26 dicembre 2018

Il vecchio, la pistola, una questione d’amore

Old man & the gun è in programmazione in questi giorni nelle sale italiane. Il film di David Lowery, su soggetto dello scrittore americano David Grann, racconta l’incredibile vicenda umana di Forrest Tucker, rapinatore incallito e re delle evasioni. Il ruolo del protagonista è affidato a Robert Redford, che ha già annunciato il ritiro dalle scene. E in effetti non poteva scegliere un’interpretazione migliore per chiudere una carriera straordinaria; il film è praticamente costruito intorno a lui, con la telecamera che indugia in intensi primi piani sul viso scavato dalle rughe e sullo sguardo sornione che esprime più di mille parole.
Nel film Forrest ha settantacinque anni ed è a capo di una banda di tre rapinatori in età da pensione. In due anni svaligiano un centinaio di banche utilizzando sempre la stessa tecnica, che non prevede l’uso della violenza; dà loro la caccia il detective John Hunt, un compassato poliziotto interpretato da Casey Affleck. La pistola, che pure dà il titolo alla pellicola, non compare praticamente mai, perché le vere armi di Tucker sono l’eleganza e il sorriso, con cui convince i malcapitati impiegati a consegnargli il denaro. L’occasione per redimersi, sia pure tardivamente, ha il volto di Sissy Spacey, deliziosa vedova che Tucker incontra per caso e con cui inizia una sincera relazione affettiva, che non riuscirà tuttavia a cambiarlo.
Uscito dal cinema, mi sono chiesto per quale ragione Forrest Tucker meriti la nostra simpatia. Si potrebbe rispondere che si tratta del fascino del male, oppure dello stereotipo del ladro gentiluomo, ma non basta. La verità è che ci attira perché è un uomo che ama. Per lui la rapina è un atto d’amore, forse non l’unico di cui è stato capace nella vita, ma certamente il più importante, il solo che lo renda davvero felice; non a caso più volte nel film si fa riferimento al sorriso, vero e proprio marchio di fabbrica delle sue scorribande. Un amore così esclusivo da sacrificare persino gli affetti, come emerge chiaramente nel sorprendente finale. A Forrest non interessano i soldi, che ammucchia senza riguardo in un vano nascosto sotto il pavimento; per lui la rapina è il beau geste, l’azione elegante, quasi nobile, che lo eleva al di sopra delle convenzioni dell’uomo medio, fino a renderlo un personaggio eccezionale, fuori dal comune. Coerente con questa visione della vita, al poliziotto che gli domanda se non esista un modo più dignitoso per guadagnarsi da vivere, egli risponde semplicemente che «io non sto parlando di guadagnarsi da vivere, io sto parlando di vivere». Attenzione però ai fraintendimenti: il film non è un’apologia del male, non passa il messaggio che i crimini siano giusti o quantomeno giustificabili. Se dunque dobbiamo rispetto a Forrest Tucker, non è per le sue malefatte; è piuttosto il rispetto che si deve ad un uomo che sacrifica se stesso per amore, per quanto non comune e perverso sia tale amore.
Per tutte queste ragioni, Old man & the gun è innanzitutto un film sulla libertà, tutto incentrato su un personaggio in sé negativo, ma delicatamente anarchico; più precisamente, è un film d’amore, una pellicola sull'amore per la libertà, il canto del cigno di un grandissimo attore e un nostalgico ritratto di un’epoca che non c’è più.
Robert Redford è Forrest Tucker (da www.film.it)

17 dicembre 2018

"La panne" di Friedrich Dürrenmatt: un delitto si trova sempre

La lettura de La panne ha confermato l’impressione che già avevo avuto con Il giudice e il suo boia: a Dürrenmatt interessavano specialmente gli aspetti patologici della giustizia umana, lo intrigavano le implicazioni distorte della funzione giudiziaria. Secondo lo scrittore svizzero, il diritto non è das Recht, la strada dritta verso la verità, quanto piuttosto una linea contorta, che può essere piegata a piacimento lungo le direttrici del giusto o dell’abuso. E mentre ne Il giudice e il suo boia la domanda è se possa esistere un delitto perfetto, ne La panne l’interrogativo riguarda la possibilità di accusare taluno di un reato che non ha mai commesso, fino a convincerlo della propria (insussistente) colpevolezza. D’altronde, uno dei principali personaggi del romanzo, il pubblico ministero, dichiara senza mezzi termini che un delitto si trova sempre, basta indagare nel vissuto di ogni uomo.
Alfredo Traps, un modesto rappresentante di commercio, è costretto a fermarsi per la notte in un villaggio svizzero, a causa di una panne alla sua automobile. Viene ospitato dall'anziano proprietario di una dimora signorile, che lo invita a partecipare ad un gioco insieme ai suoi tre più cari amici. I quattro vegliardi sono pensionati che hanno calcato le aule di giustizia nelle vesti di giudice, pubblico ministero, avvocato e boia. Il loro gioco preferito consiste nel rinverdire i fasti del passato, inscenando finti processi a personaggi storici; quando però si presenta un ospite a cena, è quest’ultimo a venir coinvolto nel gioco, in veste di imputato. Traps si sottopone volentieri alla farsa, divertito e convinto della propria innocenza. Il pubblico ministero, invece, con una requisitoria logicamente impeccabile, anche se giuridicamente infondata, finirà per inchiodarlo ad una terribile verità, convincendolo di aver commesso un turpe delitto. È a questo punto che si verifica una panne anche nel cervello del povero Traps, un vero e proprio cortocircuito emotivo che lo condurrà ad esiti tragici.
Il breve romanzo lancia diversi interrogativi e spunti di riflessione. In primo luogo, centrale è il ruolo del caso, che per Dürrenmatt è il vero gerente dei destini umani. Il fatto che dà il via ad una concatenazione di eventi irreversibili e drammatici è una semplice panne, un guasto meccanico che genera conseguenze imprevedibili. Il titolo è dunque centrale nell'analisi del romanzo, perché richiama un tema assai caro all'autore svizzero: quello dell’evento fortuito e apparentemente marginale, che diviene il fulcro di coincidenze imponderabili.
Ad una lettura più approfondita, il libro è un'acuta riflessione sulla sacralità della giustizia, un affare troppo serio per diventare oggetto di giochi o spettacoli. Ed è proprio questo l’aspetto di più stretta attualità del romanzo; viviamo in un’epoca che ha fatto dei processi mediatici un vero e proprio affare milionario, ad uso e consumo di spettatori del tragico che cercano nella condanna altrui una catarsi dalle proprie meschinità. Dürrenmatt, sia pur involontariamente, anticipa i tempi e vuole dirci che la sala da pranzo del giudice in pensione, così come i moderni studi televisivi, non sono aule di udienza. Eppure, allo stesso modo e con la stessa effettività, possono decidere i destini umani. Sta dunque a noi, alla nostra intelligenza e sensibilità, fare in modo che ciò non accada.

4 dicembre 2018

"Nessuna resa mai": un manifesto del rock italiano

Nessuna resa mai non è solo il titolo del secondo album di Massimo Priviero, uscito nel 1990. È piuttosto il manifesto di un artista che ha avuto la coerenza e il coraggio di non conformarsi alle dinamiche del mercato e di seguire la propria strada, anche a costo di rinunciare ad una più ampia popolarità. Nessuna resa mai è dunque prima di tutto uno slogan, divenuto negli anni titolo onorifico, a garanzia di una musica indipendente e senza compromessi.
Grande era l’attesa intorno a Priviero quando il disco uscì, dopo gli ottimi riscontri di pubblico e di critica che aveva suscitato il lavoro d’esordio, San Valentino (1988). Il musicista si presentò alla seconda prova con il peso di una grande responsabilità sulle spalle; basti pensare che l’etichetta discografica, la Warner, si prodigò parecchio nella produzione e nella promozione del nuovo LP dello “Springsteen italiano”. Non a caso, produzione e arrangiamenti furono affidati al grande Little Steven, storico chitarrista della E Street Band, chiamato direttamente dagli Stati Uniti per definire e perfezionare il suono. Little Steven suonò anche le parti di chitarra acustica in diversi brani, assieme ad una formazione di tutto rispetto che comprendeva, tra gli altri, Lele Melotti alla batteria, Lucio “Violino” Fabbri e Flavio Premoli alla fisarmonica.
Nove le tracce. Apre Angel, una classica ballata rock con le chitarre in evidenza, che fa da preludio all’incalzante Dormirò (quando sarò morto), in cui Priviero sfodera il suo piglio aggressivo. Un discorso a parte merita la celebre title-track, un vero e proprio inno che incita a seguire la propria strada senza arrendersi. Egualmente ispirate le ballate prevalentemente acustiche, come La storia di Jerry e la conclusiva Un amico irlandese. Priviero racconta la vita vera, non fa politica e non è il menestrello di un’ideologia; nel solco della tradizione del rock di oltreoceano, la strada è la vera protagonista del disco, crocevia di storie e abbandoni (Un amico irlandese), cornice di una vita ai margini (Suonando sui marciapiedi) o di vicende di emigrazione (La storia di Jerry). Il suo è un rock senza fronzoli, ammansito dal gusto della melodia, in cui predominano le chitarre acustiche ed elettriche. Il linguaggio, essenziale e diretto, contribuisce a definire il quadro d’insieme del disco, forse poco incisivo in alcuni punti, ma certamente coeso dall’inizio alla fine.
“Steven, non ho parole per dirti grazie”, scrive Priviero nei ringraziamenti dell’album, a voler rafforzare l’impronta decisiva del musicista e produttore italo-americano. Se certamente la mano di Little Steven si fa sentire negli arrangiamenti, la buona riuscita del disco è dovuta principalmente alle doti di scrittura di Priviero, capace di allontanarsi dalla gabbia del cantautorato italiano per intraprendere una strada innovativa e in salita. Nessuna resa mai è un LP che in alcuni momenti risente un po’ del peso degli anni, ma a distanza di quasi sei lustri resta uno dei pochi pilastri del rock cantato in italiano, o meglio, di una certa canzone rock all’italiana.
 La copertina dell'album
Massimo Priviero e Little Steven (foto tratte dalla busta interna del disco)

21 novembre 2018

"Un uomo finito" di Giovanni Papini: autobiografia di un cervello che voleva raggiungere il Tutto

Il manuale di letteratura che adottava la mia professoressa alle superiori, il famoso Guglielmino – Grosser, era assai ostico per noi studenti, ma aveva il pregio di dedicare qualche pagina anche agli autori meno noti, che attiravano la mia attenzione più degli indigesti classici. Su Giovanni Papini (1881 – 1956) pochi cenni biobibliografici e un’informazione che a distanza di anni echeggia ancora nella memoria. Secondo il manuale, Un uomo finito (1912) in origine avrebbe dovuto intitolarsi Storia di un cervello, o qualcosa di simile. E in effetti il libro più celebre di Papini è proprio il racconto delle elucubrazioni di una mente non ordinaria, guidata da inesausti sogni di grandezza e destinata a lasciare una traccia profonda nella letteratura italiana. Un’autobiografia, dunque, ma non nel senso tradizionale del termine. Papini rievoca i primi trent’anni della sua esistenza senza soffermarsi tanto sulle vicende umane, quanto piuttosto sui moti inquieti di uno spirito grande che avrebbe voluto essere grandissimo.
In questa autobiografia precoce, Papini ripercorre l’infanzia passata tra i pochi libri di casa, l’adolescenza spesa nelle sale polverose delle biblioteche, la giovinezza ossessionata da una «smania di sapere» che finisce per guastargli gli occhi e prostrargli lo spirito. Grazie alla vivace intelligenza, da imberbe discepolo diventa un maestro riconosciuto e ricercato, egualmente stimato e odiato dalle accademie e dall'élite culturale del Paese. Sono gli anni delle polemiche incessanti attraverso i giornali, delle lettere e dei pamphlet velenosi, che culmineranno nella fondazione della rivista Leonardo, vero e proprio baluardo dei giovani intellettuali incendiari e polemici.
Un uomo finito non è solo un episodio isolato ma decisivo della letteratura italiana del Novecento, ma un vero e proprio “libro di culto”, secondo una definizione oggi molto in voga. All'epoca della sua pubblicazione ebbe grande successo soprattutto presso la gioventù ribelle, delusa dall'immobilismo dell'Italia liberale e umbertina. Erano giovani dai quindici ai trentacinque anni, desiderosi di cambiare il Paese, convinti che ci fosse una nuova razza da costruire. Nei fatti, gli stessi ragazzi che sarebbero stati travolti prima dal mito della guerra “sola igiene del mondo” e poi dal miraggio della rivoluzione fascista. Nelle pagine più fulgide, Papini ci presenta ribelli scapigliati, «poeti delicatissimi, pittori misteriosi e funerei, violinisti mezzi matti», filosofi imbevuti di misticismo e altri personaggi che traboccano di vitalità intellettuale. Papini non è però soddisfatto di essere un primus inter pares; egli vuole elevarsi al pari di un messia, e sarà proprio la smodata ambizione a condurlo alla rovina, a renderlo un uomo finito anzitempo.
La straordinaria modernità del romanzo è principalmente nello stile: la scrittura è roboante, convulsa, quasi violenta. Si pensi al fulminante esordio: «io non son mai stato bambino, non ho avuto fanciullezza». Da solo è già una lettera d’intenti, uno strale capace di rivoltare l’immagine di un’Italia sonnolenta da Libro Cuore. È altresì vero che in più punti la lettura è ostica, specialmente quando Papini si dilunga in complicate dissertazioni filosofiche, morali o religiose. Resta però il fatto che l’autore toscano non pecca certo di sincerità; anzi, si mette a nudo pagina dopo pagina, senza timore di essere giudicato dai suoi simili. D’altronde, se pure ha fallito, ciò non è accaduto perché non avesse i mezzi per arrivare in alto, ma perché troppo alte erano le ambizioni.
«E se dopo avermi ascoltato crederete lo stesso, a dispetto dei miei propositi, ch’io sia davvero un uomo finito, dovrete almen confessare ch’io son finito perché volli incominciar troppe cose e che non son più nulla perché volli esser tutto.»

Copertina di un'edizione Vallecchi del 1952

10 novembre 2018

"Confessioni di una maschera" di Yukio Mishima: la vita è un palcoscenico

La componente autobiografica è centrale in questo romanzo del 1949 di Yukio Mishima (1925-1970). Lo scrittore giapponese, nascondendosi dietro il protagonista Kochan, rievoca alcuni momenti cruciali della propria vita, dalla primissima infanzia all’età universitaria. Kochan proviene da una famiglia della media borghesia di Tokyo, legata ai valori tradizionali della cultura giapponese. Studiare, servire la patria e sposarsi sono gli imperativi categorici di un’esistenza tracciata sui binari del cieco conformismo e dell’obbedienza. In una siffatta società non è lecito opporsi manifestamente, né è dato ostentare la propria diversità; chi è ribelle o semplicemente “diverso” è costretto ad indossare una maschera, dietro cui nascondere la verace identità. Anche Kochan, a seguito della graduale e sofferta scoperta della propria omosessualità, è costretto a ricorrere allo stratagemma della finzione.
«La vita è un palcoscenico, dicono tutti. Ma non sembra che la gran maggioranza sia ossessionata da quest’idea, o perlomeno non sembra che lo sia in una fase precoce come successe a me. Addirittura alla fine dell’infanzia ero fermamente convinto che quella massima corrispondesse alla verità, e che io avrei dovuto recitare la mia parte sul palcoscenico senza mai tradire, neppure una volta, il mio autentico io.»

Tema centrale del romanzo è l’irrisolto conflitto, nell’animo del protagonista, tra il desiderio di esprimere il proprio io più profondo e la necessità di nasconderlo per rispetto delle convenzioni sociali. La maschera è al tempo stesso una protezione e una gabbia, che consente di essere accettati dagli altri al prezzo di soffocare le manifestazioni più autentiche dell’io. Il protagonista ne diviene presto consapevole, quando si rende conto che il proprio disinteresse verso le donne viene scambiato per la noia del consumato seduttore, mentre nessuno sembra accorgersi della sua forte attrazione verso gli uomini.
«Circa in quell’epoca cominciavo a comprendere vagamente il meccanismo del fatto che quanto il prossimo considerava una posa da parte mia era invece una manifestazione della necessità di affermare la mia natura genuina, mentre era per l’appunto una mascherata quello che il prossimo considerava il mio io genuino.»

Kochan, tuttavia, non si limita ad indossare una maschera, ma recita attivamente la parte che il destino gli ha assegnato. E così, mentre nella prima parte del romanzo si dedica a un’attività tutto sommato contemplativa, nella seconda coinvolge nella sua macchinazione un altro essere umano, la virginea Sonoko. Egli inizialmente agisce in perfetta buona fede, convinto di essere innamorato della ragazza, al pari di tutti i suoi coetanei. Man mano che Sonoko gli mostra il medesimo, ma sincero, attaccamento, Kochan sente nascere dentro di sé il bisogno di fuggire da lei, come in effetti fa. Il dolore provato matura in una nuova consapevolezza di sé, fino a sbocciare nella piena accettazione della propria omosessualità.
Il romanzo è scritto in prima persona, con lo stile di un diario intimo; la stessa parola “confessioni” nel titolo rende bene l’idea. La confessione è al contempo rivelazione di un segreto e volontà di espiazione di una colpa, perché se è vero che il protagonista non biasima mai la propria natura, è altrettanto indubitabile che il suo goffo tentativo di farsi piacere una donna sia indice della tortuosità dell’accettazione dei propri bisogni intimi.
Confessioni di una maschera è dunque in primis un romanzo di formazione, o meglio, il racconto di un’autoeducazione sentimentale. Oltre la vicenda individuale c’è però quella collettiva di un Paese in rapida trasformazione, pronto ad affacciarsi alla modernità; ecco allora che Mishima osserva con occhio sornione ma cinico la società giapponese a cavallo tra le due guerre, tradizionalista ma costretta ad arrendersi al vento del cambiamento.
Copertina dell'edizione in abbinamento al quotidiano La Repubblica

29 ottobre 2018

Sui sentieri della storia: il castello di Capaccio Vecchio

Affrontare il sentiero che attraversa i boschi del monte Calpazio per raggiungere i ruderi del castello di Capaccio Vecchio, nel Cilento, significa immergersi negli scenari di uno degli eventi più importanti della storia del Mezzogiorno: la cosiddetta “congiura di Capaccio”. Senza voler entrare nel merito di un avvenimento così complesso, basti sapere che nel 1246 alcuni tra i principali notabili del Regno ordirono una congiura per uccidere l’imperatore Federico II di Svevia e suo figlio Enzo. Grazie ad alcuni fedelissimi, l’imperatore scoprì la cospirazione e i rivoltosi furono costretti a rifugiarsi nel castello di Capaccio, ritenuto inespugnabile. La fortezza fu cinta d'assedio per tre lunghi mesi dalle truppe di Federico II, fin quando capitolò nel luglio del 1246 per mancanza di approvvigionamenti. La punizione inflitta ai congiurati fu crudele e commisurata alla colpa di cui si erano macchiati. Avendo tentato di uccidere il sovrano, vennero considerati alla stregua di parricidi e condannati secondo la lex Pompeia, che prevedeva orrende mutilazioni e l’introduzione del condannato in sacchi di cuoio da gettare in mare. Per chi volesse approfondire l’argomento, consiglio la lettura di un esauriente articolo sul sito dell’Istituto Enciclopedico Treccani.
A completamento della damnatio memoriae, l’imperatore ordinò anche la distruzione del castello e dell’abitato di Capaccio Vecchio, all’epoca sede vescovile. La fortezza non venne però rasa al suolo e continuò ad essere utilizzata nei secoli successivi, anche come carcere, per cadere infine nell’oblio. Oggi di quel grandioso passato rimangono pochi resti che resistono strenuamente agli anni, sufficienti però a farci comprendere l’importanza del sito. Da un lato, i ruderi dominano la piana del Sele, consentendo di godere, nei giorni sereni, di uno straordinario panorama. D’altro canto, la difficile accessibilità del sito conferma la fama di inespugnabilità che il castello si era conquistato nel glorioso passato. Raggiungere quel che resta del maniero non è più complicato come un tempo, grazie ad un sentiero piuttosto agevole anche per chi non pratica escursionismo.
Il punto di partenza è il Santuario della Madonna del Granato, da cui inizia la strada asfaltata che conduce alla frazione di Crispi. Poco prima di arrivare al piccolo centro abitato, si raggiunge uno slargo con una fontana, dove è possibile lasciare le automobili. Da qui parte un sentiero che si inerpica lungo le pendici del monte Calpazio. Il percorso è largo e ben tracciato, leggermente faticoso nel primo tratto. Superata la salita, si può sostare in un punto panoramico che domina la valle del Sele; il castello è visibile sulla destra, abbarbicato alle rocce. È sufficiente un altro quarto d’ora per raggiungerlo. In tutto, il percorso dovrebbe essere coperto in meno di un’ora. Il maniero è in gran parte diruto; sopravvivono, avviluppate dalla macchia mediterranea, due robuste torri e il muro di cinta. Degli spazi interni, invece, si può avere solo una vaga idea. L’escursione è piacevole e adatta a tutti, ma soprattutto consente di immergersi nella natura e di conoscere un pezzo importante di storia d’Italia.
Ringrazio Sara Nigro per le fotografie che seguono.
Il primo tratto del sentiero
La splendida vista della Piana del Sele
Il maniero come appare da lontano
I ruderi del castello

14 ottobre 2018

"Le menzogne della notte" di Gesualdo Bufalino: l’inestricabile garbuglio del reale

Tra i diversi titoli che Bufalino aveva pensato per questo romanzo, prima di prediligere Le menzogne della notte, uno in particolare lo aveva a lungo tentato, senza riuscire però a sedurlo. Qui pro quo era il titolo provvisorio, che a ben vedere si adattava ai temi più profondi del romanzo: l’equivoco, il nascondimento della verità, la perfetta sovrapponibilità tra sincerità e menzogna.
In un’isola-carcere del Mediterraneo quattro condannati a morte trascorrono l’ultima notte prima dell’esecuzione. Un poeta, un nobiluomo, un soldato e uno studente, rei confessi di lesa maestà e attentato contro la vita del Sovrano, sodali di una setta liberale e carbonara guidata da un misterioso burattinaio che si fa chiamare Padreterno. Il governatore del penitenziario, consapevole che l’esecuzione dei quattro non sarà sufficiente per estirpare il seme ribelle dal Regno, fa loro una proposta conveniente: la rivelazione dell’identità del Padreterno in cambio della vita. Il tradimento di un solo anonimo sarà sufficiente per graziare tutti dalla forca. Le coordinate spazio-temporali non sono individuate con certezza, ma sono perfettamente intuibili: il Regno delle Due Sicilie negli ultimi anni di Ferdinando II. Il carcere potrebbe essere quello dell’Isola di Santo Stefano, effettivamente destinato ai detenuti politici.
L’attesa della fine (o dell'infame salvezza) viene ingannata dai quattro concedendosi un’ora di tempo ciascuno per raccontare l’episodio più significativo della propria vita, il momento di perfetta felicità che li lasci morire senza rimpianti. L’espediente del racconto è ovviamente ispirato al Decamerone, che pure presenta dei personaggi in pericolo di vita che trovano nella narrazione un rifugio al male che li circonda. Come tuttavia osservato dallo stesso Bufalino, la differenza con l’opera di Boccaccio sta nel fatto che ne Le menzogne della notte la vicenda che fa da cornice alle storie è una «cornice forte, cornice fiume coi racconti come affluenti».
Tema centrale, come ho anticipato, è la perfetta sostituibilità del vero e del falso, che finiscono per avere il medesimo valore, essendo finanche intercambiabili. Il raccontare ha così la duplice valenza dell’intima confessione e dell’estremo tentativo di falsificare le carte per tentare un ultimo scacco al potere. La prossima decapitazione dovrebbe indurre i protagonisti a non nascondere nulla, non avendo un moribondo interesse o guadagno da una menzogna. E invece le ultime pagine rovesciano completamente la prospettiva, mettendo in discussione quanto oramai si dava per certo e assodato. La stessa causa liberale è controversa, tanto che non si comprende quale sia il confine, nell’agire dei congiurati, tra l’ideale e l’opportunismo, tra il martirio e la giusta condanna. Sceverando il bianco e il nero nell’animo dei protagonisti, si scoprono motivazioni personali futili e spesso bieche, camuffate da sete di giustizia sociale per un sottile gioco di ambiguità. Vale la pena precisare che nessuna retorica risorgimentale anima il libro, poiché il tema centrale è di portata universale e avrebbe potuto essere affrontato a qualsiasi latitudine o epoca storica. Difatti a Bufalino non interessa chiarire se i suoi personaggi siano eroi o ciarlatani: le loro vicende sono funzionali a rivelare il garbuglio del reale, e tanto basta.
Due parole sullo stile, che, come in tutti i romanzi dello scrittore siciliano, è colto e ricercato. L’autore gioca con parole rare, desuete o arcaiche; se ne potrebbe agevolmente riempire un quaderno per arricchire il nostro povero lessico quotidiano. Inoltre il testo è disseminato di citazioni storiche e letterarie, nonché di rimandi ad altre opere. A solo titolo di esempio, si pensi ad Agesilao, il nome scelto per il personaggio del soldato, sicuramente ispirato a quell’Agesilao Milano, militare anch’egli, che nel 1856 attentò alla vita di Ferdinando II.
Il libro, definito dallo stesso autore «fantasia storica, giallo metafisico e moralità leggendaria», si è aggiudicato il Premio Strega nel 1988.

2 ottobre 2018

Lo sguardo impietoso di Ken Loach e la famiglia come "istituzione totale"

Basta guardare i primi fotogrammi di Family life (1971) del regista britannico Ken Loach per comprendere l’essenza più profonda del film, ovvero la feroce critica alla media borghesia inglese e alla sua standardizzata way of life. La telecamera indugia sulle case a schiera di un quartiere residenziale, tutte perfettamente identiche. Lo sguardo si sposta da una strada all’altra: ovunque file di abitazioni indistinguibili, di mattoni rossi o grigi. Dentro le case, facile immaginarlo, migliaia di esistenze tutte uguali si arrabattano giorno dopo giorno nella pudica anestesia del benessere borghese.
Janice ha poco più di vent’anni e proviene da una di queste periferie. I genitori sono la quintessenza del conformismo, lo specchio di una società che ha sacrificato le individualità ad un apparente benessere collettivo, che tende ad emarginare ogni diversità, ad annichilire ogni tentativo di uscire dal cerchio. Una società all’apparenza tollerante, ma che in realtà esclude e segrega chiunque appaia diverso: psicolabili, omosessuali, ribelli, artisti, sognatori. Il primo, terribile strumento di cui il sistema si serve, è proprio la famiglia, che Loach dipinge coi toni claustrofobici di un’istituzione totale. La repressione dell’individualità non avviene però, lo si badi bene, attraverso la violenza fisica, quanto piuttosto mediante l’imposizione di divieti e regole morali che portano chiunque voglia divergere a sentirsi colpevole, sbagliato, fuori controllo. Janice è praticamente privata di ogni facoltà decisionale: è la madre a pensare per lei, a sapere cosa le faccia bene e cosa male. Il disagio psichico, già latente, esplode quando la ragazza rimane incinta ed è costretta dai genitori ad abortire per salvare l’onore della famiglia, compromesso da una gravidanza al di fuori del matrimonio. Janice avrebbe voluto tenere il bambino e lo shock per un’imposizione così tremenda le scatena una crisi che la condurrà ad un ricovero in clinica psichiatrica. Le cose sembrano migliorare grazie all’innovativo approccio del dottor Donaldson, che si oppone alla psichiatria tradizionale e vuole curare i pazienti con il dialogo e il confronto. Egli comprende l’origine sociale e familiare del disturbo di Janice, ma proprio quando sta per raccogliere i primi frutti viene esonerato dall’incarico per mancanza di fondi. Orfana dell’unico in grado di comprenderla, Janice è affidata alla psichiatria tradizionale, che cura i sintomi ma non indaga le cause. Imbottita di farmaci e sottoposta persino all’elettroshock, scivola progressivamente verso uno stato catatonico, che le nega identità, gioventù, sogni e felicità.
Il lungometraggio è una critica feroce alla vecchia concezione della psichiatria, la “buona battaglia” che in Italia ha trovato in Basaglia il più importante promotore. Loach è chiaro e non accetta compromessi: il manicomio è un’istituzione totale, un campo di concentramento senza scampo, che annulla l’individuo anziché orientarne i comportamenti in senso terapeutico. Nell’ospedale psichiatrico si ripetono riti e ossessioni della famiglia borghese, in primis la condanna dell’eros, tanto che non si comprende se sia più castrante il primo o la seconda. E alla fine si compie un terribile paradosso: mentre lo psichiatra illuminato Donaldson ha compreso quanto il germe della follia possa insidiarsi proprio nelle famiglie apparentemente “perfette”, la psichiatria ufficiale nega la connessione tra malattia e ambiente sociale, usando come dimostrazione il caso di Janice, schizofrenica nonostante sia nata e cresciuta in una “famiglia bene”.
Family life è un pugno nello stomaco e un colpo al cuore. Loach, al terzo lungometraggio, già imposta i caratteri del suo stile: predominano i toni scuri, ad accentuare il senso di oppressione e disagio che la visione della pellicola provoca nello spettatore. Sicuramente si è portati ad immedesimarsi in Janice, la prima e più dolorosa martire del sistema; ma in fondo anche i genitori meritano la nostra pietà, carnefici inconsapevoli e vittime di un amore malato. In questo universo di chiusura e lacerazione, pochissime figure brillano. Certamente lo psichiatra innovatore Donaldson, che viene però emarginato dalla comunità scientifica per la eterodossia dei suoi metodi. Infine c’è il fidanzato di Janice, Tim, che tenta invano di aprirle gli occhi e di sottrarla al futuro che le è stato riservato. E voglio chiudere proprio con le sue profetiche parole, pronunciate in uno dei momenti più toccanti del film.
«Ecco cosa piace a tuo padre e a tua madre. Guarda. Squallore e convenzionalismo. Fa come ti dicono e ridurranno così anche te. Questa è la norma, ma resta da provare che sia anche giusto. Per me non lo è. Tutti in fila e ognuno al suo posto. Così è più facile scattare per correre ogni giorno al lavoro in fabbrica. Questo si chiama norma. Questo è il mondo e queste sono le famiglie: un campo di concentramento. Ecco il posto che hanno scelto per te nel mondo, un mondo dove non potrai cambiare niente, dare a niente la tua impronta.»

Il regista Ken Loach e l’attrice Sandy Ratcliff, che interpreta Janice. 
Foto di scena tratta dal sito https://www.critikat.com/ 

21 settembre 2018

Quando più della musica poté la copertina

Con gli anni è cambiato decisamente il modo di acquistare i dischi. L’avvento di internet ha semplificato le cose, annullando tuttavia la magia e l’ansia della scoperta che provavo quando portavo a casa un album solo perché mi aveva ispirato la copertina, senza sapere nulla del gruppo o del genere suonato. Lo smartphone consente di sapere tutto in pochi secondi: se ti imbatti in un disco sconosciuto, basta digitarne gli estremi su Google o Discogs per avere giudizi, recensioni e tutte le informazioni di cui hai bisogno. Prima non era così; se non avevo già programmato un acquisto, spesso mi affidavo al fiuto, o meglio alla vista. Sono molti i dischi che ho comprato perché ispirato dalla copertina. A volte si è trattato di una piacevole rivelazione, altre un fallimento. Questi sono i casi a cui sono più legato.
Affinity – Affinity – 1970
Anche a distanza di anni, la meravigliosa copertina apribile del primo, omonimo e unico LP degli Affinity mantiene la medesima suggestione che mi spinse a comprarlo. Non avevo mai sentito parlare di questo gruppo minore della scena prog-jazz inglese degli anni Settanta, ma rimasi praticamente folgorato dall’immagine di copertina. Ritrae uno scorcio autunnale di campagna inglese, di una bellezza placida e malinconica. Una ragazza (forse la cantante Linda Hoyle?) è seduta in primo piano sul bordo di uno stagno, in atteggiamento cogitabondo e con un ombrellino cinese a proteggerla dalla pioggia sottile. Non vediamo il suo viso, non sappiamo se piange o è semplicemente assorta. Dispiegando l’immagine completa, appaiono a sorpresa due cigni che beccheggiano placidamente nell’acqua, attenuando il senso di solitudine che la scena ispira. Pura poesia.
[I credits riportano “Album designed and photographed by Sandy Field and Keef”]

Biglietto per l’inferno – Live 1974 – 2003
Avevo diciannove anni e non so dire se a colpirmi fu più l’immagine o il nome del gruppo. All’epoca mi sembrava strano che una band nostrana avesse avuto l’ardire di chiamarsi Biglietto per l’inferno. Doveva trattarsi di qualcosa di particolare, a giudicare anche dalla foto di copertina, uno scatto rubato durante un concerto, dal retro del palco. È un’immagine di spontanea immediatezza, che restituisce il clima di un’epoca purtroppo lontana, l’età d’oro del progressive nostrano. Una forte luce dal fondo nasconde il pubblico e illumina due membri del gruppo. In primo piano il tastierista, impegnato al sintetizzatore. Oltre un intrico di cavi si intravede la batteria, mentre sulla destra c’è il cantante Claudio Canali, seduto sopra una bassa seggiola. Niente lustrini o effetti speciali: solo musica e sudore.
[I credits non riportano l’autore della fotografia]

Japan – Tin drum – 1981
I Japan li conoscevo superficialmente per averne ascoltato qualcosa alla radio. Il loro synth pop non mi aveva entusiasmato, così come lo stile dell’efebico David Sylvian. Quando però mi sono imbattuto nella copertina di Tin drum ho accantonato le prime superficiali impressioni e ho acquistato il disco. Si tratta di un’immagine evocativa, perfetta nella sua costruzione. Un azzimato e platinato Sylvian è seduto al povero desco di una casa della campagna cinese. Una nuda lampadina illumina debolmente lo spazio, evidenziando gli altri oggetti: una scodella di riso, un tipico cappello a cono di paglia, il Libretto Rosso, pochi essenziali utensili. Appesa malamente al muro, un’immagine del Grande Timoniere Mao sorveglia la scena, conferendole un senso straniante di paradossale solennità e mestizia. Resta aperta la domanda: cosa ci fa un occidentale vestito di tutto punto, per giunta a capo di un gruppo chiamato Japan, a mangiare riso con le bacchette in una misera casupola cinese, guardato a vista da Mao? Uno straordinario gioco degli opposti, che stupisce e incuriosisce.
[I credits riportano “Cover concept D. Sylvian, Design Steve Joule, Photography Fin Costello”]

Rare Earth – The collection – 2004
Avete presente quei cestoni negli ipermercati pieni di cd in ordine sparso, buttati confusamente come se fossero stati rovesciati da un tir in corsa? Difficile trovare qualcosa di decente, ma vale sempre la pena dare un’occhiata distratta. La roba buona viene fuori da sé, magari rimestando con violenza senza farsi vedere dai commessi. Così ho trovato questa compilation dei Rare Earth, spinto da una copertina forse non bellissima, ma sicuramente curiosa. Si tratta di una soluzione grafica di matrice folk, con le teste dei sei membri del gruppo che spuntano dalle radici di un grosso tronco. Può piacere o meno, ma a me ha dato un’impressione esoterica, di un gruppo ancestrale e misterioso. L’ascolto del disco ha mutato la prima idea, in quanto i Rare Earth erano una validissima band di soul bianco sotto contratto con la Motown. In ogni caso, una piacevole scoperta casuale.
[I credits non riportano l’autore del disegno di copertina]

Solid Senders – Solid senders – 1978
Obiettivamente non è una copertina “bella”, nè originale o suggestiva. Un livido sfondo da periferia industriale e la band in primo piano. Eppure mi ha colpito perché l'unico e omonimo LP dei Solid Senders era buttato alla rinfusa in uno scatolone di dischi usati pieno di ciarpame, soprattutto dance e pop di bassa lega. Questo disco era invece diverso da tutti gli altri, mi ricordava vagamente Marquee moon dei Television. L’ho dunque acquistato alla cieca, senza avere la più pallida idea di chi fosse il chitarrista e leader Wilko Johnson, che dalla copertina ti fissa con uno sguardo folle di sfida e un atteggiamento tra il serio e il minaccioso, una sorta di Tom Verlaine meno emaciato e più incazzato.
[I credits riportano “Sleeve design Andrew Judd”]

10 settembre 2018

La probabile origine etrusca del nome "Cilento"

Lo studio dei toponimi può offrire preziose informazioni sulle origini e le vicende storiche di un territorio. Il ricercatore Fabio Astone, dell’Università di Salerno, ha pubblicato nel 2012 sulla rivista Annali Storici di Principato Citra (X, 1, pp. 5 ss.) un interessante saggio sul significato del nome Cilento, intitolato «Alle origini del toponimo Cilento: la fondazione di Poseidonia ed i Tirreni-Etruschi del golfo di Salerno. Riflessioni ed ipotesi».
Il saggio, sulla base di lunghe ricerche archeologiche e con il supporto di una corposa bibliografia, sostiene la tesi dell’origine etrusca del nome Cilento. L’Autore parte da due considerazioni. In primo luogo, evidenzia che il toponimo Cilento comparve per la prima volta nel corso del Medioevo, in un documento amministrativo del 1134 noto come Actus Cilenti, oggi conservato presso la Badia di Cava. In precedenza, la regione era conosciuta come Lucania (minor), né risulta che il termine Cilento sia mai stato utilizzato da Greci, Romani o Italici. In secondo luogo, l’Autore, richiamando una tesi già esposta dal professor Aversano, afferma che la tradizionale ricostruzione etimologica del nome, che deriverebbe da cis-Alentum, ovvero “al di qua dell’Alento”, non appare del tutto soddisfacente, in quanto non sufficientemente specifica.
Sulla base di queste premesse, Fabio Astone dedica la parte centrale del saggio allo studio della presenza etrusca nel territorio cilentano. Viene così offerta un’ampia ricostruzione, suffragata da riferimenti storici, letterari ed archeologici, tesa a dimostrare che non solo gli Etruschi si spinsero anche a sud del fiume Sele, ma che sarebbe attestata la loro presenza persino a Paestum e Velia. In particolare, per quanto riguarda Poseidonia, molti sono gli elementi culturali e materiali di tipo tirrenico, che addirittura farebbero pensare che all’origine della polis vi fossero accordi tra i Sibariti, che secondo la tesi più accreditata avrebbero fondato la città, e i potenti Etruschi che occupavano la zona più a nord, corrispondente all’attuale Pontecagnano. Scrive infatti l’Autore che «allo sbocco dei ricchi itinerari commerciali che dalle valli fluviali dell’Enotria interna giungevano al centro della feracissima pianura attraversata dal Sele, i Sibariti, forse in ossequio ad accordi che, come ipotizzato, dovevano aver raggiunto con i potenti partner etruschi di Pontecagnano, riuscirono, finalmente, a fondare Poseidonia». L’Autore si diffonde sulle testimonianze etrusche rinvenibili nella città di Paestum, quali il cd. “sacello ipogeico”, oppure la celeberrima “Tomba del tuffatore”, che secondo alcuni studiosi non costituirebbe l’unica superstite della pittura greca, ma «l’esito più meridionale della diffusa, notissima pittura funeraria etrusca».
Nella parte finale del saggio, sulla base di tutte le premesse esposte, viene dunque ipotizzata l’origine etrusca del toponimo Cilento, al pari di molte altre località dell’Italia meridionale, campane in particolare. L’Autore concentra la propria attenzione su uno dei più celebri reperti dell’età etrusca, il c.d. “fegato di Piacenza”. Si tratta di una lastra di bronzo che riproduce il fegato di una pecora, suddivisa in più parti con i nomi di varie divinità incisi; si pensa che l’oggetto venisse utilizzato dai sacerdoti per finalità divinatorie. Il modello riporta per ben tre volte il nome Cilens, un’importante divinità etrusca. Conclude dunque Fabio Astone che «è interessante evidenziare l'immediata analogia che si coglie tra il nome della divinità etrusca Cilens ed il toponimo Cilento. Una suggestione fonologica che poteva restare solamente tale, tout court; l'insieme delle argomentazioni fin qui affrontate ha però creato le condizioni per avanzare possibili ipotesi. Si tratta di riflessioni che, oltre ad essere supportate dalle odierne conoscenze relative agli antichi contatti tra i Tirreni e le terre a sud del Sele, trovano, ad esempio, ulteriori, indicativi spunti nella denominazione attuale di alcune macroaree. La geografia degli Etruschi ha condizionato gran parte dell’Italia antica, ed ancora oggi se ne serba il ricordo: il mare Adriatico prende il nome dalla città etrusca di Adria, ed il mare Tirreno è così detto perché Tirreni erano chiamati gli Etruschi dai Greci». È allora possibile ipotizzare che il nome Cilento abbia un’origine tirrenico-etrusca, rispondente al nome di un’antica divinità, che certamente doveva essere centrale nel pantheon etrusco, al punto da venire riportata su un oggetto divinatorio quale il c.d. “fegato di Piacenza”.
Consiglio a tutti di leggere il saggio, disponibile anche in rete, in quanto di sicuro interesse per molte ragioni, prima di tutto per lo stile scorrevole e coinvolgente con cui è scritto.
Il c.d. "Fegato di Piacenza" (immagine tratta da commons.wikimedia.org, autore Lokilech)

29 agosto 2018

"Il gruppo" di Joseph O’Connor: solo una sporca storia di rock and roll

Le storie di rock and roll, inutile nasconderlo, possiedono sempre un certo fascino. La sete di aneddoti sulla vita dei musicisti è tale da sconfinare nel feticismo. Sarà che è diffusa la convinzione che le rockstar siano tali anche giù dal palco, nel quotidiano che si pensa non possa essere banale come quello di noi comuni mortali. “Iggy Pop è sempre Iggy Pop, anche quando si gratta le palle”, diceva un mio amico, riassumendo efficacemente il concetto.
Lo scrittore irlandese Joseph O’Connor ha trasformato questa passione in un avvincente romanzo. Ha inventato un gruppo, gli Ships in the night, e ne ha raccontato l’ascesa e la caduta. Questa, in sintesi, la trama. I quattro musicisti, Rob, Fran, Sean e Trez, partono dalla modesta periferia di Luton, per scalare le classifiche mondiali vendendo milioni di dischi. La vicenda è di fantasia, ma O’Connor è riuscito a darle verosimiglianza, soprattutto per aver miscelato sapientemente i personaggi inventati con quelli reali: Patti Smith, John Peel, Elvis Costello e altri fanno infatti capolino tra le pagine. Il libro può essere letto secondo una duplice prospettiva. Da un lato, è una rievocazione dell’Inghilterra thatcheriana degli anni Ottanta, stremata dalle lotte di classe e dalla mai risolta questione irlandese. D’altro canto, è una sorta di antologia del rock britannico di quegli anni gloriosi. La storia degli Ships è simile a quella di una miriade di gruppi del periodo post-punk, famosi o sconosciuti. O’Connor ricostruisce umori e suoni della grande stagione della new wave inglese, riprendendone inquietudini e riti ad uso di chi non ha avuto la fortuna di viverla.
La lenta scalata al successo degli Ships e la repentina caduta sono i temi centrali del libro, che non a torto è stato inquadrato nel genere dei romanzi di formazione. E in effetti O’Connor non si dilunga tanto sulla descrizione della fase finale della band, quella del successo. La parte più luminosa della carriera del gruppo viene liquidata in poche pagine, poiché all’autore interessa soprattutto indagare il percorso umano ed esistenziale dei personaggi, la loro crescita emotiva e professionale. Ma Il gruppo è anche una commovente storia di amicizia e redenzione, un’invettiva contro la seduzione del denaro e la spietatezza del mercato discografico, nonché un ammonimento sulla pericolosità del successo, capace di alterare gli equilibri delle persone più fragili.
La psicologia dei personaggi è sufficientemente approfondita, anche se alcuni passaggi risultano un po’ frettolosi. Si pensi a Fran, l’ambiguo e carismatico leader degli Ships, una sorta di icona glam punk a mezza strada tra Bowie e Morrissey. O’Connor è abilissimo nel tratteggiarne la personalità nella prima parte del volume, quella dell’inquieta adolescenza; il successivo profondo cambiamento, che porterà il cantante a scelte dolorose e discutibili, non è invece analizzato con la perizia che sarebbe stata necessaria.
Il gruppo è una lettura piacevole e agevole, ma ritengo non sia adatta a tutti. I romanzi che parlano di musica condividono la medesima sorte, ovvero di essere apprezzati soprattutto dagli appassionati, gli unici in grado di cogliere i tanti riferimenti a gruppi o dischi disseminati qui e lì. Ne consiglio pertanto la lettura a chi ha amato la new wave inglese o a chi, più semplicemente, si è immedesimato almeno una volta nelle vicende dei propri beniamini fino a volerne incarnare le sorti.

18 agosto 2018

Roscigno Vecchia, il paese abbandonato e i ricordi di un mondo che non c'è più

Sono tanti i villaggi abbandonati disseminati lungo lo Stivale. Alcuni sono stati lasciati dagli abitanti per cause naturali, come frane, inondazioni, alluvioni o terremoti; altri, invece, hanno subito eventi umani quali guerre, invasioni o decisioni d’imperio delle autorità. Roscigno, nel Cilento, rientra nella prima ipotesi. Costruito sul margine di una frana attiva, nei secoli è stato riedificato in due occasioni, fino al definitivo e graduale abbandono dopo l’ultima Guerra Mondiale. Il paese nuovo è stato ricostruito a circa un chilometro di distanza dall’antico centro storico, a cui è stato poi attribuito il nome di Roscigno Vecchia. Negli anni molte abitazioni sono crollate e altre hanno subito pesanti lesioni, eppure “il paese che cammina” (altresì detto la “Pompei del Novecento”) è ancora lì ad accogliere visitatori e curiosi.
Come tutti i luoghi abbandonati, anche Roscigno Vecchia ha un fascino particolare e straniante, ma soprattutto mantiene intatta la propria identità di borgo rurale del Mezzogiorno. Arrivare nel villaggio significa avere la possibilità di immergersi, sia pure per pochi minuti, in un mondo contadino che non esiste più. Tutto è rimasto com’era: la piazza con la fontana e gli abbeveratoi per gli animali, le case dalle imposte in legno e i muri scrostati raccolte in crocchio intorno alla chiesa di San Nicola, il vecchio cimitero, il pergolato del Bar Roma con l’insegna che riporta l’anno 1946, la bottega del ciabattino, le stalle e le stanze misere in cui vivevano famiglie numerose. Uno sguardo più attento potrà poi riconoscere i portali decorati dei palazzetti nobiliari e ciò che rimane delle cappelle private con le nicchie per le statue.
Per ragioni di sicurezza quasi tutte le abitazioni sono chiuse, ma a proprio rischio e pericolo è comunque possibile intrufolarsi in qualche casa e camminare sui solai retti da vecchie travi che si piegano al passaggio degli ospiti.
Più delle parole, sono le immagini a rendere l’idea dell'amenità del luogo.
 Scorcio della piazza (in fondo, la chiesa dedicata a San Nicola)
 Altro scorcio della piazza
 Una via del paese
 Interno della chiesa di San Nicola, con il soffitto ligneo dipinto
 Facciata della chiesa del villaggio
 La via principale, con gli abbeveratoi per gli animali
 Case dirute
 L'ingresso del Bar Roma
 Una via del paese, con un palazzetto nobiliare sulla destra
 Altro scorcio della piazza
Case abbandonate sul margine della frana

8 agosto 2018

Gino D’Eliso, un rocker italiano tra santi ed eroi

Non si può negare che il successo segua sovente strade imprevedibili. Certo, il talento e la fortuna rivestono un ruolo decisivo, ma non sono gli unici elementi in gioco. In un Paese dalle molte periferie qual è l’Italia, nascere ed esprimersi artisticamente al di fuori dei grandi centri può essere un handicap; se poi la proposta musicale è pure atipica, raggiungere il grande pubblico diventa una chimera. Questo è successo a Gino D’Eliso, chitarrista e cantautore nato a Trieste nel 1951. Un rocker nostrano con quattro LP all'attivo: Il mare (1976), Ti ricordi Vienna? (1977, con echi new-wave), Santi ed eroi (1979) e l’ultimo Cattivi pensieri (1983).
Il terzo disco, Santi ed eroi, fu pubblicato dall’etichetta sussidiaria della Philips, la Phonogram, nel 1979. Accattivante la copertina in stile fumettistico, con l'artista in primo piano in posa da duro, chitarra elettrica bianca e sigaretta tra le dita. A leggere i crediti c’è da rimanere stupiti della qualità dei musicisti coinvolti, a dimostrazione della stima di cui godeva il bravo cantante triestino. Il disco si avvale della collaborazione di musicisti di primissimo piano della scena rock italiana degli anni Settanta: Walter Calloni alla batteria, Claudio Dentes alla chitarra, Paolo Donnarumma e Bob Callero al basso, Tony Soranno alle chitarre elettriche, Claudio Pascoli ai fiati, nonché il grande Lucio “Violino” Fabbri. Stiamo parlando di musicisti sopraffini, gente che suonava con artisti del calibro di PFM, Area, Fossati, Finardi, Camerini, Daniele, De Andrè, Battisti, Dalla, Stratos, Bennato. Secondo le parole dello stesso D'Eliso, il disco venne suonato in un festoso «clima da jam session», cosa di cui non dubitiamo data la straordinaria qualità degli strumentisti.
Santi ed eroi è un lavoro originale e interessante, tuttavia di difficile classificazione. Già dai primi solchi emergono i punti di riferimento di D’Eliso, che sono in egual misura la canzone italiana e il rock and roll americano, entrambi filtrati attraverso una sensibilità mediterranea e balcanica, tipica di una Trieste crocevia di identità e culture differenti. Una musica in continua evoluzione e in cerca di una definizione, che lo stesso artista chiamerà poi mitteleurock, come il titolo di un singolo pubblicato nel 1980.
Il lato A è decisamente ispirato e vario. I due pezzi forti sono marcatamente rock, con le chitarre elettriche in evidenza: la pimpante Quelli più belli e l’inno ribelle L’età migliore. Altrettanto efficaci e intriganti sono L’ora del tè e Iole antica Iole, che ricorda un po’ lo stile di Ivan Graziani, mentre La notte si esalta in un azzeccato ritornello. I cinque brani mostrano i vari volti di un artista originale e non classificabile, che sapeva passare con eguale disinvoltura dalla rock song alla canzone d’autore.
La seconda facciata inizia con la riflessiva Come sempre primavera, all’epoca lanciata come singolo. La canzone che dà il titolo all’album, Santi ed eroi, si apre con ritmi balcanici, per poi espandersi in un efficace riff di chitarra elettrica. Ricordi di vita triestina emergono invece nella commovente Povera gente, nella ironica Capitan Domenico, nonché nella riflessiva Casa mia (Cuĉa moja).
Non bisogna farsi ingannare dal fatto che in pochi ricordino l’artista triestino: Santi ed eroi è davvero un bel disco, suonato bene e con testi sopra la media. In un panorama piuttosto desolante quanto a rocker nostrani, Gino D’Eliso avrebbe meritato molto più spazio. Se riuscite, procuratevi questo 33 giri o il successivo Cattivi pensieri.
La copertina di Santi ed eroi e il retro del 33 giri