20 febbraio 2018

Il piccolo e magro professore di diritto: vita vera e poesia

C’è una poesia di Emilio Praga (1839-1875) che costituisce un passaggio atipico nella sua produzione: Il professor di greco. Praga è noto per essere stato il principale tra i lirici della Scapigliatura, nonché “il Baudelaire italiano” per la vita dissoluta e il contenuto provocatorio delle sue opere. Il professor di greco è invece una lirica di impianto tradizionale, che racconta un episodio vero e intimo.
Praga, che è stato anche un affermato pittore, nella poesia racconta di quando si è presentato alla porta del suo studiolo il «lungo e magro professor di greco» delle tediose giornate di scuola, quelle che il poeta avrebbe preferito passare tra «le dolci aure dei campi», anziché in un’aula polverosa. La vista del professore rievoca il ricordo delle noiose lezioni e della buia prigione che era stata la scuola. La reazione immediata è quindi di odio, che Praga non esita a dimostrare, rivolgendo al docente uno sguardo «torvo e bieco».
Ma il tempo non è trascorso invano; dopo la prima diffidenza, il poeta scopre l’uomo dietro il professore. Colui che aveva sempre considerato un nemico da combattere, gli si rivela qual è, un «uom, già in uggia tanto, incanutito e sofferente e stanco». Si compie allora un vero e proprio miracolo: il professore si guarda intorno, ammira le tele che costellano la stanza ed elogia l’ex studente ribelle, diventato un affermato pittore. La confidenza che nasce tra i due è il colpo decisivo che annienta i passati rancori. Il vecchio docente, «desto ai primi ardenti affetti», paragona la sua misera vita, fatta di giorni sempre uguali, all’esistenza errabonda e avventurosa dell’allievo, non nascondendo una punta di invidia. Lo studente indisciplinato ha visitato il mondo, mentre l’inflessibile professore, onusto solo del peso della scuola e della famiglia, non ha mai vissuto pienamente.
Il finale è commovente, senza indulgere nel patetismo. Praga, che forse non è riuscito a manifestare al professore ciò che ha realmente provato, esorta i suoi versi ad uscire dallo studiolo, a seguire il vecchio per la strada, rincuorandolo che «col greco è svanita ogni rancura». Rimasto solo, il poeta si lascia andare ad un pianto liberatorio, pensando forse al tempo passato e al triste destino di un uomo buono e comprensivo, che il crudele gioco di ruoli della scuola gli aveva fatto considerare un nemico.
Si dice che la poesia sia tanto più vera quanto più trovi rispondenza nella vita reale. Qualche tempo fa ne ho avuto la prova, quando alla fermata dell’autobus ho incontrato il mio vecchio professore di Istituzioni di Diritto Pubblico all’università. Negli anni dell’insegnamento era noto per la rettitudine morale, ma soprattutto era assai severo e temuto, anche per via dell'aspetto austero. Il solo pensiero di dover affrontare l’esame con lui terrorizzava noi studenti; dato l’alto livello delle sue lezioni, infatti, il professore esigeva una preparazione eccellente, oltre che una proprietà di linguaggio che molti ragazzi del primo anno non possedevano. Ecco perché questo professore rappresentava per noi la quintessenza dell’inflessibilità.
Alla fermata dell’autobus, invece, mi è sembrato subito un uomo diverso. Oramai in pensione, minuto, incanutito e con il passo appesantito dagli anni, mi ha provocato una strana sensazione di rispetto mista a tenerezza. Allora mi sono avvicinato e presentato; lui ovviamente non poteva ricordarsi di me, ma è stato comunque felice di rammentare i giorni dell’insegnamento. Come il professore di greco, anche il professore di diritto mi ha enumerato i suoi acciacchi, confidandomi che «la testa non è più quella di una volta». Sono bastati pochi minuti per rovesciare completamente il mio giudizio. Ho visto di fronte l’uomo, al di là del professore, e tutto il passato risentimento si è trasformato in rispetto. Ecco, in quei pochi minuti anche io mi sono sentito un po’ Emilio Praga.

Il lungo e magro professor di greco,
che quasi odiar mi fece il divo Omero,
fu stamane a vedermi al mio studietto.
La tavolozza mia si tinse a nero,
e io lasciando i pennelli con dispetto
il guatai torvo e bieco.
Ché all’entrar suo mi rientrò nel core
tutta la noia dei passati inciampi,
quando fanciullo pallido e sparuto
alle dolci anelavo aure dei campi,
e avrei pei gioghi del Sempion venduto
e Troia e il suo cantore.
Ma poi ch’io vidi l’uom, già in uggia tanto,
incanutito e sofferente e stanco,
l’antica bile mi fuggì dal petto,
e fissai mestamente il suo crin bianco;
egli abbracciommi coll’usato affetto
e mi sedette accanto.
Poi mi narrò de’ suoi lunghi malanni
e delle pene della famigliuola;
sentirsi affranto e avvelenato ormai
dall’afa sempre uguale della scuola,
che fin gli toglie il ricrearsi ai rai
del sole agli ultimi anni.
Indi guardando con occhio d’amore
la stanza piena di festa e di luce,
e le sparse mie tele e gli abbozzetti,
da cui la lieta fantasia traluce,
parea, che desto ai primi ardenti affetti,
chiusi non morti in core,
volesse dirmi: "Oh quanti nuovi lidi,
quanta stesa di cieli e di marine,
tu vedesti, e pur giovane sei tanto!
Ed io? Dei grami dì già presso al fine
che mai conosco di sì vago incanto?
Nulla, mai nulla io vidi!
Talor fra l’aure aperte e la verzura
la mia stanca vecchiezza si riposa,
quand’esco coi figliuoli alla campagna;
ma quell’ora di pace, ahi come vola!
Qual tristezza maggior non m’accompagna
poi fra le chiuse mura!"
Povero vecchio! Ed io fui crudo tanto
da attristargli la già misera vita?
Sù, versi miei, seguitelo per via,
ditegli voi, che col greco è svanita
ogni rancura, e che quand’egli uscia
dalla mia stanza, ho pianto!

Emilio Praga (primo a sinistra) con altri scapigliati (fonte Wikipedia)

6 febbraio 2018

Gli esoterici della new wave: "Fiction" dei Comsat Angels

Nel sottobosco della new wave in terra d’Albione troppi erano gli orfani del punk: formazioni più o meno note, talentuose o da dimenticare, con un’attitudine dark o votate all’elettronica. In parole povere, un mare in cui è difficile orientarsi. In quel di Sheffield si muovevano i Comsat Angels di Stephen Fellows (voce e chitarra), Mik Glaisher (batteria), Kevin Bacon (basso) e Andy Peake (tastiere). Esordirono nel 1980 con il sorprendente Waiting for a miracle, seguito a ruota dal claustrofobico Sleep no more (1981) e da Fiction (1982), dall’attitudine meno oscura. Album tutti pubblicati dalla Polydor, segno del credito di cui godeva la band.
I Comsat Angels, che avevano preso il nome da un racconto di fantascienza (edito in Italia nella collana Urania), volevano affermare un suono diverso dagli altri gruppi della medesima corrente. Meno cupi dei Joy Division, meno elettrici dei The Sound, proponevano atmosfere dilatate, di stampo quasi psichedelico. Il terzo LP, intitolato Fiction, chiude il loro periodo migliore. Registrato nei mesi di maggio e giugno del 1982, è stato, per ammissione dello stesso Fellows, un lavoro meno meditato dei precedenti, a causa della stanchezza accumulata dopo lunghi ed estenuanti concerti. Cupezza, malinconia e attitudine new romantic sono i tratti principali del disco, che si dipana in canzoni non sempre di facile presa. Bandita la rabbia, predomina l’inquietudine.
Si ascolti la prima traccia, After the rain. Strumentazione ridotta all’osso, poche note di tastiera ripetute all’infinito, a dare l’idea della pioggia che cade. Una canzone-gioiello, che immerge l'ascoltatore in un’atmosfera soffusa di campi nebbiosi bagnati dall’inverno. Quasi un intermezzo la successiva Zinger, che lascia spazio alla meravigliosa Now I know. Qui i nostri si cimentano nella più classica delle ballate darkwave: il basso a reggere le fila del discorso, echi lancinanti di tastiere provenienti da altri mondi e chitarre a tentare di forzare uno scenario altrimenti desolante. Un pezzo suggestivo, forse l’apice dell’album. Segue Not a word, il brano più elettrico della facciata, dall’incedere post-punk; è un’atipica canzone d’amore, dedicata alla «strangest girl I have ever known». Ju ju money chiude la facciata con un’invettiva contro il dio denaro riuscita solo a metà.
Il lato B è aperto da More, che riprende l’essenzialità di After the rain, con una batteria incalzante e la voce di Fellows a raccontarci quanto siano effimeri i sogni: «more things than you’ve time for / more dreams than you can use / they fill up all the sky / and fall into your eyes». Si torna a viaggiare alti con Pictures, soffusa canzone che si esalta in un ritornello di strisciante malinconia. Purtroppo la chiusura del disco non è all'altezza del resto: Birdman è un mero riempitivo senza un’idea portante, mentre Don’t look now e What else!? non lasciano traccia nella memoria. È proprio nella chiusura che si sentono la stanchezza e la carenza di idee di cui parlava Fellows.
Dimenticato dai più, è un album tutto sommato buono, con almeno quattro gemme da ricordare. Qualche caduta di tono, ma i Comsat Angels si confermano un gruppo con una propria identità, al di là dell’inquadramento in un genere. Il vinile è reperibile a prezzi contenuti, ma il disco è stato ristampato anche in cd. Due parole sulla grafica: copertina semplice ma d’impatto con schegge vaganti di colori e, nella busta interna, una simpatica foto del gruppo che non si prende troppo sul serio.
La band nella busta interna del vinile
La copertina di Fiction