25 gennaio 2018

"Io, Daniel Blake" sono un uomo, non un numero

Ancora prima di guardare un qualsiasi film di Ken Loach si può star certi che vi troveremo una parte di noi. Il regista inglese è da sempre il cantore della contemporaneità cruda e priva di poesia, raccontata attraverso uno stile asciutto, quasi documentaristico, che lascia allo spettatore ogni giudizio. Anche Io, Daniel Blake è un film di impegno civile e denuncia, ma ancora una volta Loach non fa propaganda, non si nasconde dietro il colore di una bandiera, ma sbatte in faccia i fatti così come sono, senza amplificarli o edulcorarli, lasciando che il messaggio passi da solo. Emblematica in tal senso la scelta di attori esordienti e non professionisti. Il film è stato premiato dalla critica, ottenendo diversi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui la Palma d’oro al Festival di Cannes 2016.
Daniel Blake è un sessantenne che ha un solo desiderio: vedere riconosciuti i propri diritti ed essere trattato come uomo e non come numero. Rimasto vedovo dopo la morte della moglie, continua a svolgere la professione di carpentiere finché un infarto non lo obbliga al riposo forzato. È dunque costretto a rivolgersi agli istituti di previdenza sociale per avere un sostentamento economico, scontrandosi per la prima volta con il muro di gomma della burocrazia. Loach racconta il gioco kafkiano del paradosso: Daniel non può lavorare, ma deve fingere di cercare un lavoro per ottenere il sussidio di disoccupazione; al tempo stesso, però, non può farsi assumere, per non perdere la possibilità di vedersi riconosciuta l'indennità di malattia. La pellicola ruota intorno a questo contrasto: è evidente a tutti che Daniel ha diritto ad un sussidio, ma la burocrazia è sorda ai suoi bisogni e rigetta le sue legittime domande per ogni cavillo. Parole come “protocollo”, “ricorso” e “procedura” finiscono per avere la meglio sulle necessità umane. In attesa di ricevere un sussidio che sembra non arrivare mai, Daniel scivola lentamente nel bisogno. L’inedita condizione di “povero” gli fa conoscere Katie, una ragazza madre vittima a sua volta delle aberrazioni della pubblica amministrazione. Pur di non perdere un alloggio popolare, Katie è stata costretta ad accettarlo a centinaia di chilometri di distanza dalla propria città natale. Si ritrova così sola e senza lavoro in una periferia ostile dove non conosce nessuno. Tra Daniel e Katie nasce un’insolita amicizia fatta di sostegno reciproco, l’unica luce di speranza di tutta la pellicola.
Quella di Daniel e Katie è dunque la tragedia dell’uomo comune schiacciato da un’amministrazione pubblica che non comprende le sue necessità, diventando nemica del cittadino che dovrebbe tutelare. Il tema non è nuovo nella letteratura e nel cinema, ma Loach vuole raccontare la stretta attualità di una classe media sempre più impoverita, ridotta al collasso da una crisi che ha aumentato il divario ricchi e (sempre più) poveri. Daniel Blake non è un ultimo o un disadattato: ha una casa, una vita tranquilla e un lavoro. La malattia e la burocrazia lo costringono però a vendere il mobilio pur di andare avanti. Allo stesso modo, Katie non viene dalla miseria: quando però è costretta a lasciare Londra perché le è stato assegnato un alloggio popolare a Newcastle, il suo mondo di certezze si sgretola, riducendola alla fame.  
«Questa è la situazione della civile Inghilterra e più in generale della civile Europa» ha affermato il regista in un’intervista. In effetti, il film non è solo il racconto della fine del welfare state, ma l’impietosa radiografia di un tradimento, quello che lo Stato ha consumato a danno dei propri cittadini. Ken Loach si dimostra ancora una volta vincente, perché il film coinvolge e fa arrabbiare, per poi commuovere fino alle lacrime. Il messaggio passa forte e chiaro: non siamo numeri e neppure utenti o cittadini di Sua Maestà, ma prima di tutto uomini e donne. La soluzione non è però fare la rivoluzione; lo stesso Daniel, cittadino modello, si ritrova suo malgrado rivoluzionario, ma senza alcun beneficio pratico. L’unica soluzione è il vincolo della solidarietà umana, un legame tra simili che nasce dal bisogno, per poi trasformarsi in un nuovo umanesimo. Serve un pensiero che metta al centro l’uomo e le sue necessità, sembra dirci Ken Loach. Ma un pensiero non è sufficiente, deve diventare pratica concreta, in primis dei Governi europei.
«Non sono un consumatore, né un utente, né un cliente, non sono un lavativo, né un parassita, né un mendicante, né un ladro. Non sono un numero di previdenza sociale o un puntino su uno schermo. […] Non accetto e non chiedo elemosina. Mi chiamo Daniel Blake, sono un uomo, non un cane. Come tale, esigo i miei diritti, esigo di essere trattato con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino; niente di più, niente di meno.»
(estratto della lettera di Daniel Blake all'Istituto di previdenza sociale)
La locandina italiana del film

13 gennaio 2018

In memoria di Pat Di Nizio: gli anni verdi di "Green thoughts"

Pat Di Nizio (1955 – 2017) se n’è andato troppo presto, a dicembre, a causa dei tanti problemi di salute che lo tormentavano da anni. Era il cantante, chitarrista e leader degli Smithereens, formazione power pop che avevo scoperto da poco, ma che era riuscita subito a conquistarmi. Come avevo scritto in un precedente articolo, si tratta di un gruppo di piccolo culto, che ha continuato per oltre trent’anni a girare in tour nella formazione originaria composta da Pat Di Nizio (voce e chitarra), Jim Babjak (chitarra), Dennis Diken (batteria) e Mike Mesaros (basso). Il Dizionario del pop-rock di Tonti e Gentile ricorda che gli Smithereens, «da cover band con un amore particolare per il beat inglese e il R’n’R classico americano», sono poi diventati uno dei principali gruppi di power pop, sfornando una serie impressionante di validi singoli, come Behind the wall of sleep, Blood and roses, Strangers when we meet, Lonely room, House we used to live in, Drown in my own tears e altri. Da ricordare specialmente i primi lavori: l’EP di esordio Beauty and sadness (1983), Especially for you (1985) e Green thoughts (1988).
Qualche giorno fa, accingendomi a scrivere la recensione di Green thoughts, sono venuto a conoscenza della triste notizia. Ci sono rimasto male, perché l’italoamericano Pat riusciva a farsi volere bene anche attraverso un video su YouTube, oppure sbirciando le foto degli Smithereens negli archivi on line. Aveva una voce profonda, un talento nello scrivere canzoni apparentemente “facili” ma di impatto emotivo e, soprattutto, un atteggiamento un po’ schivo da antidivo, che lo rendeva simpatico, diverso da tanti artisti boriosi che calpestano i palcoscenici. Mi sarebbe piaciuto intervistarlo e stavo cercando un suo contatto per poterlo fare. Purtroppo non è stato possibile; questa breve recensione vuole essere il mio saluto.
Green thoughts, secondo LP del quartetto, venne pubblicato nel 1988 dalla Enigma records. La veste grafica lascia a desiderare: la copertina è anonima e riproduce uno sfondo urbano con due figure umane appena accennate. Il retro riporta i crediti e una bella fotografia della band, che avrebbe figurato meglio in copertina.
Se quel che conta davvero, però, è la musica, allora Green thoughts è un disco valido. Già dai primi solchi si sente la vera passione di Di Nizio e soci: i Beatles. Molti brani risentono della matrice della band di Liverpool, sia pure filtrata attraverso una sensibilità contemporanea, magari con qualche riff d’impatto. Si tratta di un onestissimo disco di power pop, anzi di puro pop chitarristico, grazie all’egregio lavoro di Di Nizio e Babjak. La formazione è quanto mai affiatata e sforna almeno tre singoli radiofonici da urlo: House we used to live in, Only a memory e Drowing in my own tears. Niente di spettacolare, sia chiaro, ma tanto mestiere e sincera passione. Possono piacere o meno, ma sono tre gioielli pop perfetti nella solida struttura strofa-ritornello-strofa, arricchiti dalla bella voce di Di Nizio.
Il disco scorre sulla medesima falsariga, senza cadute di stile: non vi sono canzoni più brutte delle altre, non si conta nessun passo falso. Gli Smithereens si affidano a due grandi doti: perizia tecnica e ammirevole pervicacia ideologica. Sanno qual è la loro strada e non sono disposti a cambiarla; ne escono fuori pezzi mai banali, come la tenera ballata Especially for you, l’elettrica Elaine e la ritmata Spellbound. Con Green thoughts gli Smithereens ci hanno insegnato che la musica può anche essere divertente e disimpegnata, senza per questo essere superficiale. Cosa volere di più da un disco pop?
Grazie Pat, ci mancherai.
 La copertina di Green thoughts
Una foto recente di Pat Di Nizio

3 gennaio 2018

"From the lions mouth" dei The Sound: Borland nella gabbia dei leoni

Parlare dei The Sound significa inevitabilmente tirare fuori la solita favola triste della band sfortunata, ignorata all’epoca e riscoperta postuma, che ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato. Facile allora inquadrare il gruppo tra i grandi sconosciuti, fino ad elevarlo tra i migliori in assoluto, come pure fanno alcuni. Più semplicemente, nella musica come nell’arte in generale, la fama non sempre arride ai più bravi ed è spesso una questione di contingenze. Come ho scritto in un precedente articolo, rimane certamente un mistero la ragione per cui certi validi gruppi siano destinati a non lasciare alcuna traccia nella memoria musicale collettiva, mentre invece tanti musicisti non propriamente all’altezza siano invece passati ai posteri e abbiano goduto del beneficio di vedere i propri dischi ristampati in continuazione. Indagare questo mistero non avrebbe senso, né è possibile trovare una soluzione. È allora sufficiente affermare che i The Sound sono stati un grande gruppo di piccolo culto. E non è poco.
Adrian Borland, ragazzo dall’espressione sorniona e dagli occhi spenti, ne era il fondatore e leader. Nell’aspetto non rispecchiava i canoni classici della rockstar ma, al pari di molti e più famosi di lui, era affetto da un incurabile male di vivere, che l'ha portato a morire suicida sotto un treno a soli 42 anni, il 26 aprile del 1999. «Un figlio amato e un talentuoso cantautore e chitarrista», recita il suo epitaffio. The Sound è stata la sua creatura. Il gruppo, inquadrabile nell’area del post punk – new wave, ha pubblicato cinque dischi in studio tra il 1980 e il 1987 prima di sciogliersi, oltre ad una manciata di live. Sembrerebbe che proprio le crisi depressive del leader, oltre agli scarsi riscontri commerciali, siano state le cause principali dello scioglimento, avvenuto nel 1988. Una storia che ricorda in parte quella dei coevi e universalmente noti Joy Division. Completavano la formazione Graham Green al basso, Colvin “Max” Mayers alle tastiere e l’occhialuto Mike Dudley alla batteria. Per chi volesse vederli dal vivo, consiglio questa splendida testimonianza su You Tube.
From the lions mouth è il loro secondo album (1981), che segue di un anno l’esordio di Jeopardy, sempre per la Korova Records. Mentre il loro primo disco è intriso dei sapori del punk morente, From the lions mouth si avvicina invece alla new wave, risultando un deciso passo in avanti e, al tempo stesso, un disco ancora fresco a distanza di trentasei anni. La 1972 Label, casa discografica americana, ne ha curato una recente ristampa in vinile, che riporta anche i cupi testi e una fotografia del gruppo. Suggestiva la copertina, che riproduce un famoso dipinto del pittore inglese Briton Riviere, intitolato “Daniele nella fossa dei leoni”. Viene dunque da chiedersi quali fossero questi leoni da cui Adrian Borland si sentiva oppresso: potrebbero essere i vincoli imposti dalla società, o più semplicemente le spire soffocanti del sentimento in perenne contrasto con la volontà.
È un disco che si esalta nei felici ricami delle tastiere, che si intrecciano in continuazione con i riff selvaggi della chitarra di Borland; onnipresente il basso, che disegna la strada maestra dalla prima all’ultima traccia. Si apre con l’inconfondibile giro di basso di Winning, a cui dopo pochi secondi si aggiunge il ripetitivo e psichedelico tappeto delle tastiere. A sorpresa, la canzone parla di riscatto, della capacità di liberarsi dalle catene e di ripartire quando si è toccato il fondo: «I was going to drown, then I started swimming. / I was going down, then I started winning». Segue la corposa Sense of purpose, atipica canzone d’amore in cui Borland chiede ad una lei (o forse a se stesso) di cercare un nuovo senso all’irrequietezza quotidiana. Ancora una volta sono le tastiere e il basso a dominare la scena, sovrastati nel finale da un assolo di chitarra. Contact the fact si avvale invece di un felice ritornello, per poi dilatarsi in una coda strumentale che rappresenta uno dei momenti più felici dell’album. La successiva Skeletons è invece un classico brano dark-wave, sostenuto dal basso e con un testo cupo; nel finale la voce di Borland si smarrisce in suoni appena udibili, mentre la musica si frammenta in schegge impazzite. Chiude la facciata la complessa Judgement, in cui il mostro assume il volto silenzioso e immoto di Dio («he’s so still, silent, motionless»), visto nella sua veste di sommo e implacabile giudice. Anche qui la coda strumentale è qualcosa di spettacolare: un meraviglioso amplesso di chitarra e tastiere, come una scala che in poco meno di un minuto lambisce il paradiso e ricade a terra.
Il lato B non conosce cali d’ispirazione. Fatal flaw è una canzone sull’incapacità di amare: «sense of distance when you stand close to me / I’ve a strange disappearance […] / you can’t reach me anymore». La duplice natura dell’animo umano è il tema centrale anche della successiva Possession, con un basso che pompa a livelli altissimi e la voce di Borland che si alza di intensità e di volume. Spinge invece sull’acceleratore The fire, la mia preferita; questo è punk, signore e signori, forse un po’ ammansito dalle tastiere, ma che nel finale esplode in un assolo chitarristico incendiario. Silent air è invece un riuscito intermezzo di dolce malinconia alla U2, che lascia il passo alla conclusiva New dark age. L’ovvio, inevitabile punto di riferimento per questo brano sono i Joy Division; in effetti il pessimismo non lascia scampo, perché Borland ci porta per mano in un universo post-atomico, dove di umano è rimasto poco e ciò che rimane si prepara all’avvento di una “nuova età oscura”. La voce di Adrian galleggia sopra rimasugli dilatati di batteria e basso, fino ad un finale incisivo e sorprendente, con la chitarra a spingere come a voler uscire fuori da questa new dark age.
Dovessi partire domattina per un’isola deserta e avessi la possibilità di portarmi una manciata di dischi, From the lions mouth non potrebbe mancare. Ascoltare per credere.