3 ottobre 2016

"Autostop per l'Himalaya" di Vikram Seth: la Cina che non ti aspetti

Il giovane indiano Vikram Seth, futuro autore di libri di successo, nell’estate del 1981 decise quasi per caso di intraprendere un viaggio proibitivo, sia per le condizioni climatiche e delle infrastrutture che per gli ostacoli burocratici: dalla Cina all’India passando per il Tibet. Autostop per l’Himalaya è l’asciutto e piacevole resoconto di quell’itinerario, vincitore del Thomas Cook Travel Book Award, importante riconoscimento per la narrativa di viaggio. All’epoca dei fatti, Seth era uno studente dell’Università di Stanford, residente da due anni nella città cinese di Nanchino per un programma internazionale di studi. Dopo la rigida chiusura della Rivoluzione culturale, la Repubblica Popolare stava iniziando, sia pur timidamente, una nuova fase di apertura verso il mondo, consentendo gli scambi culturali con studenti stranieri. Raramente, però, era consentito ai forestieri di viaggiare da soli per il Paese; le autorità avevano cura di pianificare nei minimi dettagli gli itinerari per gli stranieri, che di fatto venivano sottoposti ad un controllo più di stampo paternalistico che autoritario. Vikram Seth decise di rompere il protocollo: dovendo ritornare in India per le vacanze estive, pensò di farlo nel modo più avventuroso possibile: viaggiare in autostop fino in Tibet, arrivando infine a Delhi passando per il Nepal.
All’epoca la Cina era agli albori della rapida trasformazione economica e tecnologica che l’avrebbe trasformata nel gigante dell’industria che oggi conosciamo. La Rivoluzione culturale, nella sua cieca furia iconoclasta, aveva distrutto tanti aspetti della tradizione, ma non era riuscita a mutare l’animo più profondo della nazione. Questo aspetto viene in più occasioni rimarcato da Seth, che si sofferma sui cambiamenti in atto con uno spirito da saggista, concentrando l’attenzione sui profili sociologici, economici, agricoli e demografici, senza addentrarsi più di tanto nelle dinamiche politiche. All'autore interessa principalmente descrivere le caratteristiche immutabili del popolo cinese, quelle che il socialismo non è riuscito a scalfire: la curiosità verso gli stranieri, l’attenzione alle loro esigenze e una sincera e squisita ospitalità.
Il libro ha un buon ritmo, dettato dall’ansia del viaggiatore di uscire in fretta dai confini cinesi, prima della scadenza del visto che avrebbe comportato l’inevitabile fermo di polizia. Questo, tuttavia, è anche il punto debole del racconto, il cui andamento è puntualmente rallentato dalla minuziosa descrizione degli ostacoli burocratici relativi ai visti di ingresso e di uscita sul passaporto. L’autore si dilunga su questi aspetti, sia perché hanno costituito uno dei problemi più rilevanti del viaggio, sia per descrivere la rigidità dei funzionari cinesi, sempre fedeli al motto “il regolamento è il regolamento”. Alla lunga, però, le continue preoccupazioni di carattere amministrativo rendono poco avvincente la lettura. Molto più interessanti sono le pagine in cui l’autore si sofferma su alcuni aspetti delle culture cinese e tibetana, come la cucina, la religione, l’arte e la letteratura. Vivide e suggestive, poi, sono le descrizioni della natura, dei paesaggi e delle strade al limite della praticabilità.
Il giudizio complessivo sull’opera rimane un po’ sospeso. Personalmente mi aspettavo qualcosa di più, soprattutto sul Tibet e le sue tradizioni. Il titolo è in questo senso fuorviante, perché oltre due terzi della vicenda si svolgono in Cina e in Nepal; inoltre, la maggior parte delle persone incontrate lungo la strada sono han (l’etnia dominante in Cina) e non tibetane. La parola Himalaya richiama alla mente di noi occidentali immagini diverse da quelle che il lettore troverà nel libro; anziché sulle nevi perenni, si viene catapultati su strade fangose che attraversano fiumi in piena, modesti insediamenti urbani di periferia e anonimi uffici governativi. Un romanzo-saggio che mi sento comunque di consigliare, almeno per avere un’idea di quella Cina che (forse) non esiste più.

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