30 agosto 2016

"Il ragazzo rapito" di Robert Louis Stevenson: un classico dell'avventura

Sebbene ne esistano in commercio diverse versioni per i più piccoli, sarebbe improprio definire Il ragazzo rapito come un racconto per l’infanzia. È piuttosto un intramontabile romanzo d’avventura, da leggere a tutte le età, ma che richiede qualche nozione di storia inglese, specialmente sulle insurrezioni giacobite dei secoli XVII e XVIII. La vicenda è infatti ambientata nella Scozia ribelle degli anni successivi al 1746, insanguinata dai duri scontri tra clan rivali e dal conflitto tra giacobiti e lealisti. Prima di iniziare la lettura, consiglio quindi di documentarsi su queste complicate vicende; le informazioni contenute su Wikipedia sono più che sufficienti per farsi un’idea.
Classica è la trama: il diciassettenne Davide Balfour, orfano di entrambi i genitori, è l’inconsapevole beneficiario di una grande eredità, da dividere con il turpe zio Ebenezer. Quest’ultimo, avaro e meschino, fa rapire il nipote da alcuni loschi marinai per privarlo dei suoi diritti; l’obiettivo è quello di farlo vendere in America al mercato degli schiavi. Il brigantino su cui Davide è imbarcato, però, cola miseramente a picco durante una tempesta, sì che il ragazzo si trova di colpo affrancato dai suoi aguzzini, libero ma naufrago sopra un’isola deserta. A questo punto hanno inizio le sue lunghe peregrinazioni, sia da solo che in compagnia dell’amico Alan Breck, che lo porteranno infine a far valere i suoi diritti, nel più lieto dei finali.
La maestria di Stevenson non sta solo nella costruzione del complicato intreccio, ma soprattutto nelle meravigliose descrizioni dei luoghi; il romanzo si svolge quasi interamente all’aperto, tra cupi boschi e brulle brughiere, in cui il lettore viene catapultato. Altro punto di forza è nella definizione dei personaggi. Per essere un romanzo d’avventura, la loro psicologia è sufficientemente approfondita, senza risolversi nella semplice contrapposizione buono/cattivo. Anzi, ben potrebbe dirsi che Stevenson è attento nel far emergere il lato oscuro di ogni personaggio, persino del protagonista Davide o del suo amico Alan.
Il ragazzo rapito è un libro famoso, oggetto anche di una riduzione cinematografica. È considerato uno dei migliori testi di Stevenson, oltre che uno dei più celebri romanzi d’avventura di ogni tempo. Tuttavia, le lunghe digressioni storiche possono risultare poco comprensibili per il lettore che abbia scarsa conoscenza dei tristi eventi che sconvolsero la Scozia per tutto il corso del Settecento. Come già detto, consiglio di documentarsi prima di intraprendere la lettura.

14 agosto 2016

"Io non mi faccio condizionare dal sistema!": intervista a James Senese

Il grande sassofonista James Senese, fondatore e leader del gruppo jazz-rock Napoli Centrale, si è esibito a Torchiara (Sa) lo scorso 11 agosto, in occasione del festival itinerante Segreti d’autore. L’ho incontrato prima del concerto ed è stato così gentile da concedermi una bella intervista, in cui rivela molto di sé, della sua arte e della sua visione del mondo.

Domanda. Ciao James. Speriamo che le mie domande non siano come quelle del famoso film con Lello Arena…
Risposta. Non ti conviene farle. (Ridendo)

D. Perché tra tutti gli strumenti hai scelto proprio il sassofono? Come è nata questa passione?
R. È stata una scelta naturale. Era uno strumento di cui mi piaceva moltissimo il suono, la voce. L’avevo sentito, senza sapere cosa fosse, e così è nata la passione.

D. Quanti sassofoni possiedi? Ce n’è uno a cui sei particolarmente legato?
R. Ne ho solamente uno. Ne ho avuti tanti, ma ritengo sia meglio affezionarsi ad un unico strumento. Credo sia la scelta migliore, perché possedere dieci sassofoni, ad esempio, è una forma di megalomania. Invece devi affezionarti ad uno solo, che ti rimane e lo porti in tutti i concerti.

D. Che musica ascolti? Preferisci i classici, oppure ascolti anche musica contemporanea? E soprattutto, preferisci il vinile o il cd?
R. Ascolto sia la musica del passato che quella contemporanea. La musica del passato è quella che ci ha dato la nostra vitalità, la voglia di essere musicisti. Ma ascolto anche la musica del presente, in particolare quella d’avanguardia. Preferisco ascoltarla su vinile.

D. Sei un uomo di successo, che ha portato nel mondo un modo personale di fare musica. Come sei riuscito a non farti dominare dal successo, mantenendoti sempre saldo sulle tue posizioni?
R. Combattere il sistema è questo, non entrarci dentro. Il fatto è che io non mi faccio condizionare dal sistema. Il sistema vuole che tu fai delle cose secondo la sua logica, secondo il suo modo di vedere. Ma non deve essere così. Devi essere te stesso, ed io penso di esserlo.

D. Il rischio di chi lotta contro il sistema è quello di non riuscire mai ad emergere…
R. Il problema è crederci. Crederci e non farsi condizionare, perché vengono dei momenti in cui il sistema ti prende, ed è in quel momento che devi essere più forte e non farti prendere. Se tu credi alla tua dimensione, a quello in cui credi e a quello che fai, a quello che tu vorresti essere, allora tutto andrà bene. Bisogna essere assolutamente così, fino alla fine della tua vita, in poche parole. La vita dovrebbe essere un evolversi nella direzione che tu vorresti.

D. Una domanda sui Napoli Centrale. Mi ha sempre colpito la vostra originalità rispetto ad altri gruppi italiani degli anni Settanta. In particolare, mentre gruppi come gli Area o il Banco si occupavano della classe operaia, voi avete parlato della terra, dei braccianti meridionali, degli emigranti. Qual è la ragione di una tale scelta?
R. Perché noi veniamo dal popolo. Inoltre, la prima forma di vita è proprio legata alla terra, da cui noi veniamo. Il contadino è il primo uomo sulla terra che ha cercato di evolversi. Diciamo che adesso, però, c’è stata un’evoluzione nel nostro impegno: ora difendiamo tutta la parte debole del popolo, quella che non può difendersi. È stata una scelta naturale, legata alla dimensione in cui siamo nati.

D. Se i Napoli Centrale fossero nati oggi, avrebbero avuto lo stesso successo, oppure i tempi sono mutati e con essi quello che la gente vuole? Il vostro messaggio è ancora attuale?
R. Il tempo non cambia quasi niente, attenzione! Cambiano le generazioni, un po’ i modi, ma in realtà non cambia niente. Noi esistiamo da oltre quarant’anni e oggi abbiamo addirittura più successo di prima. Sembra strano, ma è così. Noi oggi giriamo tutto il mondo; si vede che abbiamo seminato bene! Quando le nuove generazioni vengono ad ascoltarci, ci ascoltano per quello che siamo nel presente, non vanno a vedere quello che siamo stati, perché è il momento quello che conta. Noi ci siamo evoluti mantenendo sempre il nostro stile. Quando riesci ad emergere, rimani sempre lì. Pensa ai Pink Floyd: loro sono lì, e anche se non fanno più dischi sono sempre i Pink Floyd. La stessa cosa vale per i Napoli Centrale: noi abbiamo fatto la rivoluzione, ed è rimasta.

D. Hai detto che hai girato il mondo. Tra i tanti artisti con cui hai collaborato, quali sono quelli che ricordi con maggiore piacere?
R. Il problema è che noi stiamo molto avanti, suoniamo avanguardia. L’unico con cui ho collaborato con piacere, perché sono entrato nella sua dimensione, è stato Pino Daniele. Al di là di questo, non mi eccita niente.

D. Se dovessi dare una definizione di te come artista, cosa diresti?
R. Sono uno vero, perché ho scelto di fare questa vita. Non ce ne può essere un’altra, e io la faccio con il cuore, con amore. Se non facessi questo, non lo so che cazzo farei. La mia è stata una scelta molto precisa, l’impegno è ventiquattro ore su ventiquattro. Prima viene questo e poi tutto il resto.

D. Il tuo nuovo disco si intitola O’ sanghe; che progetti hai per il futuro?
R. Il mio progetto è far capire agli altri che abbiamo perso una parte del nostro sentimento per colpa del sistema, ma anche per colpa nostra. Non riusciamo ad agire: a tutto quello che il sistema ci dice, noi rispondiamo sempre di sì. Perché crediamo che domani è un altro giorno, ma non è così. Serve un modo per poterci liberare da questa schiavitù.

D. E la musica è sufficiente per essere liberi?
R. Sì. Perché la musica ha realizzato importanti cambiamenti nel mondo. Tante cose importanti sono state cambiate per mezzo della musica. Chi vuol capire, capisca.
James Senese sul palco di Torchiara (11 agosto 2016)

11 agosto 2016

"Il trono di legno" di Carlo Sgorlon: il canto di addio della civiltà contadina

Il trono di legno è un romanzo particolare, non inquadrabile entro gli angusti confini di un genere. Può essere definito come lo struggente canto di addio dell’ancestrale civiltà contadina, travolta dall’avanzare della modernità. Al tempo stesso, è un elogio della bellezza del raccontare e dell’arte di inventare storie. I due aspetti sono strettamente collegati, in quanto quasi tutti i miti e le leggende sono nati in contesti rurali. Si pensi alle storie intorno al focolare, alle favole narrate dagli anziani nelle rigide serate d’inverno, oppure ai racconti che allietavano il duro lavoro dei campi. È questo il mondo che Sgorlon ha voluto rievocare nel romanzo, con viva partecipazione e un soffuso rimpianto per la sua scomparsa.
La vicenda è ambientata in quel fazzoletto di terra friulana che Sgorlon conosceva bene, nei villaggi di Ontans e Cretis spersi tra i brulli magredi e le sempiterne nevi delle Alpi. Il protagonista, Giuliano, è uno strano essere selvatico che sente di non appartenere al presente o al futuro, ma al passato, alla civiltà dei contadini e degli artigiani. Vive a Ontans assieme a Maddalena, che non è sua madre e neppure una parente, ma una donna che ha deciso di prendersi cura di lui per espiare una colpa del passato. Giuliano non sa nulla della storia della sua famiglia, che imparerà a conoscere attraverso dettagli che gli si riveleranno negli anni. Verrà così a sapere che il nonno, noto semplicemente come il Danese, ha avuto un’esistenza errabonda e avventurosa, quasi come il personaggio di un romanzo. Ritrovare il Danese, o almeno qualche traccia ulteriore della sua esistenza, diviene così il suo obiettivo. Giuliano, però, è un ragazzo irrequieto e proprio la sua inquietudine lo porterà ad allontanarsi dalla via maestra che aveva creduto di poter tracciare. Tale irrequietezza nasce dalla convinzione secondo cui la dimensione fenomenica è solo l’aspetto tangibile del reale, dietro il quale si cela una dimensione più profonda e vera, che non è tattile ma fantastica, inafferrabile eppure tanto più concreta. L’ambiguità si riverbera in ogni aspetto della sua vita, come nel rapporto con le donne: Giuliano, infatti, sa amare con la stessa intensità sia la materna e rassicurante Lia che la silvestre e sfuggente Flora.
Ben può affermarsi che Il trono di legno è un romanzo di formazione, perché Giuliano, alla fine del suo girovagare, acquista una nuova consapevolezza, la forma definitiva del suo essere. Egli rinuncia a girare il mondo, abbandonando il giovanile proposito di vivere all’avventura; preferisce rifugiarsi nell’antica magione di Cretis, unico luogo in cui riesce a placare le ansie che lo tormentano fin dall’infanzia. Comprende che la pienezza dell’esistenza può realizzarsi anche in un minuscolo villaggio nel cuore delle Alpi, microcosmo che raccoglie in sé il ricordo di molte vite passate e l'attesa del divenire. Giuliano sceglie di diventare un narratore, seduto sul severo seggiolone di legno così simile ad un trono contadino, circondato dai bambini che a bocca aperta ascoltano le sue meravigliose storie.
La fortunata opera di Sgorlon può dunque essere letta come un elogio della fantasia, che ha una valenza creatrice quasi divina. Le leggende e i miti hanno la stessa essenza della realtà, anzi sono l’unica realtà possibile. L’uomo che inventa storie, il narratore, possiede un dono straordinario, che fa di lui un eletto, elevandolo al rango di un dio. Sono le parole del protagonista a chiarire magistralmente questo concetto.
«La realtà e la vita sono soltanto un miraggio che non si lascia raggiungere; esse si possiedono soltanto nel ricordo, nella fantasia, nella parola e nel racconto. La vita era soltanto illusione, attesa di qualcosa che non veniva mai, e noi ombre sfocate e vane, scosse da assurde passioni. […] Attraverso la fantasia avrei potuto vivere e raccontare tutte le avventure del mondo, mentre viverle veramente, ora, mi avrebbe generato solamente un sentimento di noia e di ripetizione.»