24 dicembre 2017

"La casa in collina" di Cesare Pavese: la Resistenza degli inerti

Ci sono momenti storici che impongono una scelta. Ci sono contingenze che richiedono a ciascun cittadino di schierarsi, di prendere una decisione che travalichi la dinamica puramente intima e ideale, per divenire concreta partecipazione alla costruzione di un nuovo mondo, oppure alla preservazione del vecchio. L’otto settembre del 1943 ha rappresentato per l’Italia uno di questi momenti chiave, forse l’ultimo e il più drammatico. Sotto i cieli foschi della guerra civile, i cittadini furono chiamati a scegliere quale parte servire. In tali frangenti, più che la scelta sbagliata, fanno paura l’inerzia e l’indecisione.
Corrado, il protagonista de La casa in collina, è professore di scienze naturali in un liceo torinese. Pur essendo ancora giovane, non viene richiamato alle armi e può continuare a svolgere la sua professione. Quando la guerra si fa più dura e anche le città italiane vengono bombardate nottetempo dagli Alleati, Corrado sceglie di allontanarsi da Torino e di salire in collina, trovando ospitalità nella casa di due donne che lo accudiscono amorevolmente. La collina è un vero e proprio mondo a parte, il fulcro del microcosmo pavesiano in antitesi alla città: mentre nella prima si succedono ancora le stagioni e la frutta continua a crescere sugli alberi, la metropoli è ferma nella paura costante della morte che arriva dal cielo. Corrado cerca la salvezza dagli orrori del conflitto, ma la quieta rassegnazione domestica non fa per lui; intraprende così lunghe passeggiate assieme al cane Belbo. Durante una di queste uscite, giunto all’osteria denominata "Le Fontane", incontra Cate, un suo vecchio amore, che nel frattempo aveva avuto un figlio. Cate presenta a Corrado i suoi amici antifascisti, che dopo l’armistizio si danno alla lotta partigiana contro tedeschi e repubblichini. Scampato fortunosamente ai rastrellamenti, Corrado è l’unico della compagnia a non prendere parte alla lotta, bloccato come sempre dall’incapacità di prendere una decisione diversa dalla fuga. Egli è dunque l’emblema dell’accidia, o forse meglio ancora dell’incapacità di far fronte agli obblighi. Tutta la sua vita è stata un continuo disertare dalle responsabilità: ha lasciato Cate perché non voleva stringere un rapporto più duraturo, ha abbandonato la città per fuggire dagli orrori e, infine, non è neppure riuscito a seguire fino in fondo i propri ideali, una volta che la Storia l’ha posto di fronte alla necessità di sacrificarsi per essi.
La casa in collina è dunque il racconto di un intimo rovello, reso dall’utilizzo della narrazione in prima persona. È tuttavia un romanzo che non può essere confinato entro i tormenti del protagonista, perché altre sono le figure che brillano nitidamente: l’enigmatica Cate e il figlio ribelle Dino, l’ingenuo ma ardimentoso Fonso, la devota Elvira. Anzi, può addirittura sostenersi che, mentre le altre figure si muovono agilmente verso un destino finanche crudele ma scelto coraggiosamente, Corrado è la quintessenza della neghittosità e della rinunzia a vivere.
Va rimarcato che il breve romanzo venne pubblicato nel 1948 nel volume Prima che il gallo canti, assieme a Il carcere, scritto circa dieci anni prima. Il nome del volume richiama naturalmente il tema del tradimento, che è in primo luogo di se stessi e dei propri ideali. Stefano, protagonista de Il carcere, è un ingegnere di simpatie antifasciste confinato in un villaggio della Calabria; col tempo dimentica persino le ragioni della carcerazione e finisce per adeguarsi alla molle vita del paese, giungendo a rifiutare il contatto con un non meglio precisato anarchico, confinato in un villaggio vicino, pur di non essere coinvolto di nuovo nella lotta politica. L’adeguarsi alla sua condizione lo preserva forse dal dolore, ma è di fatto l’atto attraverso cui si consuma il tradimento. Allo stesso modo, Corrado fugge in collina per accomiatarsi dagli strepiti del conflitto; ma quando la guerra lambisce anche i colli, portandosi via gli amici, egli non sa fare altro che scappare di nuovo, alla ricerca di un ventre caldo in cui lasciarsi vivere tranquillo. La sua infedeltà è dunque triplice: pur di non essere coinvolto, tradisce gli amici, gli ideali e persino le amate colline.
La casa in collina è forse l’apice della scrittura pavesiana, la summa del suo pensiero, come sostenuto da molti e più autorevoli di me. Rimane uno dei testi seminali della letteratura sulla Resistenza, raccontata secondo il punto di vista degli indecisi, degli impauriti, degli inerti.
Il volume che include il romanzo breve "La casa in collina"

6 dicembre 2017

"Le rovine in attesa" si aggiudica il secondo posto al "XXI Concorso letterario internazionale Il Saggio – Città di Eboli"


La Giuria del “XXI Concorso letterario internazionale Il Saggio – Città di Eboli” ha conferito il secondo premio per la sezione narrativa edita al mio romanzo Le rovine in attesa. La cerimonia di premiazione si è svolta sabato 2 dicembre nella Sala Mangrella del Complesso monumentale di San Francesco in Eboli (Sa).
Il primo premio per la sezione narrativa edita è andato al giornalista Luciano Ragno, con il suo romanzo storico Marozia, la padrona di Roma. Arrivare secondo è per me un grande onore, tenuto conto dell'elevato numero di partecipanti al Premio, che rappresenta oramai uno dei più importanti eventi culturali della provincia di Salerno. Desidero dunque ringraziare il Presidente Giuseppe Barra e tutti i giurati per avermi conferito tale significativo riconoscimento.
Questa la motivazione:
«Il romanzo di Alfonso Cernelli “Le rovine in attesa” ha una scrittura fluida ed avvincente; i personaggi sono definiti e riconoscibili e la trama non risulta mai essere banale. Il tema centrale, che accomuna i due protagonisti, è la solitudine; la bravura dello scrittore sta nel raccontarla senza l’uso di luoghi comuni. Romanzo ben congegnato e ricco di tante vie d’uscita, che portano il lettore ad eventuali e personali sliding doors.»
Un momento della cerimonia di premiazione
L'attestato per il secondo posto della sezione narrativa edita

Su YouTube è disponibile un breve video della premiazione.

27 novembre 2017

Nostrani ma strani: i Mercenaries e il loro unico album, "I'm not Russian"

Quando adocchio una bancarella che vende LP a poco prezzo, so già che il ciarpame la farà da padrone. Eppure, nonostante innumerevoli volte l’unico risultato conseguito sia stato respirare un mucchio di polvere, cedo sempre alla tentazione. Non credo alla possibilità di fare l’affare, quanto piuttosto spero di trovare qualche disco misconosciuto per cui valga la pena spendere il prezzo di un caffè o poco più. Si sa che la storia della musica, come d’altronde la letteratura, è piena di vicende meno note che avrebbero meritato un maggiore approfondimento.
I’m not Russian dei Mercenaries ne è l’emblema. Buttato alla rinfusa in mezzo a decine di raccolte di Fausto Papetti, mi ha attirato per la copertina. E dire che è anche piuttosto anonima! Quasi completamente bianca, riporta sulla sinistra il nome del gruppo e sulla destra il titolo dell’album, con un’iscrizione aggiuntiva in giapponese. Tutto faceva pensare ad un gruppo straniero alla Ultravox, compresi i titoli delle canzoni, ma altri indizi dicevano il contrario: il nome dei musicisti e alcuni piccoli disegni di celebri monumenti del Bel Paese.
I’m not Russian è un lavoro oscuro, perla minore di un certo rock all’italiana che si era sviluppato all’inizio degli Anni Ottanta, grazie ad autori come Gino d’Eliso o Faust’o. Dalle poche notizie ricavabili sulla rete, si scopre che i Mercenaries erano una creatura del chitarrista Claudio Dentes, autore di un album sperimentale pubblicato alla fine degli anni Settanta, nonché musicista per artisti del calibro di Alberto Fortis e produttore di successo. La formazione, oltre allo stesso Dentes alla voce e chitarra, comprendeva Betty Vettori ai cori, Franco Cristaldi al basso e i due fratelli Beppe e Piero Gemelli, rispettivamente alla batteria e chitarra (sotto lo pseudonimo di Josè 1 e Josè 2). Il disco vede l’apporto di Claudio Fabi come produttore, mentre in due tracce le tastiere sono suonate da Alberto Fortis, ospite d’eccezione perché i componenti dei Mercenaries erano il gruppo spalla del cantautore. I’m not russian è il loro unico album, pubblicato nel 1982 dalla Aleph Records, una sussidiaria della CGD.
La busta interna riporta i crediti ed i testi, tutti in inglese. Non è facile definire il genere dei Mercenaries, perché non sono inquadrabili in alcun genere. C’è però un immediato punto di riferimento, che emerge subito: i primi Police, quelli di Outlandos d’amour per intenderci. Brani come Men who fight, Radio e la title-track, infatti, risentono evidentemente dell’influsso della band di Sting, tanto che a tratti i Mercenaries fanno palesemente il verso ai Police. Eppure, sarebbe riduttivo parlare di un disco derivativo. È un LP originale, che mescola pop elettronico con echi di new-wave, o meglio di synth-pop, e influenze di altri stili come il reggae. Ho parlato di new-wave, ma va fatta una precisazione: nel disco non dominano atmosfere cupe o claustrofobiche, quanto piuttosto ariose, ampie, tipiche di un pop raffinato che si caratterizza per i repentini cambiamenti di ritmo e l’uso dei cori. È forse un lavoro che in alcuni punti risente degli anni, ma comunque sorprende già al primo ascolto per la cura degli arrangiamenti e delle parti strumentali, che lasciano intuire la classe di Dentes & soci.
La prima facciata contiene quattro gioielli. Il primo, Men who fight, ricalca lo stile dei Police, al pari della successiva e incalzante Radio. Panorama drama è una piccola gemma pop dal ritmo coinvolgente. Chiude la facciata la meravigliosa White tornado, che sfoggia una coda finale chitarristica da far impallidire gruppi più quotati, oltre ad avere un testo suggestivo sorretto da un canto perfetto. Il lato B prosegue sulla falsariga del primo, con brani più veloci e meno strutturati. Ancora una volta sono i Police il necessario termine di paragone: si ascolti I’m not Russian, oppure la pimpante Intruder. Il disco sorprende fino all’ultimo solco: si conclude con una delicatissima ballata cantata da Betty Vittori, Follow the string, così perfetta che sembra di conoscerla da una vita.
È un disco di fatto ignoto, ma che vale la pena ascoltare perché è un tentativo compiuto di uscire fuori dai ristretti confini del pop-rock, per costruire qualcosa di più raffinato che, almeno in Italia, non aveva precedenti (e sarei ben felice di essere smentito). Nonostante sia abbastanza raro, è reperibile on-line a prezzi irrisori.
LP "I'm not Russian" - Mercenaries - 1982, Aleph Records

11 novembre 2017

Il punk oltre il punk: "The image has cracked" degli Alternative TV

Erano anni che non acquistavo un disco appartenente alla prima ondata del punk inglese. Ormai disamorato dei Sex Pistols e dei Damned, non più entusiasta di fronte ad un riff dei Buzzcocks, fedele solo al verbo dei Clash, mai avrei creduto di comprare e recensire un album degli Alternative TV, di cui ricordavo solo il nome, letto in un’antologia sul punk che per anni ha rappresentato la mia Bibbia in materia.
L’occasione si è presentata per il “Cassette store day 2017”, la festa che ogni anno celebra le musicassette e autocelebra i pochi che ancora le ascoltano, sostenendo magari che il nastro è l’unico vero supporto ad alta fedeltà. La Radiation Records di Roma ha festeggiato la giornata con tre ristampe in musicassetta (edizione limitata a 350 copie) di altrettanti album meno noti del periodo d’oro del punk. Tra questi, il primissimo lavoro degli Alternative TV, The image has cracked. Il nastro suona davvero bene, anche se non possedete un mitico Nakamichi Dragon. Sul mio più modesto Luxman K111 del 1989 il suono esce limpido e sufficientemente definito, nonostante il lavoro sia in parte live.
Gli Alternative TV nacquero su iniziativa di Mark Perry, editore della storica rivista “Sniffin’ glue”, che voleva fondare un gruppo che potesse innestare tendenze sperimentali nel punk, genere per sua natura intuitivo e poco cerebrale. The image has cracked venne pubblicato nel maggio del 1978, ed in qualche modo rappresenta la consacrazione e il superamento del genere, come una porta socchiusa che lascia intravedere quello che verrà. È dunque un disco di transizione, anche se, a mio avviso, ben più significativo in tal senso è il coevo The scream dei Siouxsie & The Banshees.
Consiglio di tralasciare la prima traccia, Alternatives, una sorta di noioso dialogo in forma di botta e risposta tra il gruppo e gli spettatori, che prendono in mano il microfono ed esprimono la propria opinione. Noioso oltre ogni dire e inutile. Conviene allora passare alla seconda traccia, la nervosa ed elettrica Action time vision, probabilmente la più riuscita dell’album. La prima facciata è più vicina ai canoni classici del punk, con echi degli Adverts e degli Sham69 (si ascoltino in proposito Why don’t you do me right? e Good times), anche se i nostri non disdegnano parti strumentali più lunghe, sebbene non particolarmente articolate.
Il lato B contiene invece i germi delle sperimentazioni degli anni successivi: le canzoni si dilatano, si allarga la gamma degli strumenti, fino a timidi accenni elettronici. Si pensi alla corposa Viva la rock n’ roll, caratterizzata dalle note di un pianoforte in apertura e chiusura, che termina con una ripresa addirittura delicata. O ancora, si ascolti la strumentale Red, che si dilata in lancinanti e cadenzate scariche elettriche. Splitting in two, invece, inizia in maniera poco convincente, per poi esplodere in una coda strumentale da muro del suono. L’edizione in MC è arricchita da due deliziose bonus tracks: Love like limp, dalle venature reggae alla Clash, e la tiratissima Lies.
Di certo The image has cracked non è un lavoro epocale, ma è qualcosa di diverso rispetto al classico schema “tre minuti-tre accordi”. Gli Alternative TV hanno tentato un’evoluzione rispetto ad un piano prestabilito, forse senza grandi doti tecniche, ma senza dimenticare la rabbia e l’urgenza espressiva. Punk, ma con un piede oltre la soglia.

La ristampa in MC curata Radiation Records (2017)

28 ottobre 2017

"L’eredità di Eszter" di Sándor Márai: non si sfugge al proprio destino

Nei romanzi dell’ungherese Sándor Marai (1900-1989) ricorre spesso il tema dell’attesa di un destino che deve compiersi: è così nel celebre Le braci, nonché ne L’eredità di Eszter. L’ineluttabilità del fato non è tuttavia percepita con fastidio dai personaggi; essi piuttosto la vivono con rassegnazione, anzi con una quieta accettazione, perché a nulla varrebbe opporsi. «Ho fatto di tutto per mettermi in salvo, ma il nemico continuava a seguirmi. Ormai so che non poteva agire diversamente: siamo legati ai nostri nemici, che a loro volta non sono in grado di sfuggirci», afferma Eszter nel preambolo delle sue memorie.
Eszter abita nella casa che le ha lasciato il padre, assieme all’anziana parente Nuna; le due donne vivono modestamente, ma con dignità, grazie ai pochi risparmi e alla cura del piccolo orto. L’esistenza di Eszter è monotona, i giorni si accumulano l'uno dopo l’altro senza particolari variazioni sul tema; l’unico uomo che abbia mai amato, l’infido e menzognero Lajos, è sparito da vent’anni. Per quanto la loro storia d’amore sia stata tormentata e triste, lei sa che «quel senso di allarme continuo» provato a causa di Lajos è stato l’unico vero significato della sua vita. Il tempo ha ricucito le ferite, restituendole la serenità in cambio di una completa abulia affettiva. Un giorno però Lajos annuncia con una lettera il suo ritorno. Dalla missiva sembrerebbe animato da buone intenzioni, ma Eszter sa che tornerà solamente per riprendersi quel poco che non è ancora riuscito a sottrarle.
Lajos ci viene presentato come un uomo che «si era fermato a un certo stadio del suo sviluppo, era diventato vecchio senza mai perdere quello spirito goliardico da studente di legge, che non è particolarmente rischioso e non porta – ecco la cosa più triste – da nessuna parte». Il tempo ha imbiancato i suoi capelli e ha disegnato sottili rughe sul suo volto, ma non è riuscito a cambiarlo nel profondo. Egli è rimasto «un genio della menzogna», pronto a sacrificare tutto e tutti in nome di un’indefinita smania di vivere, che non ha altro scopo se non quello di distruggere gli altri per alimentare se stessa. Eszter ne è pienamente consapevole, tanto che arriva ad affermare che «la tua vita è stata un’unica grande menzogna; non potrò credere neanche alla tua morte, perché anche quella sarà un inganno». Eppure, la coscienza dell’imbroglio non riuscirà a salvarla da un destino ampiamente preveduto, ma ineluttabile. Eszter accetta ciò che il fato le riserva e si lascia docilmente spogliare di ogni avere e depauperare di ogni speranza; tuttavia, non per questo possiamo definirla sciocca. Marai costruisce Eszter come un’eroina stanca, saggia nella misura in cui non oppone un’inutile resistenza a quanto le è stato riservato da una forza superiore. Resta da comprendere se tale forza abbia o meno una valenza religiosa, ma io propenderei per una risposta negativa. Forse per Marai è la passione a governare le nostre esistenze, ma anche questa soluzione rimane dubbia. È davvero amore quello che venti anni prima ha avvinto Lajos e Eszter? Oppure è solo una meschina e umana macchinazione, creata dal deus ex machina Lajos, vero e proprio prototipo del mascalzone e del bugiardo? Il segreto non è svelato, tutto rimane confinato nel rapporto tra i due, al punto che il dubbio rimane anche una volta chiuso il romanzo. L’eredità di Eszter lascia addosso tanta amarezza, perché ci fa intendere quanto possano essere spietati e cedevoli i rapporti umani.
Marai è considerato uno dei grandi della letteratura mitteleuropea; nonostante abbia vissuto a lungo a Napoli e a Salerno, la sua fama in Italia è relativamente recente, grazie alla casa editrice Adelphi che ne ha tradotto e pubblicato le opere dopo la morte. Le sue doti di scrittore emergono con limpidezza ne L’eredità di Eszter, che oltre ad essere animato da una sotterranea profondità filosofica, brilla per la purezza dello stile e il piacere della lettura.

14 ottobre 2017

Un pugno di canzoni italiane da riscoprire

L’anno scorso Giorgio Canali ha dato alle stampe un album di cover, reinterpretando a suo piacimento alcune canzoni italiane poco conosciute e spesso dimenticate, che avrebbero meritato sorte migliore. Per gioco ho voluto ripetere l’operazione secondo il mio gusto, scegliendo alcune canzoni italiane meno note, da scoprire o riscoprire.

Lucio Battisti – No dottore (da La batteria, il contrabbasso, eccetera, 1976). Spulciare nel patrimonio che Battisti ci ha lasciato significa trovare canzoni meno o per nulla note, forse poco radiofoniche, ma che testimoniano la poliedricità di un cantautore che non deve e non può essere accostato unicamente a La canzone del sole. No dottore è il monologo, reso di fronte ad uno psichiatra o ad un giudice (non ci è dato saperlo), di un “pazzo” accusato di aver ucciso la propria fidanzata. Tra numerosi non ricordo e scampoli di lucidità, la canzone lancia domande che non avranno una risposta, insinua dubbi che non possono essere sciolti. Sofferto il cantato, che si apre nel ritornello in ampi spazi di luce.

Bluvertigo – Ebbrezza totale (da Metallo non metallo, 1997). Trovare le giuste parole per descrivere un brano dei Bluvertigo non è facile. Ebbrezza totale ti assale dalla prima nota, ti sconvolge dal primo verso («Questi fiori blu ci deviano») e quando ti lascia vorresti che ricominciasse immediatamente da capo. Elettronica e chitarre in giuste dosi, voce sopra la media.

I Califfi – Madre domani (da Fiore di metallo, 1973). Non poteva mancare un pezzo sentimentale e strappalacrime, nella più pura tradizione italica. Ho scelto questa canzone dei Califfi, appartenente al periodo della loro svolta progressiva. Madre domani, però, non ha nulla a che vedere con il prog, è una piacevole ballata dalla struttura tradizionale “strofa-ritornello-strofa-ritornello”, che tuttavia ha dalla sua parte un testo che mi ha sempre sinceramente emozionato.

Giorgio Canali & Rossofuoco – Orfani dei cieli (da Rojo, 2011). Canali è arrivato tardi alla carriera solista, dopo aver militato per anni nei CSI con la sua chitarra distorta. Assieme ai Rossofuoco ha tirato fuori dal cilindro canzoni meravigliose, in cui mette a nudo un’anima tormentata e una rabbia covata sin dalla nascita. In Orfani dei cieli, però, mette da parte l’incazzatura e i watt per raccontarci l’amore dal suo punto di vista: «come se non avessimo modi più letali di farci male / di innamorarci delle ragazze che dietro il bancone di un bar / ci danno da bere. / Come se fosse la prima volta che ci si innamora, / come se avessimo bisogno di imparare ancora, ancora, ancora».  

Circo fantasma – Vecchi amanti (da Ninna nanna per la classe operaia, 1997). Gruppo poco conosciuto dell’ondata rock italiana degli anni Novanta, i Circo fantasma hanno dato alle stampe un intenso album di impegno sociale, tra pezzi originali e cover (De Andrè, Springsteen). Vecchi amanti racconta di due persone che si erano amate durante la guerra e si incontrano di nuovo dopo decenni. Un testo ispirato e un’originale e struggente fisarmonica ne fanno un brano che avrebbe meritato ben altra fortuna.

Consorzio Suonatori Indipendenti – L’ora delle tentazioni (da Linea gotica, 1995). Uno di quei pezzi che necessitano di più ascolti per essere compresi, assimilati ed infine amati. Nove minuti pazzeschi, che iniziano in sussurro e terminano in un'orgia di chitarre distorte, con due voci stupende che si incrociano. Il testo, poi, è tra i più suggestivi scritti da Ferretti: «la casa, la chiesa a modo e per bene / campana che suona, la notte che viene, / cattolico decoro, cattolico decoro, cattolico decoro, / la luce si spegne. / Scaldano le braccia del peccato, / scaldano il freddo del firmamento, / che fredda è la notte».

Diaframma – Io amo lei (da In perfetta solitudine, 1990). Federico Fiumani è uno di quei cantautori dal repertorio vastissimo, praticamente sconosciuto al grande pubblico. Sceglierne soltanto una è un’ingiustizia, ma Io amo lei resta una delle canzoni migliori, imprescindibile in ogni concerto dei Diaframma. Dentro c’è la summa dell’arte del Fiumani: un testo mai banale che racconta una storia intrigante, la voce asimmetrica che si spinge fino all’urlo e un giro di chitarra che riconosceresti tra mille.

Marlene Kuntz – Infinità (da Ho ucciso paranoia, 1999). «La cosa più speciale / che mi potessi offrire / è un lampo di infinità, / che non mi fa dormire / e non mi fa vegliare. / Ora è per sempre ora». Bastano queste eteree parole a dire tutto. Un pezzo lieve ma intenso, quattro minuti perfetti.

Moda – Polvere (da Senza rumore, 1989). Una precisazione è d’obbligo: sto parlando dei Moda, gruppo culto della new wave italiana degli anni Ottanta, e non dei contemporanei Modà. Polvere non ha nulla a che vedere con i suoni cupi della new wave, ma è un perfetto gioiellino pop, arricchito dalle tastiere e da un’ottima interpretazione vocale di Andrea Chimenti. Radiofonico com’è, farebbe tuttora impallidire molti attuali singoli di successo.

Claudio Rocchi – Ho girato ancora (da A fuoco, 1977). È la canzone del riflusso, l’amaro resoconto della fine delle utopie, delle lotte e dei sogni. La generazione che voleva cambiare il mondo è finita annegata nella droga, nella violenza, nel terrorismo mascherato da lotta di classe. L’unità è diventata divisione e nessuno avrebbe saputo raccontarla con parole migliori di queste: «anche se in una foto / scattata un momento potrebbe sembrare / che noi tutti insieme siamo un esercito grande / che può se lo vuole riuscire a cambiare. / Ma dentro le tasche degli stessi vestiti / che tutti vestiamo, oggetti diversi ci dicono / la vera realtà che viviamo. / La pistola o la lira, la siringa o la mala, / la tessera o il fumo, la chiave di ferro, / il fumetto di sesso, la Gita, il Vangelo, / la bottiglia di whisky, il pane integrale. / E in un solo momento un esercito grande / diventano gruppi che guardando più in fondo / si scopron diversi, si scopron lontani, / si scopron nemici».

Alan Sorrenti – Vorrei incontrarti (da Aria, 1972). Quando uscì Aria, Alan Sorrenti era un cantautore quasi sconosciuto, ancora lontano dal successo di pubblico che avrebbe costellato la sua carriera a partire dalla fine degli anni Settanta. Il primo LP seguiva però una direzione precisa lungo la strada del sogno, trainato da una straordinaria prima facciata, in cui si dipanava una delle suite più riuscite del panorama progressivo nazionale. Il lato B si apriva invece con un breve gioiello, la delicata Vorrei incontrarti, canzone d’amore che profuma di Oriente e misticismo, viaggi in luoghi lontani e respiri d’incenso. Poesia pura i versi: “vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica, / vorrei incontrarti lungo le strade che portano in India”.
La copertina di Aria di Alan Sorrenti, grande disco da riscoprire

5 ottobre 2017

"Lettere di una novizia" di Guido Piovene: alle radici di un segreto rovello

In uno sperduto convento della campagna veneta, una giovane novizia di nome Rita Passi viene colta da atroci dubbi sulla propria vocazione ad un passo dal prendere il velo. Desiderosa di salvarsi da quella che considera una condanna, rivela le sue ambasce in un’accorata lettera indirizzata a don Giuseppe Scarpa, sacerdote che qualche giorno prima aveva fatto visita al convento. Inizia così un turbinio di missive tra una pluralità di persone, che cercano di dipanare una matassa, non solo morale, che si dimostrerà impossibile da sbrogliare; quello che sembrava essere semplicemente il naturale sommovimento di uno spirito giovane, finisce per diventare un increscioso caso di cronaca, tale da sconvolgere l’esistenza di quanti ne vengono a conoscenza. È questa, in parole povere, la trama del romanzo di Piovene, pubblicato nel 1941 e considerato un classico. Confesso che, quando il libro mi è capitato tra le mani, l’ho inizialmente considerato di scarsa attrattiva, ma ho dovuto ricredermi già dalla lettura della prima lettera. Il caso narrato da Piovene va oltre la tematica religiosa, per elevarsi a paradigma di studio della natura umana e della sua doppiezza. Parlando dell’ambiguità dell’uomo, il poeta gallese Dylan Thomas rivelava che servivano dieci paradossi per ricomporre in lui un’unica verità. In un certo senso, è questo il messaggio lanciato da Piovene: tutti i suoi personaggi hanno un fondo di ambiguità, che li conduce a giustificare le proprie azioni agli occhi degli altri, nella costante paura di un giudizio. Le loro azioni sono guidate dall’istinto, e questo li porta ad autoassolversi, a cercare negli altri (e nel lettore) una conferma della propria innocenza. Si pensi a quanto scrive Rita sull’amore, che sente «come precario e condannato, più una invenzione e specialità mia che un sentimento naturale e comune». Tale convinzione, mai scalfita da dubbi, la conduce agli errori che ne funesteranno la giovane vita.
Lettere di una novizia promette, pagina dopo pagina, la rivelazione di una verità che permane invece oscura. Chiuso il libro, rimane sospesa una domanda: qual è la verità? Quella torbida e ambigua narrata da Rita, oppure quella gravida di risentimento esposta dalla madre? Una risposta non è data, perché ciò che a Piovene interessa non è la scoperta del vero, quanto piuttosto l’accettazione dell’impossibilità di tale scoperta. Ma d’altronde la verità è sconosciuta agli stessi protagonisti. Nell’introduzione, Piovene scrive che «i personaggi […] hanno un punto comune: tutti ripugnano dal conoscersi a fondo; […] ognuno tiene i suoi pensieri sospesi, fluidi, indecifrati, pronti a mutare secondo la sua convenienza». Per questa ragione il romanzo non vive della classica dicotomia buono/cattivo; tutti i personaggi mentono, tutti cercano di giustificare le proprie azioni scaricando le colpe sugli altri e sul fato. La novizia Rita è l’emblema di questa ambiguità; è al tempo stesso vittima e carnefice, ingenua e maliziosa, al punto da soccombere a tale doppiezza.
In conclusione, Lettere di una novizia è il racconto epistolare di una crisi di coscienza, l’intimo resoconto di un segreto rovello in grado di sconvolgere le esistenze di quanti ne sono venuti a conoscenza. C’è poco da dire sulla qualità della scrittura. Piovene è un grande narratore e rimane un piacere leggere le quarantadue lettere che compongono il romanzo, sempre in bilico tra uno stile colto e la cruda cronaca dei tormenti del cuore.

22 settembre 2017

Giorgio Canali alla (ri)scoperta della canzone italiana

Giova subito chiarire che Perle per porci (2016) è un album di cover. L’ultimo disco di inediti dei Rossofuoco è invece Rojo del 2011, in cui Canali usava la sua chitarra disturbata per combattere i poteri forti e le storture del mondo. A cinque anni di distanza, il chitarrista di Predappio ha deciso di cimentarsi in un progetto in qualche misura rischioso: sfornare un album interamente formato da cover. Non si tratta di una novità assoluta nel panorama del rock indipendente italiano; mi viene in mente Un ricordo che vale dieci lire di Federico Fiumani del 2014, in cui il cantautore punk per eccellenza reinterpretava brani di autori noti, come Dalla e Battisti. L’operazione portata avanti da Canali è diversa e controcorrente, come d’altronde è nello stile del personaggio. Perle per porci contiene probabilmente le canzoni che Canali vorrebbe aver scritto, e la scelta è tutto fuorché scontata. Il disco non è però un semplice divertissement, ma si propone un meritorio obiettivo di recupero, non sempre archeologico, di canzoni che non hanno avuto i riconoscimenti che avrebbero meritato. In questo senso sono state “perle buttate ai porci”, gettate nel mare magnum del mercato discografico senza essere state adeguatamente recepite da un pubblico disabituato alla musica di qualità. Il punto di forza dell’album è che tutte le tredici canzoni sembrano essere state scritte da Canali, che le interpreta con la sua consueta energia mista di dolore e rabbia, coadiuvato da Steve Dal Col alla chitarra, Marco Greco al basso e chitarra e Luca Martelli alla batteria.
Come ho detto, la scelta dei brani non ha un carattere propriamente archeologico: se certamente vengono recuperati vecchi pezzi di artisti famosi (De Gregori, Finardi) o meno (Frigidaire tango, Faust’O), Canali si cimenta al tempo stesso in cover di canzoni contemporanee di un certo successo (Lacrimogeni) o sconosciute ai più. Il disco è stato trainato dal potente singolo Tutto è così semplice di Macromeo, presentato con un simpatico video in stile retrò, in cui i Rossofuoco fluttuano con le immagini di un vecchio campionato mondiale di frisbee sullo sfondo. A.F.C. (Angelo Fausto Coppi) è una delle canzoni più “canaliane” del disco, che a tratti ricorda MP nella BG, altro brano sul ciclismo contenuto in Nostra Signora delle dinamite. E ancora, Canali ci ricorda quanto Faust’O sia un grande cantautore sottovalutato: Buon anno è infatti uno dei punti più alti del disco, di eterea e struggente bellezza. Anche quando reinterpreta colleghi più quotati, l’ex-CSI riesce a dare alle canzoni un’impronta inconfondibile, grazie a quel marchio di protesta (si ascolti F-104 di Finardi) e di ironico menefreghismo (Storie di ieri di De Gregori) che contraddistingue tutta la sua carriera solista. Degne di nota sono anche Canzone dada, dall’incedere sostenuto e dal testo surreale, e la splendida ballata Un giorno come tanti dei Mary in June. Lacrimogeni, invece, è ancora più dilatata e sofferta rispetto alla versione originaria de Le luci della centrale elettrica. Altro punto di forza è Mi vuoi bene o no? di Angela Baraldi, che Canali personalizza persino nel testo: è inconfondibilmente suo il verso «non mi piace aver paura / quando sento una sirena», al posto di «non mi piace aver paura / quando torno a casa sola / sento un brivido alla schiena / sento un nodo che si stringe in gola».
Salvo qualche episodio meno incisivo (Pesci e sedie, Richiamo), il disco scorre via piacevolmente per quasi un’ora, regalandoci un Canali inedito, forse meno incazzato e più riflessivo, il ritratto di un uomo che rivela se stesso prendendo in prestito le parole scritte da altri. Se già possedete la discografia completa dei Rossofuoco, questo disco è da avere come necessario completamento.
Giorgio Canali & Rossofuoco: foto promozionale per Perle per porci (2016)

8 settembre 2017

"America perduta" di Bill Bryson: sulla strada dei ricordi

Partire su una Chevrolet scassata per un lungo tour degli Stati Uniti, oltrepassando deserti, montagne e oziose cittadine, è un sogno che, più o meno consapevolmente, coltiviamo tutti. Sarà il retaggio di qualche libro (Kerouac su tutti), oppure il desiderio suscitato da qualche pellicola, fatto sta che intraprendere un viaggio on the road è un’idea che da sempre ispira curiosità e desiderio di evasione. Tra i tanti che hanno vissuto quest’esperienza, Bill Bryson è tra coloro i quali hanno deciso di raccontarla in un libro. Bryson è un giornalista americano, nato nel 1951 nello Iowa, nel cuore degli Stati Uniti, proprio al centro della più grande pianura del Paese. Dopo aver vissuto per vent’anni in Inghilterra ed aver viaggiato per tutta Europa, è tornato negli Usa, dove collabora con importanti quotidiani, quali il Washington Post e il New York Times.
Poco prima dei quarant’anni, Bryson ha deciso di intraprendere un viaggio in auto, attraversando praticamente tutti gli Stati Uniti, da Est ad Ovest, partendo dalla città natale di Des Moines. Non si è trattato del solito itinerario “da costa a costa”, ma di un tragitto a forma di otto, molto più lungo e faticoso, che ha lambito quasi tutti gli Stati. America perduta è il resoconto dell’appassionante esperienza, che ha rappresentato, prima di tutto, un percorso sull’onda dei ricordi. Il Paese perduto di cui parla Bryson è quello della sua infanzia, dei viaggi assieme ai genitori durante gli interminabili periodi di vacanza. Il cammino diventa così l’occasione per rievocare ricordi ancora vividi, oppure per constatare quanto i luoghi della fanciullezza siano cambiati negli anni.
L’autore descrive prevalentemente un’America minore, rurale, lontana dalle luci e dai fasti delle grandi metropoli. Leggendo il libro si ha modo di conoscere luoghi sperduti e dai nomi esotici, come Oskaloosa, Bolivar, Cairo, Monroe, Dearborne, Cedar City, solo per citarne alcuni. Eppure, i luoghi descritti da Bryson sono il cuore pulsante del Paese, l’America più vera e tradizionalista, legata a valori e riti immutabili. Al tempo stesso, sono i posti che meglio corrispondono all’immaginario collettivo costruito dalle pellicole cinematografiche, fatto di motel, stazioni di servizio nel deserto e infinite lingue di asfalto che si srotolano per chilometri nel nulla. Gli stessi scenari dei quadri di Hopper, per intenderci con una suggestiva similitudine.
Il libro, tuttavia, presenta almeno due punti deboli. Il primo è la monotonia del racconto, che fa gradualmente scemare l’attenzione del lettore. Le prime cento pagine sono entusiasmanti, pur nella semplicità del meccanismo narrativo: Bryson si limita a raccontare le sue giornate, fatte di lunghi tragitti in auto, visite alle cittadine disseminate lungo il percorso e soste notturne negli alberghi. Se inizialmente il racconto scorre via in scioltezza, alla lunga le situazioni finiscono per ripetersi, rendendo faticosa la prosecuzione. L’autore descrive accuratamente i luoghi visitati, ne racconta la storia e i tratti peculiari degli abitanti, come se si trattasse di un reportage. La reiterazione di tale meccanismo narrativo rende arduo concludere alcuni capitoli, che appaiono quasi una replica di altri. Il secondo punto debole è, a mio avviso, nello stile. Bryson è assai efficace quando adotta il piglio del reporter, ma fa spesso uso di un tono ironico forzato e poco incisivo, che scade talvolta in banali freddure.
Nel complesso si tratta comunque di un libro piacevole, da leggere in piccole dosi, magari un solo capitolo al giorno, per avere quasi l’impressione di viaggiare assieme all’autore sulle sterminate autostrade americane, all’inseguimento di un sogno, o forse di un ricordo d’infanzia.

25 agosto 2017

"La banda dei brocchi" di Jonathan Coe: amore e lotta di classe

Il pittore Oreste, personaggio del romanzo Una lunga rabbia di Carlo Castellaneta, afferma che nella vita contano soltanto due esperienze: l’amore e la lotta di classe. L’idealista Oreste si spinge persino oltre, fino a unificarle in un’unica cosa: amore e lotta di classe finiscono per diventare facce della stessa medaglia, le uniche ragioni per cui vale la pena vivere. Il primo perché trasforma e completa l’individuo, la seconda perché vorrebbe tramutare la società in una dimensione più giusta ed egualitaria. In un certo senso, sono questi i due poli de La banda dei brocchi di Jonathan Coe, edito per la prima volta nel 2001 e pubblicato in Italia da Feltrinelli. Si tratta di un romanzo corale, un fedele e dolceamaro ritratto del Regno Unito negli anni Settanta, epoca di grandi contraddizioni, di battaglie e ideali, di lotta di classe e amore, appunto.
I Settanta hanno rappresentato per il Regno Unito, come d’altronde per l’Italia, un difficile periodo di transizione. Erano gli anni degli scioperi selvaggi, della guerriglia nelle piazze, delle bombe dell’IRA, della debolezza dei governi laburisti e dei dissidi fra gli opposti nazionalismi. D’altro canto, però, si è trattato anche di un periodo assai fecondo per le arti, la letteratura e la musica. Coe evidenzia tutti questi aspetti e ricostruisce l’atmosfera dell’epoca, marcandone le contraddizioni con naturalezza e seguendo una prospettiva de-ideologizzata, il più possibile obiettiva.
Non a caso il romanzo è ambientato a Birmingham, città natale dello scrittore, ma soprattutto sede dello stabilimento di Longbridge della British Leyland, storico marchio inglese di automobili. La fabbrica è il vero cuore pulsante della città, dal punto di vista economico, lavorativo e persino identitario. Gli stessi personaggi del romanzo vi sono legati a filo doppio, perché tutti lavorano o hanno un congiunto impiegato nello stabilimento. Tuttavia, non può affermarsi che si tratti di un romanzo “operaio”: sebbene i personaggi abbiano una diversa estrazione sociale, Coe ha scelto di narrare la sua storia seguendo principalmente un punto di vista elitario, quello degli studenti di una scuola privata, il King William.
Come ho anticipato, si tratta di un romanzo corale, senza un vero e proprio protagonista. I personaggi principali sono quattro studenti del King William: Trotter, Anderton, Chase e Harding, alle prese con i problemi e le passioni di tutti i ragazzi della loro età. Sarebbe tuttavia riduttivo qualificarlo come un romanzo di formazione. Coe racconta il percorso scolastico dei quattro ragazzi, ma lo fa scandagliando nel contempo la vita delle loro famiglie, entrando nelle case e mettendo a nudo quanto queste nascondono in termini di violenza, chiusura mentale e tradimento, ma anche di sincero affetto, passione e calore umano.
La banda dei brocchi è un romanzo appassionante, anche se la complessità dell’intreccio, resa dal continuo succedersi dei narratori e intersecarsi dei punti di vista, rende talvolta macchinosa la trama. Il libro è assai interessante anche per un altro aspetto, perché racconta un Paese, il Regno Unito, che affrontava negli anni Settanta gli stessi problemi dell’Italia, pur con le dovute differenze: le lotte sindacali, il terrorismo, gli scontri di piazza, i governi deboli e una strisciante crisi economica. Leggerlo non può lasciare indifferenti, perché, in un certo senso, è come specchiarsi in uno stagno.

19 agosto 2017

"Le rovine in attesa": il booktrailer

Su YouTube è stata pubblicata una breve presentazione del mio romanzo Le rovine in attesa, nella forma del booktrailer. Il filmato è visibile CLICCANDO QUI.

6 agosto 2017

"I sotterranei" di Jack Kerouac: un linguaggio febbrile come il jazz

I sotterranei è un romanzo che va letto tutto d’un fiato, senza soffermarsi tanto sul senso delle parole, quanto piuttosto assaporandone la musicalità, la melodia che si sprigiona dalle pagine di un monologo denso e martellante. Non a caso è il manifesto della prosodia bop, la tecnica di scrittura che cerca di riproporre sulla carta l’ininterrotto flusso dei pensieri, lo stream of consciousness di joyciana memoria, al ritmo della musica jazz. Si tratta di una fondamentale evoluzione del percorso letterario di Kerouac, che soltanto otto anni prima aveva esordito con un romanzo dall’impianto e dal linguaggio tradizionali, La città e la metropoli.
Il titolo non si riferisce ad un luogo: era infatti chiamato “i sotterranei” un gruppo di giovani artisti, spesso di scarso o nessun talento, che vivevano febbrili esistenze promiscue, trascinandosi nella notte tra locali e abitazioni di una San Francisco vivida e frenetica. I loro idoli erano poeti e musicisti, droghe e alcool la loro benzina.
C’è tanto di autobiografico in questo romanzo: il protagonista, Leo Percepied, è lo stesso Kerouac, mentre la seducente Mardou è Alene Lee, che fu unita allo scrittore da una breve e tormentata relazione. Leo e Mardou si incontrano a casa di un amico comune e vivono una veloce ma intensa stagione d’amore prima di separarsi, apparentemente senza rimpianti. Il loro è un amore sconveniente per molte ragioni, prima fra tutte il diverso colore della pelle: Mardou è infatti nera, per giunta libera e anticonformista, in un’America ancora profondamente razzista. La storia si dipana in un macchinoso monologo, ma soprattutto è un arguto ritratto di quella gioventù beat di cui Kerouac è stato il capostipite. I personaggi del romanzo sono dunque la trasfigurazione di persone reali; ad esempio, Adam Moorad è Allen Ginsberg, mentre Gregory Corso si nasconde sotto i panni dell’infido Yuri Gligoric.
Come ho già detto, il libro è importante più per lo stile che per la trama. Henry Miller, che a sua volta fu un innovatore, ne riconobbe immediatamente l’importanza, affermando con un’acuta metafora che I sotterranei avevano avuto la capacità di violentare la lingua, al punto che la letteratura americana non sarebbe più stata in grado di riacquistare la verginità perduta. In Italia il romanzo ha avuto una vita editoriale tormentata, prima di affermarsi al pari di un classico: è stato sottoposto a processo per oscenità, ma il collegio giudicante non ha potuto che riconoscere la bellezza lirica del linguaggio, tale da elevarlo ad opera d’arte, anziché degradarlo a sceneggiato pornografico come reclamavano i detrattori.
Resta comunque un libro a tratti ostico, proprio per le caratteristiche della scrittura bop. Probabilmente andrebbe letto in lingua originale, per poterne apprezzare al meglio le sottili sfumature. Ritengo sia adatto soprattutto a chi ha già una conoscenza abbastanza approfondita dello scrittore statunitense; consiglio di acquistarlo dopo aver letto i più celebri Sulla strada, I vagabondi del dharma e Big Sur. Iniziare la conoscenza di Kerouac partendo da I sotterranei potrebbe infatti rivelarsi un pericoloso fraintendimento.

25 luglio 2017

"11": la maturità power pop degli Smithereens

«Tutte le volte in cui cercavo un album degli Smiths in un negozio di dischi, inevitabilmente me ne capitava tra le mani uno degli Smithereens, che scartavo senza appello». Così scriveva un commentatore su YouTube, biasimando la sua fretta giovanile e affermando che, col senno di poi, non li avrebbe scartati a colpo sicuro; anzi, li avrebbe di gran lunga preferiti agli Smiths. Al di là dell’evidente ironia, l’anonimo commentatore non ha avuto torto nell’affermare che gli Smithereens sono stati un valido gruppo. Certo, nulla a che vedere con i più quotati Smiths, che sono riusciti ad inventare un genere e uno stile. Eppure, nel ristretto recinto del power pop, anche agli Smithereens spetta un posto d’onore.
Sono uno dei gruppi minori della scena rock americana, ma ritengo sia erroneo definirli “sottovalutati”, come scrivono in molti sulla rete. Prima di imbattermi in 11, il loro quarto lavoro in studio, non sapevo chi fossero; poi ho scoperto che hanno avuto una discreta fama per tutto il corso degli anni Ottanta, specialmente negli Usa. Ancora oggi sono un gruppo di piccolo culto, che continua a girare in tour nella formazione originale, composta da Pat Di Nizio (voce e chitarra), Jim Babjak (chitarra), Dennis Diken (batteria) e Mike Mesaros (basso). Il Dizionario del pop-rock di Tonti e Gentile ricorda che gli Smithereens, «da cover band con un amore particolare per il beat inglese e il R’n’R classico americano», sono diventati uno dei principali gruppi di power pop, sfornando una serie impressionante di validi singoli, come Behind the wall of sleep, Blood and roses, Strangers when we meet, Lonely room, House we used to live in, Drown in my tears e altri. Da ricordare specialmente i primi tre album: l’EP di esordio Beauty and sadness (1983), Especially for you (1985) e Green thoughts (1988).
Il quarto LP (1989), intitolato semplicemente 11, è stato un punto di svolta nella loro carriera, perché ha segnato la fine della fase più felice, o meglio, l’inaridimento della vena creativa di Pat Di Nizio, leader indiscusso della band e autore di quasi tutti i testi e le musiche. Il quartetto si dimostra affiatato e quadrato, proponendo dieci canzoni di un power pop sanguigno, che a volte strizza l’occhio al rock americano più classico. É dunque un disco di transizione, perché segna una svolta nello stile, orientato sempre più verso una proposta marcatamente rock, sorretta dai riff della Rickenbacker di Babjak e dal basso potente e preciso di Mesaros.
Il lato A si apre con A girl like you, pimpante canzone d’amore a lungo in classifica negli Stati Uniti e in Canada. Segue la vera e propria gemma dell’album, l’intrigante ballata Blues before and after, con un egregio lavoro al basso e un ritornello destinato a rimanere a lungo in testa. Per comprendere quanto la band fosse quotata, si prenda in considerazione la terza traccia, la fluida Blue period, impreziosita addirittura dalla voce di Belinda Carlisle, all’epoca una celebrità. La facciata si chiude con altri due pezzi quadrati, Baby be good e A room without a view. Il secondo lato continua sulla falsariga del primo, con un altro azzeccato singolo, Yesterday girl, e proseguendo con uno dei pezzi migliori del disco, la decisa Cut flowers. Da ricordare William Wilson, omaggio ad un celebre racconto di Edgar Allan Poe, che tratta il tema del doppelgänger. Il disco si conclude con una lenta ballata pop decisamente radiofonica, Kiss your tears away.
11 non è un disco memorabile, ma è l’impronta di una band sempre coerente con se stessa. The Smithereens meritano il nostro rispetto per questa ragione: stanno portando avanti da più di trent’anni il discorso di un pop-rock sobrio, suonato bene, che rinuncia ai riff ruffiani in favore di una vena compositiva che si ispira ai Sixties, Beatles e Byrds su tutti. Anche se i testi non sono sempre all’altezza, Di Nizio li carica di drammaticità grazie alla sua intensa voce. 11 ha segnato anche il passaggio dalla Enigma ad una major, la Capitol; per questo dovrebbe essere di facile reperibilità anche nel Bel Paese, per giunta a prezzi abbordabili, dato che il vinile è stato stampato in concessione dalla Emi italiana. Ripeto che i primi tre lavori del gruppo americano sono certamente i migliori. 11, come tutti i dischi di transizione, vive di alti e bassi, ma porta comunque l’inconfondibile marchio di fabbrica di Pat Di Nizio e soci.
La band (Babjak, Mesaros, Di Nizio e Diken) e la copertina di "11"

13 luglio 2017

"L'amico ebreo" di Gian Piero Bona: un miracoloso salvataggio dall'Olocausto

Il titolo di Giusto tra le nazioni spetta ai non ebrei che, privi di interesse personale e a rischio della propria incolumità, abbiano salvato anche un solo ebreo dallo sterminio nazista; l’onorificenza trae origine dal versetto del Talmud secondo cui «chi salva una vita, salva il mondo intero». Lo scrittore e poeta Gian Piero Bona, superata la soglia dei novant’anni, ha deciso di raccontare una vicenda autobiografica e familiare rimasta fino ad oggi ignota. È così venuto alla luce il romanzo L’amico ebreo (Ponte alle grazie, 2016), con dedica al padre, uno fra i Giusti. L’autore spiega nelle prime pagine le ragioni che l’hanno indotto a raccontare questa toccante storia.
«Alcuni esemplari di quei nazisti intenti a eliminare nei loro lager sei milioni di ebrei e due milioni tra zingari, cristiani, intellettuali, malati, omosessuali, ho avuto modo di vederli per tre anni dentro e fuori della mia casa. Fu così che un piccolo episodio di questa tragedia umana, vissuto per caso nel luogo dove allora abitavo con la mia famiglia, è rimasto ancora oggi come un marchio a fuoco sfrigolante nella carne della mia anima.»
Tra il 1942 e il 1945, nell’antica magione dei Bona di Carignano, si è infatti consumata una vicenda che ha dell’incredibile. Sotto lo stesso tetto, per quasi quattro anni, hanno vissuto a stretto contatto il ragazzino ebreo Sergej Yonov e l’odioso Richtel, capitano delle SS. Sia il carnefice che la potenziale vittima erano ospiti della famiglia dello scrittore, in una forzata e pericolosa convivenza che solo per miracolo non si è tramutata in tragedia. Sergej, ebreo di origine russa, era compagno di scuola e di conservatorio di Gian Piero Bona; fu il padre di quest’ultimo a salvarlo dall’olocausto, conducendolo in casa propria e facendolo passare come un lontano parente grazie ad un’accurata messinscena. Negli stessi anni in cui Sergej era ospite dei Bona, nella grande casa si era stabilito anche l’ignaro capitano Richtel, secondo l’usanza per cui gli ufficiali nazisti, anziché vivere nelle caserme, trovavano forzosa ospitalità nelle case dei maggiorenti. Sergej e Gian Piero erano due ragazzi diversissimi: il primo ebreo, razionalista e logico, il secondo cristiano, inquieto e affascinato dall’esoterismo.
«Il destino mi aveva mandato il grande amico e ciò fu la scoperta del vero male e del vero bene intorno a noi, della luce e delle tenebre. […] Avevamo opinioni radicalmente opposte, dovute alla nostra diversa educazione; eppure, lui ebreo e io cristiano, eravamo diventati fratelli di viaggio.»
Lo stretto contatto con Richtel rafforza l’amicizia tra i due ragazzi, che di fatto diventano come un’unica persona; anzi, è proprio la minaccia della deportazione a renderli più uniti, rinsaldando un legame che va al di là della semplice amicizia. La quotidiana visione del nazista Richtel assume i caratteri di una pericolosa vicinanza alla morte, perché il tedesco incarna gli aspetti negativi dell’esistenza, è il simbolo del male e del cuore di tenebra. Ambiguo e proprio per questo temibile, Richtel è in egual misura capace di slanci di affettività e di orribili crimini.
Gian Piero Bona, da poeta di razza qual è, riesce a raccontare una vicenda toccante senza forzosi patetismi, ma al tempo stesso con una strenua vis polemica nei confronti degli occupanti nazisti. Il libro non è semplicemente la memoria di una irripetibile stagione di vita, ma anche un commosso ricordo della propria famiglia, unita dal vincolo del sangue e dalla necessità di difendere un segreto che non poteva essere rivelato.
L’amico ebreo è un emozionante romanzo di formazione, una formidabile lezione di resistenza e solidarietà, nonché una vivida testimonianza del valore della diversità. Viviamo in tempi difficili e c’è chi vorrebbe rimettere in discussione alcuni principi fondanti della nostra democrazia; leggere L’amico ebreo diventa così un doveroso atto di coraggio, per non dimenticare e rischiare di ricadere negli errori del passato.

28 giugno 2017

"Sono un mod al servizio del Modernismo": intervista a Oskar Giammarinaro

Da oltre trent’anni sulla breccia, gli Statuto rappresentano ormai un’istituzione. Tra i primi in Italia a suonare ska, tra i primi ad abbracciare la cultura mod, seguono con coerenza la stessa strada al motto di “rabbia & stile”. Nel 2016 hanno pubblicato l’ultimo disco di inediti, Amore di classe, mentre è di questi ultimi mesi la ristampa di Zighidà, in occasione dei venticinque anni dall’uscita dell’album. Oscar Giammarinaro (detto oSKAr) ne è il cantante, fondatore e indiscusso leader; è stato così gentile da rilasciarmi un’intervista, in prossimità del tour estivo. Colgo l’occasione per ringraziarlo di cuore per la disponibilità.

Domanda. All’inizio di ogni concerto precisate con orgoglio di essere “i mods di Piazza Statuto”. Cosa significa essere mod? E soprattutto, cosa significa esserlo oggi, nell’epoca del conformismo dominante?
Risposta. Essere mod è la nostra migliore soluzione per vivere in questo sistema che proprio non ci piace. Fuori dalla massificazione e dall’omologazione ma mai autoghettizzati, cerchiamo di trovare il meglio nelle espressioni ideologiche, estetiche e comportamentali prima di chiunque altro. Una continua ricerca, interiore ed esteriore che ci rende veramente liberi, mai di moda e sempre attuali.

D. Sono più di trent’anni che girate l’Italia in tour, per cui siete i perfetti testimoni dei cambiamenti che l’hanno trasformata. Com’è cambiato il Paese? C’è maggiore rassegnazione nei giovani, oppure la rabbia è sempre la stessa?
R. La crisi ha sicuramente reso l’Italia un paese “post” industriale, la differenza tra classi sociali si è decisamente allargata, l’immigrazione ha causato la speculazione di alcune forze politiche a servizio del capitalismo che ha fatto leva sul razzismo per innescare un’assurda “guerra tra poveri”. Nei giovani c’è rabbia, ma la società attuale, così fondata sui social di internet, li ha resi totalmente individualisti, privi di consapevolezza di appartenenza e del tutto rassegnati all’impossibilità di cambiare il sistema attuale.

D. Avete fatto della coerenza una bandiera, avete portato avanti sempre un discorso autonomo e controcorrente, riuscendo persino ad andare a Sanremo senza snaturarvi. Credi che questa coerenza, il vostro essere fedeli ad un credo, abbia avuto un ruolo decisivo nella stima che il pubblico tributa agli Statuto? Oppure pensi che vi abbia fatto raccogliere meno di quanto avreste meritato?
R. Essere coerenti non è per noi una “bandiera” e non siamo mai stati “controcorrente” a priori. Siamo mods, alcuni Mods di piazza Statuto che suonano e usiamo la musica per diffondere il più possibile il nostro stile, le nostre idee e la nostra cultura. Da sempre lo facciamo indipendentemente dal palco o dalla situazione in cui ci troviamo ad esibirci e rimanendo integri esteticamente e ideologicamente, siamo arrivati veramente ovunque. A livello di cifre e “successo” abbiamo raggiunto livelli inaspettati rispetto alle nostre origini; ciò che ci interessa da parte del pubblico è il rispetto.

D. La nostra è una società allergica alla riflessione, restia a prendersi il giusto tempo per meditare le cose, che preferisce il consumo immediato e spicciolo all’approfondimento. In questo contesto “usa e getta”, come si colloca la proposta musicale degli Statuto, decisamente impegnata? A quale pubblico è rivolta?
R. Non credo che la nostra proposta musicale sia “decisamente impegnata”, semplicemente raccontiamo ciò che viviamo in prima persona quotidianamente, veniamo dalla strada e viviamo sulla strada e siamo a stretto contatto con problematiche sociali come la disoccupazione, razzismo, necessità di migliore sanità e scuola pubblica. Ci rivolgiamo a tutti.

D. In occasione del venticinquennale, Zighidà è stato ripubblicato anche in vinile, così come l’ultimo album di inediti, Amore di classe. Nell’epoca che stiamo vivendo, quella della dematerializzazione, il disco come oggetto tangibile ha ancora un futuro, oppure dovremo rassegnarci alla fine del supporto?
R. C’è un netto ritorno all’interesse per il disco su vinile e credo che il futuro ci regalerà qualche bella sorpresa a proposito

D. Ti consideri un uomo di successo? Come lo gestisci?
R. Se per successo intendi essere a posto con me stesso, sicuramente sì. Ma se intendi popolarità, guadagno e tenore di vita da nababbo, è evidente che non è così. Non l’ho mai cercato e mai mi è interessato, credo di non avere il necessario talento artistico e neanche una disponibilità caratteriale adeguata. A me interessa far conoscere e crescere il Modernismo, in questo sono molto orgoglioso e gratificato.

D. Quali sono i dischi che ti hanno cambiato la vita? E fra gli italiani, quali sceglieresti?
R. One Step Beyond dei Madness, Glory Boys dei Secret Affair, Beat Boys in the Jet age dei Lambrettas, Specials degli Specials e Definitely Maybe degli Oasis. Tra gli italiani apprezzo molto i cantautori storici (Guccini, Dalla, De Gregori, Ron, Venditti, Battiato, Battisti) ai quali aggiungo i Gang, i 99Posse, Caparezza e Frankie Hi-NRG.

D. Oltre che musicista, sei anche uno scrittore. Qual è il tuo rapporto con la letteratura e quali sono gli autori che ami di più?
R. No, non sono affatto uno scrittore. Il libro Il Migliore dei Mondi Possibili è una serie di racconti di storie vere di noi Mods di piazza Statuto. L’unica mia “invenzione” è Amore di Classe, scritto per realizzarci il disco concept omonimo uscito nel 2016.

D. Amore di classe, il vostro ultimo disco di inediti, è appunto un concept album. Ho notato che molti gruppi e cantautori prima o poi si cimentano in questa operazione, spesso rischiosa. Come è nata la scelta di scrivere un concept?
R. Utilizzare una storia o un tema per avere le canzoni consequenziali può rendere più fluida la composizione. Noi attraverso la storia d’amore tra due adolescenti appartenenti a classi sociali ben diverse, siamo riusciti a far emergere tematiche sociali importanti.

D. Anche se è una domanda retorica, voglio fartela lo stesso. Cosa sceglieresti tra una tormentata libertà e una tranquilla schiavitù?
R. Vorrei conoscere qualcuno che esprime preferenze usando il termine “schiavitù”…

D. Se dovessi dare una definizione di te come artista, quale useresti?
R. Un mod al servizio del Modernismo, anche con la musica. 
La formazione attuale degli Statuto; il terzo da sinistra è Oskar.