino Daniele, la libertà e il richiamo della terra

Terra mia (1977) è un disco prettamente partenopeo, forse imperfetto come la città che descrive, ma certamente sentito, ben scritto, radicale, di grande potenza espressiva. É raro trovare nella musica italiana un esordio così chiaro e preciso negli intenti. Con ciò non voglio dire che si tratta del miglior LP di Pino Daniele; personalmente preferisco il terzo, il celebre Nero a metà, in cui si approfondisce il marchio di fabbrica dell’artista da poco scomparso, il felice connubio tra musica popolare, rock e blues. Terra mia resta però un album perfettamente compiuto, organico e coerente, un risultato stupefacente se si pensa che Daniele aveva soltanto ventidue anni quando lo registrò, meno ancora quando lo compose.
Si potrebbe dire che si tratta di un concept, perché tutte le canzoni, sia pure non legate propriamente tra loro, raccontano la stessa secolare storia, quella della città di Napoli e dei suoi abitanti. Sono tredici quadretti di vita partenopea, di respiro quasi letterario, tanto che non è azzardato affermare che il corrispettivo narrativo del disco è la raccolta di novelle L’oro di Napoli di Giuseppe Marotta. Sia Daniele che Marotta hanno raccontato la Napoli dei vichi e dei bassi, arrabbiata e al tempo stesso assuefatta al proprio destino.
Terra mia trae le proprie radici dalla tradizione della musica popolare, su cui vengono innestati echi provenienti da altri mondi, dando vita ad una primigenia fusion. La base del disco è dunque il folk, ma vi sono tracce di quella che sarà la forma musicale più originale dell’artista partenopeo, il ponte che unisce  Napoli con l’America. Pino Daniele suona quasi tutto: chitarra elettrica, classica, acustica, mandola e mandolino. Lo accompagnano musicisti di prim’ordine: Rosario Iermano alla batteria, Enzo Avitabile ai fiati e Rino Zurzolo al basso.
Apre le danze la celeberrima Napule è, pezzo straordinario non solo dal punto di vista musicale, ma anche e soprattutto lirico, perché bastano pochissimi versi per descrivere compiutamente l’anima più profonda della città. Segue un altro classico del repertorio, ‘Na tazzulella ‘e cafè, in cui, con tono abilmente ironico, vengono sbeffeggiati i potenti che si spartiscono la città, mentre il popolo viene ammansito a panem et circenses, anzi a cafè et circenses. Altro capolavoro è la quarta traccia, Suonno d’ajere, che si presenta nella forma di uno struggente dialogo tra il popolo e Pulcinella, accusato di non essere più quello di una volta, di essersi tolto la maschera e di non voler far più ridere grandi e piccini, costringendo la gente a pensare. E Pino Daniele, che per l’occasione veste i panni del novello Pulcinella, fa valere le sue ragioni: non è vero che ha abbandonato il suo popolo, sono le urgenze del momento storico che gli impongono di gettare la maschera e di assumere un atteggiamento critico, perché è tempo di svegliare la gente, che dorme il sonno beato dell’impotenza. Gli altri brani raccontano vividi episodi della vita quotidiana dei bassi: il furtarello commesso da due delinquenti di strada (Maronna mia), il venditore ambulante (Fortunato), il vecchio che cammina in riva al mare da solo, consumando il dolore della vedovanza (Cammina cammina), le cantilene delle donne affacciate alle finestre (Saglie, saglie).
Una menzione speciale meritano le ultime due tracce. ‘O padrone è forse il brano musicalmente più complesso, retto dalla chitarra elettrica e da una pimpante sezione ritmica, che anticipa temi e suoni della successiva produzione di Daniele. Chiude il disco la tormentata Libertà, con quei versi iniziali che da soli valgono il prezzo del biglietto:
Chiove 'ncoppa a 'sti palazze scure,
'ncoppa 'e mure fracete d'a casa mia,
tutt'attuorno l'aria addora 'e 'nfuso.
Chi song'io che cammine 'mmiezo 'a via 
parlanno 'e libertà.