22 dicembre 2016

I capolavori della Galleria Comunale di Arte Moderna di Roma

La Galleria d’Arte moderna di Roma Capitale non va confusa con la più celebre Galleria Nazione di Arte moderna, che ha sede nell’immenso palazzo in stile neoclassico di Viale delle belle arti. Il Museo comunale si trova invece in Via Crispi 24, in un edificio recentemente ristrutturato, un tempo monastero di clausura, adiacente la chiesa di S. Giuseppe a Capo le Case. Il grazioso palazzetto passò nel 1879 in proprietà del Comune di Roma, per effetto del trasferimento della comunità monastica, e negli anni ha avuto diverse destinazioni, fino a quella attuale. L’antico chiostro è stato mantenuto e costituisce un angolo suggestivo di meditazione e riposo, con vista sui tetti di Roma.
Il percorso museale si sviluppa su tre livelli, anche se non tutte le opere sono esposte. La collezione della Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale è infatti costituita da oltre tremila opere, tra dipinti, sculture, disegni e incisioni, che coprono il periodo che va dalla fine dell’Ottocento agli Anni Quaranta del ventesimo secolo. La grande mole di capolavori impone una necessaria turnazione nell’esposizione. Le opere provengono sia da acquisti compiuti dal Comune presso rassegne espositive, che da donazioni private.
Il Museo nacque ufficialmente nel 1925, anche se l’amministrazione capitolina aveva iniziato ad effettuare i primi acquisti già alla fine del XIX secolo; nel corso degli Anni Trenta tale attività ricevette un significativo impulso, grazie alle Biennali e alle Quadriennali che furono organizzate presso il Palazzo delle Esposizioni. Per comprendere la valentia della politica culturale di quegli anni, basti pensare che «le opere acquistate per la Galleria Comunale nelle edizioni delle Quadriennali tra il 1931 e il 1943 furono ben trecentoquarantotto, un patrimonio estremamente interessante che raccoglieva i nomi più significativi dell’arte italiana della prima metà del Novecento, quali Carrà, de Chirico, Carena, Casorati, Capogrossi, Scipione, Cavalli, Afro, Severini, Trombadori, Morandi e molti altri che si andarono ad aggiungere alle opere di Carlandi, di Sartorio, di Coleman, e in genere agli artisti de I XXV della Campagna Romana, oltre a un significativo nucleo di opere della seconda metà dell’Ottocento. Per non dimenticare, poi, un variegato fondo ascrivibile agli anni tra Simbolismo e Secessione e a un nucleo altrettanto importante di opere futuriste degli anni Trenta» (dal sito del Museo). Dopo la Guerra le vicende del fondo museale furono assai travagliate, con diversi cambi di sede e addirittura lo smantellamento della Gallleria, fino alla sua riapertura nel 1995.
Impossibile enumerare tutte le opere degne di menzione; per questo, mi limiterò a descrivere le tre che più mi hanno colpito.
Il pastore, di Arturo Martini (1889-1947), è collocato in posizione strategica, in fondo al corridoio che costeggia l’antico chiostro dell’ex convento. Ad altezza naturale, appoggiato ad un bastone, fissa l’osservatore con i suoi occhi senza pupille eppure pieni di espressività. È considerata una delle opere più significative della scultura italiana del Novecento; realizzata in materiale refrattario, venne esposta alla I Quadriennale romana del 1931, ottenendo un prestigioso primo premio. È una figura senza tempo, ancestrale, semplice ma carica di simbolismi religiosi ed esoterici. Martini voleva tornare al primitivismo delle forme e per farlo aveva necessità di arretrare fino ad un soggetto primigenio, vecchio quanto l’uomo e comune a tutti i popoli e a tutte le latitudini. Nel suo atteggiamento meditabondo, reso ancora più intenso dal materiale umile con cui è stato realizzato, il pastore è la sintesi di millenni di storia, e al tempo stesso la conferma dell’immutabilità della sostanza più profonda dell’essere umano. Una sostanza incoercibile, così simile al divino.
Altro capolavoro della Galleria è il Cardinal decano, ritratto del porporato Vincenzo Vannutelli eseguito da Gino Bonichi, meglio noto come Scipione (1904-1933), figura originalissima della pittura italiana del Novecento. La grande tela è la summa della sua arte, il culmine delle visioni di una Roma livida e sanguinolenta, corrotta e corrosa da un potere che si ammanta di grazia e che ne regge le sorti da oltre due millenni. Il cardinale è seduto in posa classica, il viso quasi caricaturale e le mani scheletriche e vizze. Intorno a lui, angeli che non hanno niente di celestiale e una città che sembra andare in fiamme assieme ai suoi simboli, come la cupola di San Pietro che incombe sinistra alle spalle. Immobile, nonostante i suoi 94 anni, il cardinal decano governa un mondo in sfacelo. Si dice che Scipione fosse affascinato dall’anziano cardinale, dall’autorevolezza che promanava dalla sua figura superba. L’opera, tuttavia, non ha intenti celebrativi: il porporato è l’allegoria di un potere invincibile, che si è preservato perpetrando negli anni gli stessi errori e le medesime ipocrisie.
Con L’angelo rapitore, di Gino Severini (1883-1966), si torna alla centralità dei sentimenti umani. L’opera è dedicata al figlioletto, morto all’età di sei anni. È lui il bambino tra le braccia dell’angelo che lo porta via, rapendolo all’affetto dei suoi cari. Lo sguardo dell’angelo è immoto: non c’è cattiveria nel suo gesto, solo consapevolezza dell’ineluttabilità di un fato di cui è mero esecutore e da cui non può sottrarsi. Tiene con tenerezza il bimbo, quasi volesse proteggerlo da un male più grande della stessa morte. Ai piedi della tomba i giocattoli e i ricordi di una breve esistenza: un fucile a piombini, un grammofono, una riproduzione della Torre Eiffel, una tromba, due fotografie. La grandezza dell’opera sta nel fatto che l’artista è riuscito a comunicare il dramma senza indulgere nel patetismo, il lutto senza cadere nel lacrimevole. Sono le cose, più che le figure umane, a parlare; sono gli oggetti che si caricano di una forza inaspettata e comunicano il messaggio. Il bimbo fissa l’osservatore e alza una mano in un gesto di estremo saluto, pochi istanti prima di essere portato via per sempre.

9 dicembre 2016

"I didn't see it coming": l'infinita storia degli irriducibili del punk

Nell’anno di grazia 1981 il furore punk era già archiviato, Sid Vicious era morto da tempo e Johnny Rotten si era rifatto una vita coi Public Image Ltd. I Sex Pistols, coerenti con la filosofia del no future, rappresentavano un passato glorioso da destinare ai libri di storia. Steve Jones e Paul Cook, rispettivamente chitarra e batteria dei Pistols, avevano già da un paio d’anni fondato i Professionals, un gruppo che, sfruttando la popolarità dei fondatori, aveva firmato con la Virgin. Dopo un singolo di rodaggio, avrebbero dovuto esordire su LP, ma una serie di problemi legali ritardarono l’uscita del disco, che vide la luce solo nel 1990 con una nuova etichetta e in edizione limitata. Dopo un cambio di formazione e un tour prima annunciato e poi disdetto, i Professionals tornarono in studio di registrazione e nel novembre 1981 licenziarono I didn’t see it coming (letteralmente, Non l’ho visto arrivare). Mai titolo fu più profetico: pochi giorni dopo la pubblicazione, tre membri del gruppo rimasero feriti in un incidente stradale negli Stati Uniti, in Minnesota, dove si erano recati per promuovere il lavoro. L’incidente costrinse la band ad un periodo di inattività, che contribuì a far cadere nel dimenticatoio il disco, nonostante alcune buone recensioni. Nel 1982 tornarono in tour negli Stati Uniti, ignorando ancora una volta l’Inghilterra, e in quell’occasione suonarono come gruppo di apertura ai concerti dei Clash. Alla fine del tour, Cook, Meyers e Mc Veigh tornarono in patria, mentre Jones rimase negli Usa, segnando di fatto lo scioglimento della sfortunata formazione. A trent’anni di distanza, nel 2015, i Professionals, guidati dal solo Paul Cook alla batteria, sono ritornati con una raccolta, una serie di concerti e un annunciato nuovo album.
Nell’accingersi a recensire I didn’t see it coming (1981), bisogna partire da una domanda: cosa accade se le figure meno carismatiche di una band arcinota decidono di provarci da sole? Potrebbero sfornare il capolavoro che non ti aspetti, oppure un disco pietoso. Esiste però una terza strada, quella di fatto percorsa dai nostri: licenziare un disco onesto, non straordinario ma con buoni spunti. L’album in questione segue la strada maestra dei Sex Pistols: si tratta di punk che strizza l’occhio al glam, fatto di canzoni più lunghe e meno veloci dello standard, con pezzi interessanti, che qualche volta denotano tuttavia una carenza di fantasia nelle soluzioni ritmiche. Privo di particolari doti vocali, il gruppo spesso si affida ai cori e ad un robusto muro del suono, grazie alla collaborazione di Paul Meyers al basso e Ray Mc Veigh alla seconda chitarra. La copertina tradisce l’intenzione di pestare duro: di grande impatto, rappresenta un pugile colpito in pieno viso da un potente destro, che evidentemente non aveva visto arrivare (come da titolo).
Il lato A è decisamente il migliore. Si parte forte con i primi solchi di The magnificent, che la leggenda vuole sia dedicata a Sid Vicious. In effetti il brano narra della rapida ascesa e dell’altrettanto fulminea caduta di un personaggio del mondo dello spettacolo. Potente il ritornello: «Who put you on the wall?/ Who's the one who has to watch you fall?/ Who put you on the pedestal?/ Who's the one who wins out pass the fool?». Segue Payola, canzone ironica che stigmatizza la pratica, in uso tra le radio, di farsi pagare dalle etichette discografiche (o dagli stessi gruppi) in cambio della messa in onda dei loro brani. Il pezzo ha un ritmo sostenuto con le chitarre elettriche a farla da padrone, anche se è evidente una semplicità della scrittura, che indulge nel ritornello orecchiabile. La terza traccia, Northern slide, è una delle migliori, grazie ad una inusuale tromba che cerca di imporsi sopra il muro chitarristico. Seguono i nostalgici ricordi di vita punk di Friday night square, pezzo più lento e dal ritmo cantilenante, che affronta la dipendenza dalle droghe. Espliciti i versi «Some black dude, he said, “Come along with me/ I think I know the type of thing you need.”/ I will wait, I will get anew,/ I hope she comes and gets me pretty soon./ Feeling hard, trying to feel so mean,/ I always hate these type of scenes». Chiude la facciata la bellissima Kick down the doors, che profuma di riscatto di periferia, di affrancamento da una vita balorda. È una ballata che richiama alla mente le cose migliori dei Generation X e che si impone grazie ad uno scaltro ritornello.
Il secondo lato si apre col botto. Little boys è tiratissima e splendida, un canto di protesta che non avrebbe sfigurato nel repertorio dei Clash. È l’urlo dei Professionals contro i simboli di una società oppressiva: il lavoro, la scuola e la polizia. Da antologia punk i primi versi: «Little boys like you, they got a job to do/ in a uniform, I’ll tell you what to do./ Help old ladies across the street,/ direct the traffic in the sleep./ It’s a job that you won’t mind». Trascurabili le successive All the way e Crescendo, meri riempitivi non degni di nota. Il livello si alza alla fine con Madhouse, il grido di disperazione di un internato in un manicomio che chiede aiuto a chi non può o non vuole sentirlo, e con la conclusiva Too far to fall, in cui ritorna lo straniante suono della tromba sopra una piacevole melodia sostenuta dalle due chitarre.
Pur non trattandosi di un LP indispensabile, va comunque premiata la pervicace coerenza del gruppo, che rimase ancorato ai fasti degli anni ’70 senza farsi abbagliare dalle nuove sonorità elettroniche. La furia iconoclasta dei Sex Pistols era già un lontano ricordo, ma i Professionals misero egualmente entusiasmo e mestiere al servizio di un buon album, la cui principale pecca, se ne vogliamo proprio individuare una, è quella di correre con il freno tirato in alcuni punti.
È stato ristampato in CD nel 2001 dalla EMI, ma è molto meglio procurarsi il vinile usato, anche se nell’edizione italiana (codice VIL12220) mancano i testi e la confezione è piuttosto scarna.
La copertina del disco
La band, fotografia sul retro dell'edizione italiana

Per chi volesse saperne di più, la storia del gruppo è raccontata sul sito comune di Cook e Jones: http://www.cookandjones.co.uk/