28 marzo 2017

"La macchina di carne" di Gabriele Lorizio: la malattia della coscienza

Il famoso regista Lucio Fulci, interpellato a proposito dei suoi controversi film, amava definirsi un “terrorista dei generi”, per l’abilità di uscire dal tipo e disorientare lo spettatore. La calzante definizione mi è ritornata in mente leggendo il romanzo d’esordio di Gabriele Lorizio, che si avvale di archetipi tipici del giallo, del noir, del romanzo introspettivo e del racconto metafisico, sebbene non possa essere ricondotto in un genere circoscritto. Le pagine sono attraversate da una vena surreale che, pur deviando spesso verso l’ironia, dà al lettore un’inquietante sensazione di straniamento. Si potrebbe dire che ne La macchina di carne è adottato un meccanismo ciclico: da circostanze del quotidiano emergono eventi insoliti, che a loro volta vengono ricondotti nel più sicuro recinto della “normalità”, in cui, però, sono contenuti a forza.
Entro una cornice di stretta contemporaneità si muovono personaggi che portano addosso tutte le ferite della nostra società, col suo portato di precarietà, disaffezione, incapacità di comunicare. La Roma che racconta l’autore – ma potrebbe essere una qualsiasi spersonalizzante città contemporanea – è un microcosmo dai tratti surreali, in cui convivono punkabbestia che ascoltano i Pink Floyd, «strambi tipi occhialuti che dichiarano uno scacco matto al loro contendente immaginario», disillusi poliziotti già eroi civici e persino donne che ringiovaniscono al passaggio del tempo. In questo piccolo mondo, l’unica presenza vitale non può che essere India, facente parte della schiera degli «esseri inanimati che trascorrono la vita ad essere ammirati», ovvero i manichini. India sembra strappata a forza da un dipinto di Savinio, catapultata nella realtà dagli strati più reconditi dell’inconscio, a cui dovrebbe essere relegata.
Il primo ad essere avvinto dalla sua indefinita malia è Tempo, trentenne invischiato in una vita monotona e senza slanci. Bistrattato dal capo di giorno e tormentato dalla madre la sera, non enumera eventi degni di nota nella sua giornata tipo. Tempo è di fatto un inetto, categoria della letteratura novecentesca che si attaglia perfettamente al personaggio; la sua inettitudine si traduce nella totale passività di fronte agli eventi e alle persone, un penoso lasciarsi vivere in cui persino il portiere dello stabile diventa una figura autoritaria, pericolosa, giudicatrice. Il riscatto porta il curioso nome di India, lo «stupendo manichino di donna, con i capelli viola fino alle spalle […], un corpo di plastica tra il marrone chiaro e l’arancio, con la testa lievemente girata sul lato sinistro, le labbra rosse e gli occhi viola scuro, grandi come quelli di un’eroina di un manga giapponese». La fugace visione commuove Tempo, che scopre l’intimo legame che lo avvince alla figura (solo apparentemente) inanimata: entrambi sono schiavi, sottoposti a severi e implacabili padroni. «Erano simili loro due, entrambi ai margini del palcoscenico delle luci e delle insegne, entrambi spogli, entrambi distanti». Matura così in lui la scelta che cambierà definitivamente la sua esistenza: rapire India e portarla con sé. Il gesto balzano solo apparentemente possiede il valore di una liberazione dai lacci del conformismo, perché India diventa una padrona esigente, a cui Tempo sacrificherà interamente se stesso. Il romanzo è il canto dell’illusorietà della libertà umana; Tempo si libera dai vincoli della società per cadere in una schiavitù ancora peggiore, quella dell’ossessione e delle proiezioni della sua mente. Senza svelare troppo della trama, si può affermare che il rapimento del manichino segna il primo punto di svolta, la primigenia bomba che deflagra il genere. Da questo momento inizia una lunga scia di sangue, quella “macchina di carne” su cui si profilano gli altri incredibili protagonisti della storia: il depresso Danilo, il curioso Anchise, l’inquieta Irene e l’ammaliante Ines. La scelta del nome “India” per indicare l’ossessione amplifica ancora di più il senso di straniamento, dato che nell’immaginario collettivo l’India è associata ad un processo di liberazione fisica e spirituale. Non a caso qualche anno fa il compianto Claudio Rocchi cantava “Vado in India”, fuggendo dalle costrizioni della società occidentale dei consumi. Ma forse la scelta è solo apparentemente provocatoria, dato che anche l’India del romanzo contribuisce alla piena realizzazione dell’essere Tempo, sia pure in un senso perverso e imprevedibile.
Il romanzo poi affronta un vero e proprio topos della letteratura, dal Romanticismo fino alla fantascienza del secondo Dopoguerra: la fascinazione del manichino, dell’automa, della figura antropomorfa. Magistrale in tal senso il racconto L’uomo della sabbia di Hoffmann, vero e proprio punto di riferimento del genere. Esiste tuttavia una profonda differenza tra il racconto dell’autore tedesco e il romanzo di Lorizio: mentre nel primo la follia del protagonista è provocata dal disvelamento e dalla mancata accettazione della verità, ne La macchina di carne la verità non si rivela, al punto che il piano della coscienza e quello dell’incoscienza non possono separarsi. India è forse animata da una forza maledetta? È dotata di vita propria, oppure è lo specchio della malvagità di chi la possiede? Riesce ad esternare un vizio dell’animo che altrimenti resterebbe confinato nei recessi della psiche di Tempo? Sono domande che non possono avere una risposta. Il punto nevralgico del romanzo sta nel rappresentare una figura antropomorfa che non è dotata di sentimenti umani, non ha un’esistenza ulteriore a parte quella puramente meccanica; eppure possiede la capacità, ancora più inquietante, di liberare pulsioni che dovrebbero rimanere sopite. India è dunque uno stupendo ossimoro, «un’anima di carne», la malattia che «ha un volto perfetto e un corpo da sogno», come cantava Miro Sassolini nei primi Diaframma. Ancora una volta Lorizio duplica la prospettiva: Tempo libera India dall’involucro che la teneva prigioniera, India libera le forze creative (artistiche) e distruttive (omicide) che dimorano in Tempo; Tempo libera India dalla schiavitù dell’essere esposta al pubblico giudizio, India consente a Tempo di essere esposto al pubblico compiacimento.
Ci sarebbe ancora da parlare di tante cose, degli altri personaggi che costellano il romanzo, di una ricerca privata che si intreccia con un’indagine pubblica, ma non vorrei rivelare troppo. Tra citazioni dei CCCP ed echi alla Pinketts, la scrittura procede a ritmo serrato, nervosa, dai tratti postmoderni. Lorizio sa scrivere; preme sottolineare questo aspetto, in un mercato editoriale sempre più abulico, attento solamente all’intreccio, a tutto detrimento della buona scrittura. Ma forse il punto di forza del romanzo va ricercato nel meccanismo narrativo. L’autore si diverte a lanciare sulle pagine una serie di vicende e personaggi apparentemente distanti, che solo nel finale si incastreranno a perfezione, quale pezzi di un puzzle di complessa risoluzione.
Eppure, quando tutto sembra comporsi, l’autore, da buon terrorista dei generi, lancia la bomba finale: la suadente voce del manichino (o sarebbe meglio dire, demone?) India, destinata ad echeggiare a lungo nella mente del lettore.

15 marzo 2017

"Le rovine in attesa: la solitudine dell'antico maniero". La recensione di Gabriele Lorizio

Ricevo e pubblico molto volentieri una recensione del mio romanzo a cura dell’amico e scrittore Gabriele Lorizio. Nel ringraziarlo pubblicamente per i tanti e interessanti spunti letterari e cinematografici, lascio a lui la parola.

LA SOLITUDINE DELL'ANTICO MANIERO
A cura di Gabriele Lorizio
È un’opera fuori dal tempo, questo romanzo dal titolo che sa di un passato intriso di epicità. Come un antico rudere, scalfito dalla mano irriguardosa dei secoli, tuttavia in piedi, isolato, ricoperto da un’incolta vegetazione che tutto divora e nasconde, ma non spazza via, preservando in tal modo la propria sorte dal passaggio devastante della massa. Solo a leggerne distrattamente il titolo verrebbe da pensare che si tratti di un vecchio manoscritto seppellito da cumuli di polvere, magari  scovato per caso nella soffitta del casolare di campagna dei nonni, uno di quei libri della prima metà del Novecento che si credeva andato perduto. Ed anche il nome dell’autore, Alfonso, reca in sé qualcosa di remoto ed autorevole, rispetto ai vari Nicolas e Thomas, internazionali appellativi di cui il panorama italiano dei nomi di questi informi anni Duemila si va costellando e stravolgendo. Eppure non si tratta di un risalente volume della cantina dei nostri avi, nonostante gli indizi lo lascino presagire. Le rovine in attesa è un romanzo del 2015, fatica letteraria di un giovane avvocato poco più che trentenne ben inserito nelle alienanti e frenetiche dinamiche della vita moderna. Un libro che si discosta dalla più recente produzione della narrativa del XXI secolo, un’opera decisa a rivendicare una nicchia temporale novecentesca in questa era scarna di idee e di contenuti, in cui si predilige ricorrere ad espressioni povere e stilizzate a tutto detrimento della ricchezza della lingua italiana, martoriata dalle semplificazioni verbali ad uso e consumo degli internet addicted people (ecco che indulgo nell’utilizzo di anglicismi rubati al gergo dello homo mechanicus!). Riecheggiano nel romanzo del Cernelli - senza voler esprimere paragoni eccessivamente impegnativi per l’autore - le atmosfere delle opere di alcuni esponenti meridionali della letteratura del secolo passato, quali Vitaliano Brancati, Elio Vittorini, Ignazio Silone (ascrivibile quest’ultimo al novero degli scrittori del versante sud italico più per il retaggio socio-culturale che per la collocazione geografica), tanto per citarne alcuni. Innanzitutto, si può ravvisare una somiglianza con la narrativa appena descritta già nel tema trattato: la questione del Mezzogiorno. Non è un segreto, infatti, che il Cernelli, benché cresciuto a Roma e tutt’ora abitante ed operativo nella capitale, abbia un profondo legame con la sua terra d’origine, il Cilento, dove ritorna ogni qual volta gli è possibile per purificarsi dall’aggressiva e violenta esistenza urbana e andare ad immergersi nei più miti e pacifici tempi dell’anima paesani.
La vicenda prende avvio in una biblioteca di teologia, dove il giovane giurista spiantato e demoralizzato, Erminio Narri, svolge la funzione di inserviente sotto lo sguardo austero e sprezzante di un dispotico direttore. Erminio detesta trascorrere le giornate tra gli scaffali colmi di opere a tema religioso, materia che non lo interessa minimamente. La sua vera passione, infatti, è il diritto, disciplina che non si stancherebbe mai di studiare. All’immobilismo in cui staziona la sua vita sembrerebbe dare uno scossone l’arrivo di una lettera, una preziosa e misteriosa missiva che potrebbe cambiare radicalmente l’esistenza del Narri. Il pezzo di carta su cui sono vergate le parole che mandano in fibrillazione Erminio, è trattato come un feticcio dall’aspirante giurista. Non fa altro che soppesare la lettera, sfiorarne la consistenza con i polpastrelli, elettrizzato al solo contatto. Licenziatosi dall’impiego in biblioteca, decide di salutare l’amico di sempre, Duilio Sollani, e di partire per l’ignota località in cui è atteso dal mittente della missiva. Un luogo imprecisato, distante una decina di ore di treno in direzione sud dalla città di provincia che Erminio si risolve ad abbandonare “… aveva scelto il treno delle nove di sera. Sarebbe arrivato la mattina successiva alle sette …”. Da queste parche e volutamente generiche indicazioni, sembrerebbe desumersi che il centro urbano in cui la storia ha origine sia situato presumibilmente al centro-nord della penisola, considerati i tempi di spostamento che l’autore descrive. Tutte supposizioni che non trovano alcuna conferma in quanto il Cernelli preferisce non fornire alcun dettaglio che possa agevolare il lettore nell’individuazione di una particolare cittadina. Nel corso del viaggio viene svelato finalmente il contenuto della lettera: si apprende che un certo Marchese Alberico Priviano, venuto a conoscenza della grande competenza di giurista del Narri, sia intenzionato ad offrire al giovane un prestigioso incarico “… per sbrigare alcuni affari segreti e di somma importanza …”. Giunto a destinazione, in un villaggio di sparute anime dimenticate da Dio, Erminio si trova al cospetto del palazzo del Marchese. Da quell’istante il giurista sarà catapultato in un’altra dimensione, dove i bistrattati disvalori della vita cittadina – l’isolamento, l’asprezza del territorio, l’assenza delle comodità – assurgeranno a valori, pregiato ed inestimabile tesoro. Iniziato ai segreti affari dal nobiluomo, Erminio lavorerà alacremente ad un progetto tanto assurdo quanto ambizioso, la cui realizzazione, ove avvenisse, consentirebbe ai due “… uomini del nostro rango …” di incidere i loro nomi nelle pagine della Storia.
Senza voler anticipare altro al lettore – troppo già è stato svelato – che lo privi del piacere di scoprire da sé il prosieguo della vicenda, l’opera in esame offre degli interessanti spunti di riflessione, dialogando con alcune pietre miliari del patrimonio culturale nostrano. Al di là delle intenzioni dello scrittore cilentano (affiora la famosa domanda: che cosa avrà voluto dire l’autore con questo libro?), sembra quasi che Le rovine in attesa rappresentino l’altra faccia della medaglia de Il Gattopardo, ponendosi in profonda antitesi con l’opera di Tomasi di Lampedusa.
La lotta del Marchese Alberico Priviano all’atavica inerzia de Il Gattopardo.
“Se vogliamo che rimanga tutto come è, bisogna che tutto cambi”. La famosa frase pronunciata dal Principe Fabrizio Salina nel celebre romanzo di Tomasi di Lampedusa rappresenta simbolicamente lo spirito dell’aristocrazia sicula nei confronti di ogni cambiamento sociale in cui l’isola si è imbattuta nel corso della storia. Fin dai tempi degli invasori greci, passando per gli arabi e i normanni, il popolo siciliano si è adattato ai dominatori senza modificare l’essenzialità del proprio carattere e delle proprie attitudini. Anche il mutamento apportato dal Risorgimento e dall’Unità d’Italia viene definito da Tomasi di Lampedusa– per bocca del Principe Salina – come l’ennesimo cambiamento vuoto di contenuti, un mero involucro di un atteggiamento stanco ed inerte, privo di iniziativa che contraddistingue la sicilianità orgogliosa e irremovibile. Secondo l’amara analisi di Tomasi di Lampedusa sembra non esserci spazio per un cambio di rotta, per un sovvertimento del nuovo ordine imposto dall’invasore della casata Savoia: la vecchia classe dirigente siciliana, tutta protesa a sopravvivere agli eventi che si abbattono sull’isola, non fa altro che asservirsi ai garibaldini e ai piemontesi, certa che sia questo l’unico modo per sperare che tutto resti come prima. La nobiltà del meridione che emerge da Il Gattopardo è una classe inerme, pigra e calcolatrice, senza alcun interesse per le questioni idealistiche che più appartengono ad una visione romantica della vita. Diversamente, agli antipodi, si pone la prospettiva del Marchese Priviano. Eroe romantico, idealista e sognatore, il nobiluomo non si è mai arreso alla decadenza del suo Mezzogiorno. “… Dopo il 1861, invece, è stata attuata una consapevole politica di depauperamento del Sud in favore del Nord, che ha determinato il divario attuale. Intere aree sono state spogliate, le industrie cancellate, i contadini illusi col miraggio della redistribuzione delle terre, che non è mai avvenuta. E soprattutto, gli illuminati conquistatori si sono alleati proprio con la parte più retriva della società meridionale, quella che ha visto confermati, anzi rafforzati, i suoi immutabili e vergognosi privilegi …”. Il Marchese dialoga con il Gattopardo ponendosi in contrasto con la posizione dell’aristocratico siciliano. Nel suo visionario ed ambizioso progetto, vagheggia una rivoluzione che conduca ad un Risorgimento inverso, una rinascita del Sud che è prima di tutto un ridestarsi culturale, mediante l’instaurazione di un ordine razionale, il “… regno del dover essere …”, in una parola, il diritto.
L’altra pietra miliare, non letteraria, ma cinematografica che il romanzo evoca attraverso uno dei suoi personaggi minori più riusciti, è Il marchese del Grillo.
Fra Ruggero come Fra Bastiano de Il marchese del Grillo
Tra i personaggi secondari dell’opera spicca la figura di Fra Ruggero, definito dal Marchese Priviano, suo fedele amico, come “… un personaggio particolare. Più che un sant’uomo è un buon diavolo, non si può pretendere troppo da lui …”. Il fraticello dai tratti briganteschi (si aggira ramingo, armato di tutto punto per i terreni più impervi del Marchese, usando un linguaggio e dei modi che si addicono più ad un bandito che ad un religioso) ricorda molto il Fra Bastiano della celebre pellicola di Mario Monicelli, Il marchese del Grillo. Chi non rammenta la famosa scena in cui, tra le rovine di Monterano, il frate brigante don Bastiano, dal pesante accento pugliese, lascia circolare, nelle campagne da lui dominate a suon di schioppettate, il marchese del Grillo (magistralmente interpretato da Alberto Sordi) il quale, sebbene in compagnia di un francese, invasore inviso al frate con la lupara, riesce ad evitare di essere bucherellato giustificandosi così? “… No, Bastiano … per me lui è un uomo, non francese … io so’ amico dell’omo, no der francese!!” Anche il primo accidentale incontro tra Erminio e Fra Ruggero, infatti, è contraddistinto dalla rudezza e dalle armi: “… Per la miseria, se non fossi frate dovrei confessarmi per questo! Ma dato che sono un umile servo di Dio, mi assolvo da solo. Segnati pure tu, che sei vivo per miracolo. Ho sparato anche per meno, pure a persone più innocenti di te!” Autoassoluzione che tanto evoca – seppur con i dovuti distinguo per l’insolenza grottescamente blasfema del linguaggio di don Bastiano – il tonante discorso del cinematografico frate pugliese prima di essere ghigliottinato. “… E voi, massa di pecoroni invigliacchiti, sempre pronti a inginocchiarvi, a chinare la testa davanti ai potenti! Adesso inginocchiatevi, e chinate la testa davanti a uno che la testa non l'ha chinata mai, se non davanti a questo strummolo qua! Inginocchiatevi, forza! E fatevi il segno della croce! E ricordatevi che pure Nostro Signore Gesù Cristo è morto da infame, sul patibolo, che è diventato poi il simbolo della redenzione! Inginocchiatevi, tutti quanti! E segnatevi, avanti! E adesso pure io posso perdonare a chi mi ha fatto male. In primis, al Papa, che si crede il padrone del Cielo. In secundis, a Napulione, che si crede il padrone della Terra. E per ultimo al boia, qua, che si crede il padrone della Morte. Ma soprattutto, posso perdonare a voi, figli miei, che non siete padroni di un cazzo! E adesso, boia, mandami pure all'altro mondo, da quel Dio Onnipotente, Lui sì padrone del Cielo e della Terra, al quale – al posto dell'altra guancia – io porgo... tutta la capoccia!”. Chissà che il Cernelli non abbia voluto omaggiare il film, ormai diventato un cult, tratteggiando lo sgangherato fra Ruggero e strizzando così l’occhio al leggendario don Bastiano.
L’opera del Cernelli si caratterizza per la cura di ogni particolare; minuziose appaiono le rappresentazioni dei luoghi, approfondite le descrizioni degli stati d’animo dei personaggi. Ma questo è evidente ed il lettore potrà bearsene semplicemente perdendosi nelle pagine dedicate ai paesaggi e all’introspezione, appunto. Nulla invece, come già anticipato in precedenza, viene riferito suoi nomi dei luoghi, che resteranno ignoti per tutta la narrazione. Gli unici nomi menzionati sono quelli dei personaggi.
I nomi
Nella maggior parte dei casi i nomi scelti dall’autore per i suoi personaggi appaiono desueti, talvolta ricercati e ridondanti. Erminio, Duilio, Federigo, Alberico. Senza aver la pretesa di passarli tutti in rassegna, è curioso rilevare che il nome del Marchese, Alberico, provenga paradossalmente dalla tradizione nordica assumendo ora il significato di signore, re degli elfi (secondo la variante germanica) o di stregone dei nani (secondo la variante norrena). Nome che calza a pennello con il nobiluomo, il quale sebbene non di origini settentrionali, si comporta come il signore di creature misteriose, silenziose ed invisibili.
L’assenza di un rapporto con la tecnologia: l’incommensurabile valore di una lettera
In ultimo non potrà sfuggire che il romanzo è privo di alcun riferimento alle moderne tecnologie: non si parla mai di telefoni cellulari, di internet o di qualsiasi altro supporto elettronico possa essere riconducibile alla contemporaneità. Si potrebbe semplicemente sostenere che la vicenda sia ambientata in un’epoca anteriore alla diffusione delle tecnologie di massa, magari nell’immediato dopoguerra, tutt’al più negli anni Sessanta. Forse è così. Sarebbe la soluzione più logica. Eppure a me piace credere che l’autore abbia voluto astenersi dall’introdurre elementi tecnologici non per conferire una particolare connotazione storica degli eventi narrati, ma, piuttosto perché abbia ritenuto il monstrum telematico come un enorme oggetto spersonalizzante, sprovvisto del “giusto” grado di poeticità e lirismo da cui l’opera è avvolta. Un ipotetico presente privo del retrogusto informatico che oggi pervade il mondo. Cosa ne sarebbe scaturito se l’autore, invece di prendere le mosse dalla misteriosa lettera attorno alla quale ruota tutta la storia, avesse sostituito alla missiva un carteggio elettronico, un contatto via social network?Probabilmente il romanzo avrebbe preso tutt’altra piega, o forse, non sarebbe mai nato. Quest’opera, edita nel futuristico 2015 (non a caso anno in cui fu ambientato il secondo capitolo della saga di Ritorno al Futuro), ha tra i tanti, un particolare pregio: quello di essere scritto da un giovane uomo del XXI secolo che non teme di sporcarsi con il calamaio e l’inchiostro, perché consapevole di quanto fascino possa celarsi dietro una cara vecchia lettera affrancata.

5 marzo 2017

La strada per la redenzione: il "Live 1974" del Biglietto per l'Inferno

Ho un rapporto controverso con i dischi dal vivo; dopo averne acquistati un buon numero (compresi titoli improbabili, come un live degli Sham69), col tempo ho quasi finito per non comprarne più. Le ragioni di questa scelta vanno rintracciate nella qualità non sempre eccelsa del suono e nella preferenza per i dischi di studio, che presentano una struttura più coerente e unitaria.
Il Live 1974 del Biglietto per l’inferno, pubblicato dalla benemerita Btf, è però uno di quei titoli irrinunciabili, da possedere senza indugi. Lo acquistai perché attratto dal luciferino nome del gruppo e dal memorabile ed evocativo scatto di copertina. Le note del libretto tracciano le coordinate essenziali: «registrato dal vivo a Lecco il 9 maggio del 1974 durante il tour con gli UFO, probabilmente con un registratore a nastro e poi copiato su audiocassetta». Una registrazione amatoriale, a tratti imperfetta e proprio per questo ricca di seduzione. Il buon lavoro di editing, fatto a distanza di trent’anni dal concerto, ha migliorato l’ascolto mantenendo inalterati il fascino e l’atmosfera.     
Il gruppo propone dal vivo il primo album per intero, oltre ad una versione strumentale de Il tempo della semina. La formazione è quella classica: Claudio Canali (voce, flauto e flicorno baritono), Fausto Branchini (basso), Mauro Gnecchi (batteria), Marco Mainetti (chitarra elettrica), Giuseppe “Baffo” Banfi (Mini-Moog e Gem organ) e Giuseppe “Pilly” Cossa (organo Hammond e piano). Il prog proposto dal Biglietto è assai articolato e non è facile inscatolarlo entro correnti definite: il suono spazia dalle aperture sinfoniche di alcune formazioni nostrane alle cavalcate hard-rock di certi gruppi albionici, come gli Uriah Heep. Senza voler fare sterili confronti, si può certamente affermare che il Biglietto ha rappresentato un episodio isolato nel panorama nazionale del prog, grazie ad un’impronta marcatamente “dura” ma impreziosita dall’uso non intrusivo di fiati e tastiere, e alla scrittura di testi coraggiosi, eretici, senza compromessi. Un altro elemento centrale nella loro proposta era il carisma del cantante, quel Claudio Canali che ha trovato una risposta alle domande della vita soltanto nel silenzio di un eremo. Credo che Canali, per voce e presenza scenica, si collochi al terzo posto di un immaginario podio di vocalist prog italiani, subito dopo Demetrio Stratos e Francesco Di Giacomo.
Rispetto al lavoro in studio, il live presenta un suono più cupo e corposo, dimostrando al meglio lo straordinario affiatamento della band. Claudio Canali sfoggia una vera grinta da animale da palco, giganteggiando tra urla e sussurri, preghiere e imprecazioni (si ascolti la sanguigna versione de Una strana regina), il tutto condito da lunghi interventi di flauto e flicorno. La sezione ritmica e la chitarra fanno egregiamente il loro dovere, ma il pezzo forte sono i formidabili intrecci dei due tastieristi.
Apre Il tempo della semina, in una versione solo strumentale e più breve di quella che apparirà nel secondo album, pubblicato dopo lo scioglimento del gruppo. Le altre tracce appartengono tutte al primo omonimo lavoro, a partire dall’iniziale Ansia, in cui moog e chitarra fraseggiano, disegnando atmosfere ipnotiche. La successiva Confessione è il brano più celebre del Biglietto, dai toni decisamente hard, grazie ad una chitarra sopra le righe. Forte la polemica contro la Chiesa e l’ipocrisia del potere, con un testo tra i meglio riusciti del nostro rock: «Ascoltami frate, non so se ho peccato, / ho ucciso un bastardo che avrebbe voluto / coprire coi soldi il suo sporco passato, / cercando così di beffare il suo fato». Le successive Una strana regina e Il nevare alzano ancora il livello. La prima è costruita sopra un’alternanza di momenti hard, sostenuti dalla chitarra, e fasi più dilatate grazie alle tastiere in evidenza. Il nevare è un pezzo di pura poesia rock, con immagini lugubri e diafane che si sciolgono nel finale da brividi. L’amico suicida conclude il concerto: quattordici minuti che non conoscono neppure un istante di stasi. Tiratissima dall’inizio alla fine, la coraggiosa canzone affronta senza patetismi il tema del suicidio.
Il Live 1974 del Biglietto per l’inferno è un documento prezioso, fortunatamente riemerso dalle nebbie del passato. Perdere il nastro sarebbe stato un sacrilegio: se il disco in studio lascia intuire le potenzialità del gruppo, ascoltare il concerto rende davvero l’idea di cosa fossero capaci di fare Canali & soci. Il Biglietto era un gruppo potente, forse più ancora del Rovescio della medaglia, ma soprattutto ispirato e originale. Le canzoni, pur entro una cornice prog, non hanno il sapore stantio di certi lavori del periodo, ma possiedono una straordinaria contemporaneità. Parlano del marcio del mondo, della corruzione del potere e degli animi, di depressione e suicidio, del male di vivere allietato dalla «gioia pura di un semplice nevare». E forse era nei live che questi fantasmi prendevano al meglio forma e sostanza. Ascoltare per credere.