22 settembre 2017

Giorgio Canali alla (ri)scoperta della canzone italiana

Giova subito chiarire che Perle per porci (2016) è un album di cover. L’ultimo disco di inediti dei Rossofuoco è invece Rojo del 2011, in cui Canali usava la sua chitarra disturbata per combattere i poteri forti e le storture del mondo. A cinque anni di distanza, il chitarrista di Predappio ha deciso di cimentarsi in un progetto in qualche misura rischioso: sfornare un album interamente formato da cover. Non si tratta di una novità assoluta nel panorama del rock indipendente italiano; mi viene in mente Un ricordo che vale dieci lire di Federico Fiumani del 2014, in cui il cantautore punk per eccellenza reinterpretava brani di autori noti, come Dalla e Battisti. L’operazione portata avanti da Canali è diversa e controcorrente, come d’altronde è nello stile del personaggio. Perle per porci contiene probabilmente le canzoni che Canali vorrebbe aver scritto, e la scelta è tutto fuorché scontata. Il disco non è però un semplice divertissement, ma si propone un meritorio obiettivo di recupero, non sempre archeologico, di canzoni che non hanno avuto i riconoscimenti che avrebbero meritato. In questo senso sono state “perle buttate ai porci”, gettate nel mare magnum del mercato discografico senza essere state adeguatamente recepite da un pubblico disabituato alla musica di qualità. Il punto di forza dell’album è che tutte le tredici canzoni sembrano essere state scritte da Canali, che le interpreta con la sua consueta energia mista di dolore e rabbia, coadiuvato da Steve Dal Col alla chitarra, Marco Greco al basso e chitarra e Luca Martelli alla batteria.
Come ho detto, la scelta dei brani non ha un carattere propriamente archeologico: se certamente vengono recuperati vecchi pezzi di artisti famosi (De Gregori, Finardi) o meno (Frigidaire tango, Faust’O), Canali si cimenta al tempo stesso in cover di canzoni contemporanee di un certo successo (Lacrimogeni) o sconosciute ai più. Il disco è stato trainato dal potente singolo Tutto è così semplice di Macromeo, presentato con un simpatico video in stile retrò, in cui i Rossofuoco fluttuano con le immagini di un vecchio campionato mondiale di frisbee sullo sfondo. A.F.C. (Angelo Fausto Coppi) è una delle canzoni più “canaliane” del disco, che a tratti ricorda MP nella BG, altro brano sul ciclismo contenuto in Nostra Signora delle dinamite. E ancora, Canali ci ricorda quanto Faust’O sia un grande cantautore sottovalutato: Buon anno è infatti uno dei punti più alti del disco, di eterea e struggente bellezza. Anche quando reinterpreta colleghi più quotati, l’ex-CSI riesce a dare alle canzoni un’impronta inconfondibile, grazie a quel marchio di protesta (si ascolti F-104 di Finardi) e di ironico menefreghismo (Storie di ieri di De Gregori) che contraddistingue tutta la sua carriera solista. Degne di nota sono anche Canzone dada, dall’incedere sostenuto e dal testo surreale, e la splendida ballata Un giorno come tanti dei Mary in June. Lacrimogeni, invece, è ancora più dilatata e sofferta rispetto alla versione originaria de Le luci della centrale elettrica. Altro punto di forza è Mi vuoi bene o no? di Angela Baraldi, che Canali personalizza persino nel testo: è inconfondibilmente suo il verso «non mi piace aver paura / quando sento una sirena», al posto di «non mi piace aver paura / quando torno a casa sola / sento un brivido alla schiena / sento un nodo che si stringe in gola».
Salvo qualche episodio meno incisivo (Pesci e sedie, Richiamo), il disco scorre via piacevolmente per quasi un’ora, regalandoci un Canali inedito, forse meno incazzato e più riflessivo, il ritratto di un uomo che rivela se stesso prendendo in prestito le parole scritte da altri. Se già possedete la discografia completa dei Rossofuoco, questo disco è da avere come necessario completamento.
Giorgio Canali & Rossofuoco: foto promozionale per Perle per porci (2016)

8 settembre 2017

"America perduta" di Bill Bryson: sulla strada dei ricordi

Partire su una Chevrolet scassata per un lungo tour degli Stati Uniti, oltrepassando deserti, montagne e oziose cittadine, è un sogno che, più o meno consapevolmente, coltiviamo tutti. Sarà il retaggio di qualche libro (Kerouac su tutti), oppure il desiderio suscitato da qualche pellicola, fatto sta che intraprendere un viaggio on the road è un’idea che da sempre ispira curiosità e desiderio di evasione. Tra i tanti che hanno vissuto quest’esperienza, Bill Bryson è tra coloro i quali hanno deciso di raccontarla in un libro. Bryson è un giornalista americano, nato nel 1951 nello Iowa, nel cuore degli Stati Uniti, proprio al centro della più grande pianura del Paese. Dopo aver vissuto per vent’anni in Inghilterra ed aver viaggiato per tutta Europa, è tornato negli Usa, dove collabora con importanti quotidiani, quali il Washington Post e il New York Times.
Poco prima dei quarant’anni, Bryson ha deciso di intraprendere un viaggio in auto, attraversando praticamente tutti gli Stati Uniti, da Est ad Ovest, partendo dalla città natale di Des Moines. Non si è trattato del solito itinerario “da costa a costa”, ma di un tragitto a forma di otto, molto più lungo e faticoso, che ha lambito quasi tutti gli Stati. America perduta è il resoconto dell’appassionante esperienza, che ha rappresentato, prima di tutto, un percorso sull’onda dei ricordi. Il Paese perduto di cui parla Bryson è quello della sua infanzia, dei viaggi assieme ai genitori durante gli interminabili periodi di vacanza. Il cammino diventa così l’occasione per rievocare ricordi ancora vividi, oppure per constatare quanto i luoghi della fanciullezza siano cambiati negli anni.
L’autore descrive prevalentemente un’America minore, rurale, lontana dalle luci e dai fasti delle grandi metropoli. Leggendo il libro si ha modo di conoscere luoghi sperduti e dai nomi esotici, come Oskaloosa, Bolivar, Cairo, Monroe, Dearborne, Cedar City, solo per citarne alcuni. Eppure, i luoghi descritti da Bryson sono il cuore pulsante del Paese, l’America più vera e tradizionalista, legata a valori e riti immutabili. Al tempo stesso, sono i posti che meglio corrispondono all’immaginario collettivo costruito dalle pellicole cinematografiche, fatto di motel, stazioni di servizio nel deserto e infinite lingue di asfalto che si srotolano per chilometri nel nulla. Gli stessi scenari dei quadri di Hopper, per intenderci con una suggestiva similitudine.
Il libro, tuttavia, presenta almeno due punti deboli. Il primo è la monotonia del racconto, che fa gradualmente scemare l’attenzione del lettore. Le prime cento pagine sono entusiasmanti, pur nella semplicità del meccanismo narrativo: Bryson si limita a raccontare le sue giornate, fatte di lunghi tragitti in auto, visite alle cittadine disseminate lungo il percorso e soste notturne negli alberghi. Se inizialmente il racconto scorre via in scioltezza, alla lunga le situazioni finiscono per ripetersi, rendendo faticosa la prosecuzione. L’autore descrive accuratamente i luoghi visitati, ne racconta la storia e i tratti peculiari degli abitanti, come se si trattasse di un reportage. La reiterazione di tale meccanismo narrativo rende arduo concludere alcuni capitoli, che appaiono quasi una replica di altri. Il secondo punto debole è, a mio avviso, nello stile. Bryson è assai efficace quando adotta il piglio del reporter, ma fa spesso uso di un tono ironico forzato e poco incisivo, che scade talvolta in banali freddure.
Nel complesso si tratta comunque di un libro piacevole, da leggere in piccole dosi, magari un solo capitolo al giorno, per avere quasi l’impressione di viaggiare assieme all’autore sulle sterminate autostrade americane, all’inseguimento di un sogno, o forse di un ricordo d’infanzia.