9 novembre 2016

We want bread, but roses too!

“Vogliamo il pane, ma anche le rose” è il famoso slogan di uno sciopero delle lavoratrici del settore tessile tenutosi nel 1912 a Lawrence, nel Massachussets. Con questa frase, divenuta patrimonio dell’immaginario collettivo, si vuole indicare il diritto delle donne lavoratrici, e più in generale della classe operaia, a beneficiare di condizioni tali da consentire il pieno sviluppo della personalità umana: il pane e le rose, il sostentamento materiale e il benessere psico-fisico. L’uomo non è una macchina e il lavoro non deve servire alla mera sopravvivenza, ma essere funzionale alla realizzazione completa della personalità. Per comprendere quanto il principio abbia influenzato la storia moderna dell’Occidente, si potrebbe azzardare che sia stato recepito anche dalla nostra Assemblea costituente, e che riecheggi nei primi articoli della Carta fondamentale (artt. 2, 3 e 36).
Ken Loach, da sempre attento alle dinamiche sociali e alla difesa dei più deboli, ha deciso di utilizzare lo slogan come titolo di uno dei suoi film più riusciti, Bread and roses del 2000. La pellicola precede di un anno un altro importante lavoro, Paul, Mick e gli altri, che affronta la condizione dei ferrovieri inglesi a seguito della privatizzazione del trasporto su rotaia. Rispetto a quest’ultimo, in cui prevale l’aspetto  documentaristico, Bread and roses si caratterizza per una maggiore attenzione verso l’intreccio narrativo, con spunti che travalicano i confini del drammatico per lambire quelli della commedia.
La vicenda è ambientata negli Stati Uniti, tanto che si parla del primo film “americano” di Loach. Protagonista è Maya, una ragazza messicana che riesce dopo anni di sacrifici a raggiungere la sorella a Los Angeles, anche se da clandestina. La speranza di una vita migliore, però, si scontra immediatamente con la dura realtà. La società americana si mostra chiusa verso gli immigrati, quasi privi di considerazione sociale e destinati ai lavori meno qualificati e scarsamente tutelati. Maya trova impiego presso la ditta di pulizie dove è occupata la sorella; il lavoro è duro e malpagato, oltre che privo delle più elementari garanzie, quali le ferie e l’assistenza sanitaria. Gli addetti (che nel doppiaggio italiano vengono chiamati poco elegantemente “pulitori”), quasi tutti latinos, sono sottoposti a turni massacranti, sotto lo schiaffo dei caporali che minacciano e attuano licenziamenti per ogni minima mancanza. Sarà grazie all’aiuto di uno scaltro sindacalista, interpretato da Adrien Brody, che gli operai riusciranno a ottenere l’agognato riscatto e un futuro migliore, in un finale dolceamaro di grande realismo e potenza emotiva.
Anche in questa pellicola, Ken Loach mette in scena un cinema militante, impegnato a dare voce agli ultimi, quelli a cui è tolto persino il diritto di gridare per far valere i propri bisogni. Al di là dell’ingenua fiducia verso il movimento sindacale, il messaggio che il regista inglese vuole lanciare è più generale, perché si riferisce al significato stesso della lotta e della mobilitazione non violente, considerate le uniche possibili strade per l’affrancamento dalla schiavitù del bisogno. Non si può ridurre la pellicola a mero slogan; Ken Loach usa uno slogan per lanciare un messaggio, ma lascia che siano i protagonisti a parlare, ad esprimere ansie e bisogni dell’uomo comune, con un linguaggio semplice che crea subito una forte empatia con lo spettatore.
Va infine evidenziata la grande attualità del film, che affronta problematiche tuttora vive e, se possibile, ancora più drammatiche rispetto a quindici anni fa. Alcune di queste tematiche sono strettamente legate alla società statunitense, come l’assenza di un’adeguata assistenza sanitaria pubblica o il tramonto del “sogno americano”. Altre, invece, ci riguardano da vicino: il fenomeno dell’immigrazione e il continuo svilimento del lavoro dipendente. Mai come oggi si sente la necessità di affermare questo principio: il lavoro è un valore in sé, ma non fino al punto di appiattire l’essere umano, di ridurlo a mera macchina, a misero ingranaggio della produzione. Abbiamo bisogno del pane, ma anche delle rose: come si può dare torto al rivoluzionario Loach?
Una scena del film

2 commenti:

  1. Anch’io sono d’accordo sulla grande attualità del film, soprattutto ora che l’ America si ritrova un presidente come Trump – democraticamente eletto dai suoi cittadini - poco sensibile al problema degli immigrati. Ma, dato per scontato che “il pane” è universalmente riconosciuto quale bisogno essenziale dell’’uomo, senza il quale non esiste alcuna possibilità di sopravvivenza, resta da capire quali debbano essere, nella società in cui viviamo, “le rose” per poter dare maggiore crescita culturale e giusto benessere psicologico alla classe lavoratrice. Se io mi guardo in giro, vedo che la gente si lascia irretire esclusivamente dalla tecnologia e dai suoi manufatti sempre più sofisticati. Se queste sono “le rose” a disposizione, ebbene devo dire che ho i miei dubbi sul fatto che possano fiorire.

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  2. Quelle di cui parli, più che rose, sono beni materiali, che il sistema vuole alla portata di tutti, probabilmente per controllarci meglio. Le rose di cui parla il film, e a cui si riferisce lo slogan, hanno una valenza spirituale ben più profonda. Condivido il tuo punto di vista. Grazie per il commento.

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