28 giugno 2017

"Sono un mod al servizio del Modernismo": intervista a Oskar Giammarinaro

Da oltre trent’anni sulla breccia, gli Statuto rappresentano ormai un’istituzione. Tra i primi in Italia a suonare ska, tra i primi ad abbracciare la cultura mod, seguono con coerenza la stessa strada al motto di “rabbia & stile”. Nel 2016 hanno pubblicato l’ultimo disco di inediti, Amore di classe, mentre è di questi ultimi mesi la ristampa di Zighidà, in occasione dei venticinque anni dall’uscita dell’album. Oscar Giammarinaro (detto oSKAr) ne è il cantante, fondatore e indiscusso leader; è stato così gentile da rilasciarmi un’intervista, in prossimità del tour estivo. Colgo l’occasione per ringraziarlo di cuore per la disponibilità.

Domanda. All’inizio di ogni concerto precisate con orgoglio di essere “i mods di Piazza Statuto”. Cosa significa essere mod? E soprattutto, cosa significa esserlo oggi, nell’epoca del conformismo dominante?
Risposta. Essere mod è la nostra migliore soluzione per vivere in questo sistema che proprio non ci piace. Fuori dalla massificazione e dall’omologazione ma mai autoghettizzati, cerchiamo di trovare il meglio nelle espressioni ideologiche, estetiche e comportamentali prima di chiunque altro. Una continua ricerca, interiore ed esteriore che ci rende veramente liberi, mai di moda e sempre attuali.

D. Sono più di trent’anni che girate l’Italia in tour, per cui siete i perfetti testimoni dei cambiamenti che l’hanno trasformata. Com’è cambiato il Paese? C’è maggiore rassegnazione nei giovani, oppure la rabbia è sempre la stessa?
R. La crisi ha sicuramente reso l’Italia un paese “post” industriale, la differenza tra classi sociali si è decisamente allargata, l’immigrazione ha causato la speculazione di alcune forze politiche a servizio del capitalismo che ha fatto leva sul razzismo per innescare un’assurda “guerra tra poveri”. Nei giovani c’è rabbia, ma la società attuale, così fondata sui social di internet, li ha resi totalmente individualisti, privi di consapevolezza di appartenenza e del tutto rassegnati all’impossibilità di cambiare il sistema attuale.

D. Avete fatto della coerenza una bandiera, avete portato avanti sempre un discorso autonomo e controcorrente, riuscendo persino ad andare a Sanremo senza snaturarvi. Credi che questa coerenza, il vostro essere fedeli ad un credo, abbia avuto un ruolo decisivo nella stima che il pubblico tributa agli Statuto? Oppure pensi che vi abbia fatto raccogliere meno di quanto avreste meritato?
R. Essere coerenti non è per noi una “bandiera” e non siamo mai stati “controcorrente” a priori. Siamo mods, alcuni Mods di piazza Statuto che suonano e usiamo la musica per diffondere il più possibile il nostro stile, le nostre idee e la nostra cultura. Da sempre lo facciamo indipendentemente dal palco o dalla situazione in cui ci troviamo ad esibirci e rimanendo integri esteticamente e ideologicamente, siamo arrivati veramente ovunque. A livello di cifre e “successo” abbiamo raggiunto livelli inaspettati rispetto alle nostre origini; ciò che ci interessa da parte del pubblico è il rispetto.

D. La nostra è una società allergica alla riflessione, restia a prendersi il giusto tempo per meditare le cose, che preferisce il consumo immediato e spicciolo all’approfondimento. In questo contesto “usa e getta”, come si colloca la proposta musicale degli Statuto, decisamente impegnata? A quale pubblico è rivolta?
R. Non credo che la nostra proposta musicale sia “decisamente impegnata”, semplicemente raccontiamo ciò che viviamo in prima persona quotidianamente, veniamo dalla strada e viviamo sulla strada e siamo a stretto contatto con problematiche sociali come la disoccupazione, razzismo, necessità di migliore sanità e scuola pubblica. Ci rivolgiamo a tutti.

D. In occasione del venticinquennale, Zighidà è stato ripubblicato anche in vinile, così come l’ultimo album di inediti, Amore di classe. Nell’epoca che stiamo vivendo, quella della dematerializzazione, il disco come oggetto tangibile ha ancora un futuro, oppure dovremo rassegnarci alla fine del supporto?
R. C’è un netto ritorno all’interesse per il disco su vinile e credo che il futuro ci regalerà qualche bella sorpresa a proposito

D. Ti consideri un uomo di successo? Come lo gestisci?
R. Se per successo intendi essere a posto con me stesso, sicuramente sì. Ma se intendi popolarità, guadagno e tenore di vita da nababbo, è evidente che non è così. Non l’ho mai cercato e mai mi è interessato, credo di non avere il necessario talento artistico e neanche una disponibilità caratteriale adeguata. A me interessa far conoscere e crescere il Modernismo, in questo sono molto orgoglioso e gratificato.

D. Quali sono i dischi che ti hanno cambiato la vita? E fra gli italiani, quali sceglieresti?
R. One Step Beyond dei Madness, Glory Boys dei Secret Affair, Beat Boys in the Jet age dei Lambrettas, Specials degli Specials e Definitely Maybe degli Oasis. Tra gli italiani apprezzo molto i cantautori storici (Guccini, Dalla, De Gregori, Ron, Venditti, Battiato, Battisti) ai quali aggiungo i Gang, i 99Posse, Caparezza e Frankie Hi-NRG.

D. Oltre che musicista, sei anche uno scrittore. Qual è il tuo rapporto con la letteratura e quali sono gli autori che ami di più?
R. No, non sono affatto uno scrittore. Il libro Il Migliore dei Mondi Possibili è una serie di racconti di storie vere di noi Mods di piazza Statuto. L’unica mia “invenzione” è Amore di Classe, scritto per realizzarci il disco concept omonimo uscito nel 2016.

D. Amore di classe, il vostro ultimo disco di inediti, è appunto un concept album. Ho notato che molti gruppi e cantautori prima o poi si cimentano in questa operazione, spesso rischiosa. Come è nata la scelta di scrivere un concept?
R. Utilizzare una storia o un tema per avere le canzoni consequenziali può rendere più fluida la composizione. Noi attraverso la storia d’amore tra due adolescenti appartenenti a classi sociali ben diverse, siamo riusciti a far emergere tematiche sociali importanti.

D. Anche se è una domanda retorica, voglio fartela lo stesso. Cosa sceglieresti tra una tormentata libertà e una tranquilla schiavitù?
R. Vorrei conoscere qualcuno che esprime preferenze usando il termine “schiavitù”…

D. Se dovessi dare una definizione di te come artista, quale useresti?
R. Un mod al servizio del Modernismo, anche con la musica. 
La formazione attuale degli Statuto; il terzo da sinistra è Oskar.

23 giugno 2017

"Psychocandy": in avanscoperta su terre inesplorate

C’è una bella maglietta che vendono sulla rete, che riproduce semplicemente la scritta “Reid, Reid, Hart & Gillespie”, formazione storica dei primi Jesus and Mary Chain, quelli che esordirono su LP nel 1985 con Psychocandy. I fratelli Jim e William Reid alle chitarre (distortissime) e alla voce, Douglas Hart al basso e Bobby Gillespie dietro una minimale batteria, sono stati gli alfieri di un nuovo suono, destinato a cambiare la storia della musica contemporanea. Non erano propriamente degli sconosciuti, perché avevano alle spalle qualche singolo; forse per questo motivo la prova del 33 giri era particolarmente attesa, per verificare le capacità della band nella lunga durata. “Vorrei che venisse ricordato per sempre”, affermò Jim Reid in un’intervista, “che diventasse come quegli album che vendono sempre, al pari del primo dei Velvet Underground”. La sua speranza si è trasformata in una felice profezia, perché Psychocandy, a distanza di oltre sei lustri, non solo continua a vendere, ma mantiene una freschezza che pochi album degli anni Ottanta possono vantare.
Merito di una proposta musicale innovativa, che ha posto le basi dei generi che saranno chiamati noise e shoegaze. Pur essendo dei precursori, i JAMC non hanno mai nascosto, a partire da questo esordio, le loro fonti di ispirazione; sebbene non possa essere definito come un lavoro puramente derivativo, Psychocandy è fortemente debitore dei Velvet underground, in particolare del primo, omonimo e monumentale disco del 1967. Il passo in avanti sta nel fatto che i JAMC hanno appreso la lezione psichedelica della band di Lou Reed per trasformarla in qualcosa d’altro, in un suono prossimo agli umori del post-punk, più vicino al sentire di una generazione, quella degli anni Ottanta, che viveva nello smarrimento completo a causa della perdita di ogni punto di riferimento, in primis ideologico. I testi cupi, funerei e ossessivi, ricordano quelli dei contemporanei Joy Division, anche se in Psychocandy non è presente la nera disperazione intimista di Ian Curtis, quanto piuttosto un canto arreso di più ampio respiro generazionale.
Il disco contiene tutti gli elementi fondamentali della proposta musicale dei JAMC: un potentissimo muro del suono retto da chitarre distorte e lancinanti, che sovente rallentano in pause ipnotiche, con una batteria ridotta ai minimi termini ma onnipresente. Si dice spesso, anche a sproposito, che un determinato disco ha avuto la capacità di influenzare in maniera decisiva la produzione futura. Nel caso di Psychocandy non si tratta di una formula di stile; la verità è che i JAMC hanno condizionato quantomeno le due generazioni successive di musicisti, e il loro esordio ha rappresentato il vero e proprio manuale del nuovo suono. Quattordici brani che sono altrettante potenziali hit, che spaziano da momenti più dilatati dal sapore ipnotico (Just like honey, Taste of cindy), a frammenti di materia musicale in disturbante feedback (The living end, Taste the floor), per passare a scampoli di perversa dolcezza (Sowing seeds), rinchiudendosi infine nelle cupe spirali di un cuore malato (My little underground, Something wrong).
Difficile dire quale pezzo spicchi sugli altri, impossibile preferirne uno. Psychocandy è stato pensato, concepito e suonato come un continuum, espressione di uno stato d’animo più che insieme ragionato di canzoni. I critici hanno poi cercato di dare un nome a questo umore, parlando di noise, shoegaze e post-punk. Come al solito, le etichette lasciano il tempo che trovano; è solo ascoltando questo pugno di canzoni derelitte e lancinanti che si può capire quanto la sensibilità musicale contemporanea sia debitrice dei JAMC, anzi di Reid, Reid, Hart & Gillespie.

12 giugno 2017

"Nessuna voce dentro" di Massimo Zamboni: un'estate può cambiarti la vita

Berlino ha rappresentato, per gli anni Ottanta, quello che Londra è stata per i Sessanta/Settanta: meta agognata di migliaia di giovani europei inquieti e ribelli, alla ricerca di un Eden in cui ritrovare nuovi stimoli, abbandonando un’esistenza altrimenti vacua e frustrante. Molti sono tornati indietro delusi, altri si sono stabiliti definitivamente in Germania, magari diventando un ingranaggio del sistema da cui avevano cercato di fuggire. Per tanti, invece, l’esperienza è stata davvero rivoluzionaria, perché ha avuto il potere di sprigionare energie creative latenti, o semplicemente perché ha consentito loro di percorrere un sentiero diverso da quello prestabilito. Massimo Zamboni, celebre chitarrista dei CCCP/CSI, rientra proprio in quest’ultima categoria; partito in autostop nel 1981, a Berlino ha vissuto l’estate che ha cambiato definitivamente la sua vita, tracciando il primo solco di una strada maestra che sta ancora caparbiamente seguendo. Nessuna voce dentro (Einaudi, 2017) è il resoconto di quell’irripetibile stagione, oltre ad essere un avvincente romanzo di formazione. Può sembrare esagerato parlare di “romanzo di formazione” per un libro che di fatto copre un arco temporale di pochi mesi; eppure, nessuna definizione risulta così calzante. Il passaggio dalla molle vita della provincia italiana alla frenetica metropoli tedesca ha infatti il sapore di una rivelazione, destinata a trasformare in uomo il timido studente partito da Reggio Emilia.
A Berlino, Zamboni ha modo di confrontarsi con una realtà realmente cosmopolita, popolata di punk, fricchettoni dell’ultima ora, rockabillies, mods e altre sottoculture. Ne esce il ritratto di una generazione non arresa al grande riflusso ideale degli anni Ottanta, ma che «sulla sfacciata presunzione punk del “non c’è futuro”, fonda l’urgenza di “un ora e subito” che non si può più rimandare». Oltre il Muro, un mondo alla rovescia: la tetra e austera DDR che Zamboni non vedrà mai, se non attraverso i suoi simboli, siano essi paurosi come i temibili Vopos, oppure allegri come le colorate Trabant.
Il romanzo scorre via piacevolmente, grazie ad una scrittura snella, debitrice della lezione del maestro Pier Vittorio Tondelli, citato in più occasioni nel testo. Il punto forte della narrazione sta nel fatto che Zamboni non ha rielaborato le vicende sotto la lente della maturità, ma è riuscito a trasportare sulla carta le stesse sensazioni provate all’epoca, che risultano vivide e presenti. Si potrebbe dire che il libro non ha il distacco emotivo tipico del memoriale, ma mantiene l’urgenza espressiva del diario. L’autore parla di vicende accadute trentacinque anni fa mantenendo voce e occhi di quand’era ragazzo, trasmettendo al lettore una piacevole impressione di vicinanza agli eventi narrati.
Un accenno meritano le divertenti pagine dedicate alla Pizzeria da Salvo, «l’avamposto della meridionalità più spermatica e terrosa» in cui il protagonista va a lavorare per potersi pagare il soggiorno berlinese, assieme ad un «pugno di eroi in punta di diamante partiti a espugnare il settentrione». È qui che Zamboni abbandona i panni del cronista per vestire quelli del narratore puro, ricostruendo con tinte ironiche l’ambiente degli emigranti italiani in Germania. Personaggi come il cuoco Vinicio o il capocameriere ‘Cenzo, con il suo irresistibile intercalare, sono destinati a rimanere a lungo nella mente dei lettori, addirittura più dei Besetzer, i colorati abitanti delle case occupate.
Per chi è cresciuto a pane e CCCP/CSI, come il sottoscritto, il finale contiene una piacevole ed emozionante sorpresa. Berlino è il luogo in cui Massimo Zamboni incontra Giovanni (provate ad indovinarne il cognome!), dando vita ad un duraturo sodalizio artistico che rivoluzionerà il modo di fare musica in Italia. Senza voler rivelare troppo, basta riportare le sentite parole dell’autore, che hanno tutto il sapore del riscatto e di una nuova consapevolezza.
«Poi accade qualcosa. Qualcosa che cambierà tutto, e lo cambierà per sempre, mi andrà a travolgere e disordinare. Qualcosa che mi chiede di seguire il richiamo di un indistinto, del tutto vago, possibile cambiamento che aspettavo e forse mi aspettava dall’inizio del viaggio; dei viaggi, forse, dei tanti viaggi che in ultima analisi erano stati soltanto bozze, schizzi preparatori.»