21 febbraio 2017

La notte a cui non segue l'alba: "Unknown pleasures"

Impossibile dire qualcosa di originale o diverso su Unknown pleasures, considerato un caposaldo della storia del rock, nonché una delle opere che più sono state in grado di influenzare la produzione successiva. I Joy Division sono stati il necessario anello di congiunzione tra il punk e la new wave, spediti in prima linea ad esplorare quella che era ancora una terra di nessuno. Si può parlare di post-punk o di dark, ma ascoltare il disco significa prima di tutto calarsi nella mente e nelle ossessioni di Ian Curtis, scandagliare le pieghe di una notte del cuore che non vedrà mai l’alba. Se dunque è vero che ci troviamo di fronte ad un lavoro di squadra, esaltato da un’attenta e incisiva produzione, è altresì indubitabile che Curtis ne è il protagonista assoluto, con la sua voce distante e spettrale e un’interpretazione lucida e disarmante. Angoscia e male di vivere traspaiono da ognuna delle dieci tracce, che abbiano l’andamento funebre di Day of the lords o l’incedere nervoso di Disorder. Bernard Sumner alla chitarra, Peter Hook al basso e Stephen Morris alla batteria danno corpo a questi fantasmi.
Già dai primi solchi, una cappa plumbea e ipnotica cala sull’ascoltatore. Unknown pleasures traccia i canoni di un’estetica cupa, in divenire, che si carica di connotazioni introspettive grazie ad una costruzione dei pezzi tale da non potere essere slegata dall’interpretazione. L’unico vero cantore catacombale non può che essere Curtis; le canzoni sono la sincera espressione di uno spirito martoriato da un’angoscia che trovava la sua causa nel vivere e l’unica consolazione nell’attesa della fine.
Celebre l’immagine di copertina, curata dal grafico Peter Saville, che rappresenta le vibrazioni elettromagnetiche prodotte da una pulsar; nella sua alternanza ossessiva di bianco e nero introduce le atmosfere dell’album. Fondamentali le intuizioni del produttore Martin Hannett, che ha inciso profondamente sulle canzoni, trasformandole in pezzi più lenti, cadenzati e ossessivi; ed è stato proprio questo lavoro di produzione ad aver reso immortale il disco, operando una netta cesura rispetto a quanto era stato scritto e suonato fino a quel momento.
Le due facciate hanno i curiosi nomi di insideoutside, dentro e fuori le quattro mura in cui Curtis coltivava il suo dolore. Il disco si apre con l’inconfondibile ritmo di Disorder. Basso e chitarra si rincorrono sopra una base ritmica dettata da una batteria ovattata, quasi elettronica; è una canzone sulla perdita di senso e sull’incapacità di comunicare. Ian Curtis lo rivela subito nei primi versi, sta cercando una guida che lo prenda per mano e lo aiuti a provare le sensazioni di un uomo normale; ma questo non è possibile, perché «I've got the spirit, lose the feeling» (ho l’anima, ma ho perso il sentimento; sono vivo, ma ho perso la voglia di emozionarmi). Il lamento diventa funereo e strisciante nella successiva Day of the lords, dove una chitarra tagliente lacera lo spazio e regge le sorti di un mondo in sfacelo, su cui si staglia una voce che assume i toni del sermone. Ancora una volta sono l’incomunicabilità e la diversità le fonti del male di vivere: «There’s no room for the weak», canta amaramente. La facciata si chiude con due capolavori. Un basso possente e bordate di chitarra elettrica, che disegnano melodie ipnotiche, caratterizzano Insight, in cui persino i sogni alzano bandiera di resa. Spettacolari i versi iniziali: «Guess you dreams always end. / They don't rise up, just descend. / But I don't care anymore, / I've lost the will to want more. / I'm not afraid not at all, / I watch them all as they fall, / but I remember when we were young». Chiude la prima facciata un’altra traccia memorabile, quella New dawn fades in cui Curtis parla dei suoi tentativi di cambiare, destinati ad infrangersi perché, quando il nemico si annida nel proprio animo («It was me, waiting for me»), non è possibile sfuggire. Allora non resta che intraprendere l’unica strada possibile, sebbene tutti sconsiglino di farlo: «A loaded gun won’t set you free, so you say».
Il secondo lato si apre con She’s lost control, un classico del repertorio; ritmo serrato e senza respiro, per raccontare la dolorosa vicenda di un’amica di Ian, morta a seguito di una crisi epilettica. Anche il cantante ha paura di perdere il controllo e l’amara cantilena finisce per diventare un triste presagio. Altri due brani di forte impatto, che richiamano le origini punk del gruppo, sono Shadowplay e Interzone. La prima racconta l’impossibilità di trovare nell’amore una strada per affrontare il dolore del mondo. In Interzone, Curtis, quasi conscio della fine, dà sfogo a tutte le visioni della sua mente e conduce l’ascoltatore in un gorgo di visioni apocalittiche senza speranza. I remember nothing, della durata di sei minuti che si dilatano in una lenta agonia, chiude l’album. Ian è ingabbiato nel suo mondo ed è incapace di uscirne: «Me in my own world […] we were strangers», ammette con un celato rimpianto. Con questo pezzo, i Joy Division suggellano un capolavoro e rendono permanente quella notte del cuore che tutti abbiamo provato almeno una volta nel corso della nostra esistenza.
Unknown pleasures: un'icona senza tempo

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