25 luglio 2017

"11": la maturità power pop degli Smithereens

«Tutte le volte in cui cercavo un album degli Smiths in un negozio di dischi, inevitabilmente me ne capitava tra le mani uno degli Smithereens, che scartavo senza appello». Così scriveva un commentatore su YouTube, biasimando la sua fretta giovanile e affermando che, col senno di poi, non li avrebbe scartati a colpo sicuro; anzi, li avrebbe di gran lunga preferiti agli Smiths. Al di là dell’evidente ironia, l’anonimo commentatore non ha avuto torto nell’affermare che gli Smithereens sono stati un valido gruppo. Certo, nulla a che vedere con i più quotati Smiths, che sono riusciti ad inventare un genere e uno stile. Eppure, nel ristretto recinto del power pop, anche agli Smithereens spetta un posto d’onore.
Sono uno dei gruppi minori della scena rock americana, ma ritengo sia erroneo definirli “sottovalutati”, come scrivono in molti sulla rete. Prima di imbattermi in 11, il loro quarto lavoro in studio, non sapevo chi fossero; poi ho scoperto che hanno avuto una discreta fama per tutto il corso degli anni Ottanta, specialmente negli Usa. Ancora oggi sono un gruppo di piccolo culto, che continua a girare in tour nella formazione originale, composta da Pat Di Nizio (voce e chitarra), Jim Babjak (chitarra), Dennis Diken (batteria) e Mike Mesaros (basso). Il Dizionario del pop-rock di Tonti e Gentile ricorda che gli Smithereens, «da cover band con un amore particolare per il beat inglese e il R’n’R classico americano», sono diventati uno dei principali gruppi di power pop, sfornando una serie impressionante di validi singoli, come Behind the wall of sleep, Blood and roses, Strangers when we meet, Lonely room, House we used to live in, Drown in my tears e altri. Da ricordare specialmente i primi tre album: l’EP di esordio Beauty and sadness (1983), Especially for you (1985) e Green thoughts (1988).
Il quarto LP (1989), intitolato semplicemente 11, è stato un punto di svolta nella loro carriera, perché ha segnato la fine della fase più felice, o meglio, l’inaridimento della vena creativa di Pat Di Nizio, leader indiscusso della band e autore di quasi tutti i testi e le musiche. Il quartetto si dimostra affiatato e quadrato, proponendo dieci canzoni di un power pop sanguigno, che a volte strizza l’occhio al rock americano più classico. É dunque un disco di transizione, perché segna una svolta nello stile, orientato sempre più verso una proposta marcatamente rock, sorretta dai riff della Rickenbacker di Babjak e dal basso potente e preciso di Mesaros.
Il lato A si apre con A girl like you, pimpante canzone d’amore a lungo in classifica negli Stati Uniti e in Canada. Segue la vera e propria gemma dell’album, l’intrigante ballata Blues before and after, con un egregio lavoro al basso e un ritornello destinato a rimanere a lungo in testa. Per comprendere quanto la band fosse quotata, si prenda in considerazione la terza traccia, la fluida Blue period, impreziosita addirittura dalla voce di Belinda Carlisle, all’epoca una celebrità. La facciata si chiude con altri due pezzi quadrati, Baby be good e A room without a view. Il secondo lato continua sulla falsariga del primo, con un altro azzeccato singolo, Yesterday girl, e proseguendo con uno dei pezzi migliori del disco, la decisa Cut flowers. Da ricordare William Wilson, omaggio ad un celebre racconto di Edgar Allan Poe, che tratta il tema del doppelgänger. Il disco si conclude con una lenta ballata pop decisamente radiofonica, Kiss your tears away.
11 non è un disco memorabile, ma è l’impronta di una band sempre coerente con se stessa. The Smithereens meritano il nostro rispetto per questa ragione: stanno portando avanti da più di trent’anni il discorso di un pop-rock sobrio, suonato bene, che rinuncia ai riff ruffiani in favore di una vena compositiva che si ispira ai Sixties, Beatles e Byrds su tutti. Anche se i testi non sono sempre all’altezza, Di Nizio li carica di drammaticità grazie alla sua intensa voce. 11 ha segnato anche il passaggio dalla Enigma ad una major, la Capitol; per questo dovrebbe essere di facile reperibilità anche nel Bel Paese, per giunta a prezzi abbordabili, dato che il vinile è stato stampato in concessione dalla Emi italiana. Ripeto che i primi tre lavori del gruppo americano sono certamente i migliori. 11, come tutti i dischi di transizione, vive di alti e bassi, ma porta comunque l’inconfondibile marchio di fabbrica di Pat Di Nizio e soci.
La band (Babjak, Mesaros, Di Nizio e Diken) e la copertina di "11"

13 luglio 2017

"L'amico ebreo" di Gian Piero Bona: un miracoloso salvataggio dall'Olocausto

Il titolo di Giusto tra le nazioni spetta ai non ebrei che, privi di interesse personale e a rischio della propria incolumità, abbiano salvato anche un solo ebreo dallo sterminio nazista; l’onorificenza trae origine dal versetto del Talmud secondo cui «chi salva una vita, salva il mondo intero». Lo scrittore e poeta Gian Piero Bona, superata la soglia dei novant’anni, ha deciso di raccontare una vicenda autobiografica e familiare rimasta fino ad oggi ignota. È così venuto alla luce il romanzo L’amico ebreo (Ponte alle grazie, 2016), con dedica al padre, uno fra i Giusti. L’autore spiega nelle prime pagine le ragioni che l’hanno indotto a raccontare questa toccante storia.
«Alcuni esemplari di quei nazisti intenti a eliminare nei loro lager sei milioni di ebrei e due milioni tra zingari, cristiani, intellettuali, malati, omosessuali, ho avuto modo di vederli per tre anni dentro e fuori della mia casa. Fu così che un piccolo episodio di questa tragedia umana, vissuto per caso nel luogo dove allora abitavo con la mia famiglia, è rimasto ancora oggi come un marchio a fuoco sfrigolante nella carne della mia anima.»
Tra il 1942 e il 1945, nell’antica magione dei Bona di Carignano, si è infatti consumata una vicenda che ha dell’incredibile. Sotto lo stesso tetto, per quasi quattro anni, hanno vissuto a stretto contatto il ragazzino ebreo Sergej Yonov e l’odioso Richtel, capitano delle SS. Sia il carnefice che la potenziale vittima erano ospiti della famiglia dello scrittore, in una forzata e pericolosa convivenza che solo per miracolo non si è tramutata in tragedia. Sergej, ebreo di origine russa, era compagno di scuola e di conservatorio di Gian Piero Bona; fu il padre di quest’ultimo a salvarlo dall’olocausto, conducendolo in casa propria e facendolo passare come un lontano parente grazie ad un’accurata messinscena. Negli stessi anni in cui Sergej era ospite dei Bona, nella grande casa si era stabilito anche l’ignaro capitano Richtel, secondo l’usanza per cui gli ufficiali nazisti, anziché vivere nelle caserme, trovavano forzosa ospitalità nelle case dei maggiorenti. Sergej e Gian Piero erano due ragazzi diversissimi: il primo ebreo, razionalista e logico, il secondo cristiano, inquieto e affascinato dall’esoterismo.
«Il destino mi aveva mandato il grande amico e ciò fu la scoperta del vero male e del vero bene intorno a noi, della luce e delle tenebre. […] Avevamo opinioni radicalmente opposte, dovute alla nostra diversa educazione; eppure, lui ebreo e io cristiano, eravamo diventati fratelli di viaggio.»
Lo stretto contatto con Richtel rafforza l’amicizia tra i due ragazzi, che di fatto diventano come un’unica persona; anzi, è proprio la minaccia della deportazione a renderli più uniti, rinsaldando un legame che va al di là della semplice amicizia. La quotidiana visione del nazista Richtel assume i caratteri di una pericolosa vicinanza alla morte, perché il tedesco incarna gli aspetti negativi dell’esistenza, è il simbolo del male e del cuore di tenebra. Ambiguo e proprio per questo temibile, Richtel è in egual misura capace di slanci di affettività e di orribili crimini.
Gian Piero Bona, da poeta di razza qual è, riesce a raccontare una vicenda toccante senza forzosi patetismi, ma al tempo stesso con una strenua vis polemica nei confronti degli occupanti nazisti. Il libro non è semplicemente la memoria di una irripetibile stagione di vita, ma anche un commosso ricordo della propria famiglia, unita dal vincolo del sangue e dalla necessità di difendere un segreto che non poteva essere rivelato.
L’amico ebreo è un emozionante romanzo di formazione, una formidabile lezione di resistenza e solidarietà, nonché una vivida testimonianza del valore della diversità. Viviamo in tempi difficili e c’è chi vorrebbe rimettere in discussione alcuni principi fondanti della nostra democrazia; leggere L’amico ebreo diventa così un doveroso atto di coraggio, per non dimenticare e rischiare di ricadere negli errori del passato.