27 novembre 2017

Nostrani ma strani: i Mercenaries e il loro unico album, "I'm not Russian"

Quando adocchio una bancarella che vende LP a poco prezzo, so già che il ciarpame la farà da padrone. Eppure, nonostante innumerevoli volte l’unico risultato conseguito sia stato respirare un mucchio di polvere, cedo sempre alla tentazione. Non credo alla possibilità di fare l’affare, quanto piuttosto spero di trovare qualche disco misconosciuto per cui valga la pena spendere il prezzo di un caffè o poco più. Si sa che la storia della musica, come d’altronde la letteratura, è piena di vicende meno note che avrebbero meritato un maggiore approfondimento.
I’m not Russian dei Mercenaries ne è l’emblema. Buttato alla rinfusa in mezzo a decine di raccolte di Fausto Papetti, mi ha attirato per la copertina. E dire che è anche piuttosto anonima! Quasi completamente bianca, riporta sulla sinistra il nome del gruppo e sulla destra il titolo dell’album, con un’iscrizione aggiuntiva in giapponese. Tutto faceva pensare ad un gruppo straniero alla Ultravox, compresi i titoli delle canzoni, ma altri indizi dicevano il contrario: il nome dei musicisti e alcuni piccoli disegni di celebri monumenti del Bel Paese.
I’m not Russian è un lavoro oscuro, perla minore di un certo rock all’italiana che si era sviluppato all’inizio degli Anni Ottanta, grazie ad autori come Gino d’Eliso o Faust’o. Dalle poche notizie ricavabili sulla rete, si scopre che i Mercenaries erano una creatura del chitarrista Claudio Dentes, autore di un album sperimentale pubblicato alla fine degli anni Settanta, nonché musicista per artisti del calibro di Alberto Fortis e produttore di successo. La formazione, oltre allo stesso Dentes alla voce e chitarra, comprendeva Betty Vettori ai cori, Franco Cristaldi al basso e i due fratelli Beppe e Piero Gemelli, rispettivamente alla batteria e chitarra (sotto lo pseudonimo di Josè 1 e Josè 2). Il disco vede l’apporto di Claudio Fabi come produttore, mentre in due tracce le tastiere sono suonate da Alberto Fortis, ospite d’eccezione perché i componenti dei Mercenaries erano il gruppo spalla del cantautore. I’m not russian è il loro unico album, pubblicato nel 1982 dalla Aleph Records, una sussidiaria della CGD.
La busta interna riporta i crediti ed i testi, tutti in inglese. Non è facile definire il genere dei Mercenaries, perché non sono inquadrabili in alcun genere. C’è però un immediato punto di riferimento, che emerge subito: i primi Police, quelli di Outlandos d’amour per intenderci. Brani come Men who fight, Radio e la title-track, infatti, risentono evidentemente dell’influsso della band di Sting, tanto che a tratti i Mercenaries fanno palesemente il verso ai Police. Eppure, sarebbe riduttivo parlare di un disco derivativo. È un LP originale, che mescola pop elettronico con echi di new-wave, o meglio di synth-pop, e influenze di altri stili come il reggae. Ho parlato di new-wave, ma va fatta una precisazione: nel disco non dominano atmosfere cupe o claustrofobiche, quanto piuttosto ariose, ampie, tipiche di un pop raffinato che si caratterizza per i repentini cambiamenti di ritmo e l’uso dei cori. È forse un lavoro che in alcuni punti risente degli anni, ma comunque sorprende già al primo ascolto per la cura degli arrangiamenti e delle parti strumentali, che lasciano intuire la classe di Dentes & soci.
La prima facciata contiene quattro gioielli. Il primo, Men who fight, ricalca lo stile dei Police, al pari della successiva e incalzante Radio. Panorama drama è una piccola gemma pop dal ritmo coinvolgente. Chiude la facciata la meravigliosa White tornado, che sfoggia una coda finale chitarristica da far impallidire gruppi più quotati, oltre ad avere un testo suggestivo sorretto da un canto perfetto. Il lato B prosegue sulla falsariga del primo, con brani più veloci e meno strutturati. Ancora una volta sono i Police il necessario termine di paragone: si ascolti I’m not Russian, oppure la pimpante Intruder. Il disco sorprende fino all’ultimo solco: si conclude con una delicatissima ballata cantata da Betty Vittori, Follow the string, così perfetta che sembra di conoscerla da una vita.
È un disco di fatto ignoto, ma che vale la pena ascoltare perché è un tentativo compiuto di uscire fuori dai ristretti confini del pop-rock, per costruire qualcosa di più raffinato che, almeno in Italia, non aveva precedenti (e sarei ben felice di essere smentito). Nonostante sia abbastanza raro, è reperibile on-line a prezzi irrisori.
LP "I'm not Russian" - Mercenaries - 1982, Aleph Records

11 novembre 2017

Il punk oltre il punk: "The image has cracked" degli Alternative TV

Erano anni che non acquistavo un disco appartenente alla prima ondata del punk inglese. Ormai disamorato dei Sex Pistols e dei Damned, non più entusiasta di fronte ad un riff dei Buzzcocks, fedele solo al verbo dei Clash, mai avrei creduto di comprare e recensire un album degli Alternative TV, di cui ricordavo solo il nome, letto in un’antologia sul punk che per anni ha rappresentato la mia Bibbia in materia.
L’occasione si è presentata per il “Cassette store day 2017”, la festa che ogni anno celebra le musicassette e autocelebra i pochi che ancora le ascoltano, sostenendo magari che il nastro è l’unico vero supporto ad alta fedeltà. La Radiation Records di Roma ha festeggiato la giornata con tre ristampe in musicassetta (edizione limitata a 350 copie) di altrettanti album meno noti del periodo d’oro del punk. Tra questi, il primissimo lavoro degli Alternative TV, The image has cracked. Il nastro suona davvero bene, anche se non possedete un mitico Nakamichi Dragon. Sul mio più modesto Luxman K111 del 1989 il suono esce limpido e sufficientemente definito, nonostante il lavoro sia in parte live.
Gli Alternative TV nacquero su iniziativa di Mark Perry, editore della storica rivista “Sniffin’ glue”, che voleva fondare un gruppo che potesse innestare tendenze sperimentali nel punk, genere per sua natura intuitivo e poco cerebrale. The image has cracked venne pubblicato nel maggio del 1978, ed in qualche modo rappresenta la consacrazione e il superamento del genere, come una porta socchiusa che lascia intravedere quello che verrà. È dunque un disco di transizione, anche se, a mio avviso, ben più significativo in tal senso è il coevo The scream dei Siouxsie & The Banshees.
Consiglio di tralasciare la prima traccia, Alternatives, una sorta di noioso dialogo in forma di botta e risposta tra il gruppo e gli spettatori, che prendono in mano il microfono ed esprimono la propria opinione. Noioso oltre ogni dire e inutile. Conviene allora passare alla seconda traccia, la nervosa ed elettrica Action time vision, probabilmente la più riuscita dell’album. La prima facciata è più vicina ai canoni classici del punk, con echi degli Adverts e degli Sham69 (si ascoltino in proposito Why don’t you do me right? e Good times), anche se i nostri non disdegnano parti strumentali più lunghe, sebbene non particolarmente articolate.
Il lato B contiene invece i germi delle sperimentazioni degli anni successivi: le canzoni si dilatano, si allarga la gamma degli strumenti, fino a timidi accenni elettronici. Si pensi alla corposa Viva la rock n’ roll, caratterizzata dalle note di un pianoforte in apertura e chiusura, che termina con una ripresa addirittura delicata. O ancora, si ascolti la strumentale Red, che si dilata in lancinanti e cadenzate scariche elettriche. Splitting in two, invece, inizia in maniera poco convincente, per poi esplodere in una coda strumentale da muro del suono. L’edizione in MC è arricchita da due deliziose bonus tracks: Love like limp, dalle venature reggae alla Clash, e la tiratissima Lies.
Di certo The image has cracked non è un lavoro epocale, ma è qualcosa di diverso rispetto al classico schema “tre minuti-tre accordi”. Gli Alternative TV hanno tentato un’evoluzione rispetto ad un piano prestabilito, forse senza grandi doti tecniche, ma senza dimenticare la rabbia e l’urgenza espressiva. Punk, ma con un piede oltre la soglia.

La ristampa in MC curata Radiation Records (2017)