20 marzo 2018

"Frequento le mie idee e mi lascio attraversare dalle mie composizioni": intervista a gianCarlo Onorato

Giancarlo Onorato, anzi gianCarlo, non necessita di presentazioni. Cantante, chitarrista e leader degli Underground Life, una delle band seminali della new wave italica, ha poi avviato una proficua carriera solista. Da sempre attento al suono della parola, ha all’attivo cinque album in studio, usciti spesso a diversi anni di distanza l’uno dall’altro, segno di una profonda meditazione e di un lavoro minuzioso. Quantum (2017) è il suo ultimo disco, salutato da unanimi consensi della critica. Onorato non è solo un autore colto, ma anche un apprezzato scrittore e pittore. Lascio spazio alle sue parole, tante, profonde e di ampio respiro, ringraziandolo di cuore per la cortesia e la disponibilità.

Domanda. Iniziamo dal passato. Gli Underground Life sono stati uno dei gruppi di culto della scena new wave italiana degli anni Ottanta. Che ricordi hai di quel dirompente periodo di rinnovamento del rock italiano?
Risposta. Ne ho molti, ma ho anche molta nebbia, dovuta alla mia predilezione per il presente e all’urgenza espressiva che contraddistingue ogni mio passo. A volte mi pare di non sapere più nulla di ciò che è stato, perché la mia attualità è altrettanto dura ed eccitante, combattiva e ricca di scoperte, quindi non c’è il tempo per un vero ricordo strutturato e non ne sento il bisogno. Altre volte all’improvviso sorgono invece i ricordi di eventi ai quali ero ed eravamo presenti o che abbiamo creato. In questo terreno, è molto facile imbattersi in concorrenze circa chi abbia fatto per primo una certa cosa, ma la storia è lì e quando è ben scritta è lì per essere letta. A chi fosse sfuggito, vorrei ricordare che di quel periodo, anche se in una chiave narrativo-saggistica, ho parlato diffusamente in Ex – semi di musica vivifica. Certo è risaputo sia stato un periodo cruciale, ma mi pare manchi ancora un’analisi oggettiva e ben condotta perché si capisca ciò che di basilare è avvenuto nel decennio 1977-1988. Innegabile è stato il valore storico di quella formazione che da adolescente ho guidato. Poi chi ne ha giovato più di tutti sono proprio io, perché è stata la mia scuola di vita, oltre ad insegnarmi il mestiere.

D. La scena dell’epoca era ricca di fermento e di gruppi validissimi: penso a Neon, Diaframma, Moda, Litfiba, Gaznevada, Garbo, Denovo, Frigidaire Tango, oltre che ovviamente agli Underground Life. Mi sono sempre chiesto, però, perché i nostrani gruppi new wave abbiano sempre mantenuto una popolarità sotterranea, di culto, senza mai arrivare al grande pubblico, a parte i Litfiba. Eppure all’epoca ci furono passaggi televisivi anche importanti, e gli stessi UL si esibirono alla Rai. Come ti spieghi questa anomalia?
R. A domande come questa si dovrebbe rispondere con analisi sociologiche, o di storia dei consumi culturali. Come protagonista è più scomodo rispondere, tuttavia potrebbe bastare ricordare tre elementi fondamentali. Primo: era un Paese molto diverso da quello attuale, più provinciale e meno facilmente raggiungibile con i contenuti in musica. Secondo: noi proponevamo qualcosa di effettivamente nuovo, non di simile a qualcos’altro già precedentemente sentito da queste parti. Ad un certo punto si parlò di rock italiano, ma a lungo l'obiezione mossa a gente come noi, parlo di UL, era proprio sulla definizione di rock, che si intendeva in chiave assai più tradizionale, mentre noi contravvenivamo a molti precetti ritenuti intoccabili nel rock. Terzo: non vi era possibilità di farsi finanziare seriamente un’attività (oggi è diverso per troppe cose, ma resta uguale la difficoltà di ottenere finanziamenti per proporre seriamente la qualità), perché le grosse strutture discografiche ignoravano ogni realtà innovativa, almeno finché non ci vedessero la possibilità di trasformarla in merce. Andare in televisione ma non avere una distribuzione capillare dei dischi e dei concerti era una contraddizione che difficilmente poteva produrre popolarità. Infatti, lo hai detto tu, chi ha avuto ragione massicciamente del pubblico lo ha fatto sì sulla base di una proposta più appetibile e sulla scorta di un prima grande raccolta presso i club, come i Litfiba, ma anche grazie a dosi di promozione che altri, come noi, non ebbero mai. Senza carburante, puoi avere il motore più potente, ma resti fermo. Le cose sono comunque molto più complesse di così, e tra l'altro tu hai citato nomi molto differenti già gli uni con gli altri quanto a promozione, visibilità, storia. Mentre il mio gruppo era ed è rimasto indipendente in toto per diverse ragioni, quindi fare confronti è arduo, così come è vero che le nostre conquiste valgono milioni di volte quelle ottenute da altri con mezzi a noi negati.

D. Veniamo al presente. Quantum, il tuo ultimo lavoro, è un disco vero ed intenso, non di facile assimilazione ma proprio per questo così affascinante. Ancora una volta è la parola al centro di tutto; si pensi a Scintillatori, con quel meraviglioso intro recitato che poi evolve nel canto, oppure a Il barocco del tuo ventre. Come procede il tuo lavoro di scrittura dei brani? Come fai a trovare il giusto equilibrio tra parole e musica?
R. Frequento le mie idee e mi lascio attraversare dalle mie composizioni. Chi ascolta Quantum, oltre a sentire un disco, riceve un pezzo della mia esistenza, vi risuonano le cose che mi hanno fatto vibrare e che mi hanno cambiato, addolorato, eccitato davvero, che mi hanno allargato il pensiero o che mi hanno fermato da qualche parte. È un’opera, e un’opera deve fare questo, deve essere attraversata dalla vita di chi l’ha concepita per poter passare per trasfusione a chi ne fruisce, oppure non è che un pretesto per presenziare. Cosa che accade nella maggioranza dei casi. Mi pare di poter dire che album come Quantum nascano invece come una distillazione, infischiandosene del mercato e delle regole che esso impone. Ma fate attenzione che questo lo dicono quasi tutti: sono tutti superiori alle lusinghe del consenso e dell'affermazione presso il pubblico, quando nei fatti troppi ne sono servi. Io ho il privilegio di appartenere alla limitata schiera di chi ha deciso da sempre di fare solo ciò che si sente, e perché lo sente come la cosa giusta. Agli altri faccio i miei auguri. Ogni disco tuttavia è una storia diversa, e nata da momenti tanto diversi, anche se credo che la scrittura sia in definitiva una faccenda di onestà.

D. Ne Il passaggio, tratto sempre da Quantum, canti “deve esserci un passaggio là per noi, di esistenza liberata, là per noi”. Che cos’è per te la libertà, nella vita come nel lavoro?
R. È il respiro creativo, che si raccolga ed espanda sulla cima di un colle o nel proprio letto. Accedervi però è possibile solo attraverso un lavoro completo e continuo. È sentire di avere un nuovo domani, una luce accesa giusto per te e per nessun altro al mondo, e mentre sai che quella luce è lì per te, sai anche profondamente che appartiene a chiunque si sappia cercare.

D. Ascoltando alcune tue canzoni, come Acqua di Valium, Le bisce d’acqua, oppure la meravigliosa Ballata dell’estate sfinita, si nota una “semplicità ricercata”, se posso permettermi il gioco di parole. Costruisci sempre un tappeto sonoro non invasivo, apparentemente minimale ma assai complesso, su cui si innesta la tua voce imperiosa ma mai oltre le righe. È uno stile personale, senza dubbio. Come lo definiresti?
R. Definirlo per me è difficile. Lasci le tue impronte sulla sabbia e lo fai in quel preciso modo solo tu, ma se ti giri a domandarti come fai, perdi di vista la naturalezza del passo.

D. C’è un tuo video, su YouTube, in cui spieghi il processo di “costruzione di un ideale proprio di amore”, che è poi l’idea alla base di Androide Mirna. Puoi parlare della genesi di questa meravigliosa canzone, tratta dall’album Falene?
R. Falene è un disco ricco di energie differenti, nato in un momento assai delicato della mia vita, quando mi trovavo in bilico tra una certa dimensione e qualcosa di nuovo che spingeva dentro. Mi è stato chiesto più volte come sia nato un brano come Androide Mirna, non esistono risposte tecniche, né analisi che possano raccontarlo, se non il fatto che riflette la mia dimensione estetica, e vi si fonde la narrativa che ho in mente da sempre, grondante sensualità ma pregna di significato. Credo fossero elementi eloquenti già al momento in cui l'abbiamo realizzata in studio. Se dovessi fare del cinema, il mio sarebbe scritto così. È un brano deliberato e asimmetrico, umido e immaginifico, quindi particolarmente mio.

D. Oltre che musicista, sei anche uno scrittore. Che tipo di letteratura preferisci? Quali sono gli scrittori che ami di più?
R. Prediligo la narrativa più viscerale e sporta verso i sensi, ma ugualmente attenta a scavare il senso della vita. Non sono un lettore ordinato, né sistematico, e leggo più cose contemporaneamente, assecondando la mia inquietudine. Occorre fare attenzione al ruolo dello scrittore, che rischia di essere in drastica via di scomparsa. Oggi abbiamo un oceano di scriventi ma pochissimi scrittori. E questo è più vero da noi, prova ne è il fatto che sono davvero una minoranza gli italiani che leggono, mentre per paradosso si pubblicano migliaia di titoli. La narrativa è essenzialmente filosofia, spirito, cronaca e interpretazione dei tempi su un piano più lento e riflessivo di quanto non possa fare solitamente la canzone. Per scrivere qualcosa di utile e sensato occorre quindi tempo, molta stratificazione, confronto, decantazione. Ecco che diventa difficile un panorama di valore, perché in generale attualmente si è scaricato di senso via via il retroterra di vita che porti a uno scenario di narrativa autentica, diversamente da come è accaduto in altri momenti storici. Comunque farò un solo nome, Antonio Moresco. A differenza di questo autore, molto spesso la quasi  totalità di coloro che approccio in narrativa (e poi abbandono), sanno di televisivo, cinematografico e di ordinario già alle prime pagine. Perché è evidente che intendano parlare a coloro che sono ormai del tutto imbrigliati nell'ordinario, e incapaci di accedere a dimensioni meno meschine. Chi scrive apprende a esprimere l'ordinario e il banale, il riconoscibile, e lo riproduce alla inconscia ricerca del consenso. Come quelli che parlano in una trasmissione televisiva e non perdono l'occasione per dire cose banali e gravide di comune senso del pudore o della bontà da supermercato, solo per scatenare l’applauso. Ci sono parole chiave, no? Basta dire: “famiglia”, oppure, “lavoratori”, oppure, “fine del mese”. E tutti ti applaudono soddisfatti. Mi sembra inoltre altrettanto chiaro che chi scrive pensi troppo al cinema, e se non spera unicamente di finire lì, quantomeno scrive pensando a ciò che ha visto sullo schermo, cosa che impoverisce la scrittura. Moresco ha comunque espresso assai meglio e prima di me questa osservazione, un guaio del quale facciamo tutti le spese, uno per uno. E basterebbe leggere davvero per coglierlo.

D. “E nel liquore del tuo ventre glorificare la bellezza / con questa semina di stelle / ti scintillo il volto”. Sono i suggestivi versi di Niente di te, tratto da Quantum. Può la poesia avere ancora un senso in questo mondo così prosaico e volgare che ci circonda?
R. Non so se la mia sia poesia, ma so con certezza che è ricerca, e quindi attiene al mondo del desiderio come slancio vitale. Dunque è utile, feconda. Abbiamo una moltitudine di persone che soffre di mancanza di comunicazione ma non si accorge di avere smesso da tempo di parlare a se stessa e che per farlo occorrono confronti interiori. Quelli vengono a diversi livelli, ma il più intimo degli stimoli esterni è la poesia, che può essere espressa in modo verbale da qualcuno o, più personalmente, fruita per proprio conto. E pensare che tanti vivono senza incontrarla mai. Molte persone soffrono di depressione non riuscendo a ritrovarsi, e non riuscendovi non trovano le risorse necessarie per risorgere dal proprio dolore, che in sé è sempre una dimensione vivifica, perché ti mette di fronte a ciò che non va e da cui devi saperti emancipare. Perché la vita è così. Al di là di ogni trionfo e di ogni apparente riuscita, la vita ci offende spesso. La poesia, in certi casi, ci nutre, e chi non lo sa, soffre e non guarisce e tanta ignoranza ci fa male al punto da impedirci di trovare persino l'antidoto all'ignoranza. La poesia appartiene al campo della scoperta, e tutti ne hanno bisogno, purché si dia  al termine poesia il senso del luogo più lontano nel fondo di noi. Anche i più bruti hanno momenti di profondo bisogno, anche i più feroci criminali hanno una parete, vera o interiore, alla quale hanno appeso la foto della madre o l'immaginetta della Madonna o quella di Padre Pio, che sono idoli interiori equivalenti al legame. Dunque io credo che proprio considerando il deserto che avanza, occorra umidificare con dimensioni che peschino dentro. Ne abbiamo bisogno proprio perché non ci accorgiamo neppure più di averne bisogno.

D. Cosa ne pensi della rinascita dell’analogico e del ritorno del vinile? Si tratta di una semplice moda, oppure è un vero bisogno, la necessità di opporsi alla “musica liquida” che ormai la fa da padrone?
R. Credo siano entrambe le cose: una specie di reazione all’impalpabilità di buona parte della musica, che a quanto ne sappiamo sarà sempre più forte e diffusa. Poi c’è anche una componente nostalgica. Tuttavia io penso che non avremo modo di rimpiangere nulla, se la musica potrà tornare a essere ciò che nell’essenza è: una disciplina partecipata, suonata dal vivo, in mezzo alla gente e per la gente. Come sempre è stata e come deve essere per poter liberare le sue potenti capacità energetiche.

D. Parliamo del futuro, a proposito di musica su supporti concreti. Su internet molti di noi appassionati chiediamo a gran voce una ristampa, su cd o lp, dei dischi degli Underground Life. Saremo accontentati?
R. È possibile, anzi auspicabile, occorreva che passasse l'onda del revival. Ciò che è stato fatto da quel gruppo di ragazzini con me in testa è stato prima di tutto un fatto storico e per questo va inquadrato e riproposto in modo filologico e adeguato. Ora mi pare che i tempi siano finalmente maturi per riproporre quell'esperienza appunto come fatto storico.

D. Quali sono i tuoi progetti futuri?
R. Molti, come sempre. Concerti e uscite in pubblico quanto più sia possibile fare. Un disco nuovo dopo l'estate, il romanzo nuovo al quale sto lavorando che potrà uscire solo quando sarà maturo, una raccolta di racconti e un nuovo saggio sul ruolo della canzone sensibile contrapposta a quella consolatoria. Poi collaborazioni vive e autentiche, e tutta la libera docenza che mi venga permesso di condurre.

D. Se dovessi usare un solo aggettivo per definirti come artista, quale useresti?
R. Guardandomi attorno temo di essere necessario. Avrei tanto voluto essere salvato da altri, da padri, da madri, ma mi tocca sempre la parte di chi corre in aiuto, e quindi io sono condannato a fare il lavoro necessario, perché sono sempre troppo pochi coloro che lo svolgono sino in fondo. Quelli come me garantiscono una tenuta al posto di chi non sa assumersi responsabilità. Lo dico senza la minima modestia, ma anche con la massima serenità: avendo scelto me stesso, non posso che dire le cose come le vedo.
gianCarlo Onorato (fotografia di Francesca Collio)

14 marzo 2018

Il suono di un morbido silenzio: le "Falene" di gianCarlo Onorato

Falene, il terzo disco da solista di gianCarlo Onorato, è un lavoro che entra di diritto tra le cose migliori della canzone d’autore italiana. È stato pubblicato nel 2004, a sei anni esatti di distanza da Io sono l’angelo, segno che a Onorato piace fare le cose sul serio. Ogni suo disco è meditato, limato a perfezione, curato in ogni dettaglio. D’altronde, anche l’ultimo lavoro, Quantum (2017), segue di sette anni il precedente. Già questo aspetto ci dimostra quanto l’artista lombardo sia lontano dai canoni imperanti dello show business, che impongono ai loro musicisti-marionette di pubblicare un disco all’anno, a tutto detrimento della qualità.
Onorato è un indipendente e può dunque beneficiare della massima libertà creativa. Falene è l’emblema di uno stile personale, che fonde egregiamente la scuola cantautoriale italiana con il gusto della classica ballata rock, mai sopra le righe. Si pensi, a titolo di esempio, alla Canzone dell’oscurità, che ricorda le cose migliori di De Andrè. Onorato rifugge però dalla polemica politica o dall’impegno, per rifugiarsi in canzoni intime, che trovano forza espressiva in un vago senso di evanescenza, dando luogo ad un avvincente paradosso. Si pensi alla meravigliosa La sete, che inizia lieve per poi esplodere in un’abbacinante elettricità. Oppure, si ascolti la conclusiva Un morbido silenzio, sempre in bilico tra armonia e vie di fuga parallele.
Sono tre le componenti fondamentali di Falene. La prima è la melodia: Onorato costruisce le sue canzoni come ragnatele, con una trama sottile eppure resistente, che cattura l’ascoltatore dalle prime note e non lo lascia più andare. È la “strategia del ragno”, per usare il titolo di un famoso film di Bertolucci. La strumentazione impiegata è quanto mai variegata: chitarre dolci e distorte, tappeti di tastiere, la fisarmonica, gli archi, delicate voci femminili che sembrano parlarci da altri mondi. La seconda componente è l’interpretazione: la voce di Onorato è calda e avvolgente, scorteccia le parole riducendole all’essenziale, le lima infondendo a ciascuna un preciso significato. Infine, abbiamo i testi. Con una parola abusata parlerei di poesie, perché davvero non saprei come altrimenti definirli. Emblema della sua scrittura è probabilmente il testo di Androide Mirna. Parla di un artista che, stanco di inseguire la bellezza senza riuscire a trovarla, costruisce un automa a cui dà il nome di Mirna, per rappresentare il suo personale ideale di amore. La tematica non è nuova nell’arte; in letteratura, ad esempio, è stata trattata da E.T.A. Hoffmann. Onorato la mette in una canzone, tratteggiando in pochi significativi versi il rapporto tra l’inventore e l’androide, descrivendo lo stupore di quest’ultima di essere viva e la volontà di gioire e soffrire al pari di un umano.
Impossibile preferire una canzone alle altre. Il livello è altissimo e non conosce cali di ispirazione: lasciano il segno specialmente l’iniziale Le bisce d’acqua, Il bene e il nulla, la drammatica Pace di guerra, l’intreccio di chitarra elettrica e piano di Boncourage, oltre alle già citate La sete, Androide Mirna e Un morbido silenzio. Una menzione a parte merita la Ballata dell’estate sfinita, che sarebbe stata un’incrollabile hit se solo fosse stata adeguatamente divulgata. Anche negli episodi meno fortunati, come The bossanova sweet menage o Mia neve, si sente un’attenzione al perfetto equilibrio tra parole e musica.
Cerco sempre di mantenere una posizione il più possibile obiettiva quando recensisco un disco. Stavolta, però, sento di dover dare un dieci, perché nulla è superfluo in questo lavoro di Onorato, che immerge l’ascoltatore nel suono caldo di un morbido silenzio. Consiglio l’ascolto in cuffia, che rende giustizia al lavoro di incisione.

3 marzo 2018

I sogni non hanno prezzo: "The disaster artist"

Quando si parla di “film di culto” non sempre si fa riferimento a pellicole famose, che hanno segnato la storia del cinema per la loro grandezza. L’appellativo ben si adatta anche a lungometraggi sconosciuti ai più, diffusi nei circuiti sotterranei e apprezzati da un numero ristretto di cinefili. Oppure, ancora, ci si riferisce a pellicole che hanno avuto successo proprio per la loro indiscutibile bruttezza, tanto da essere catalogate come Z-movies. The room rientra proprio in tale categoria. Si tratta di un film indipendente del 2003, prodotto, diretto, finanziato e interpretato da Tommy Wiseau, all’epoca uno sconosciuto cineasta. La pellicola, costata sei milioni di dollari versati interamente dallo stesso Wiseau, ne ha incassati poco meno di duemila in due settimane di programmazione. Si tratta infatti di un film con una trama inconcludente e priva di originalità, recitato malissimo, infarcito di scene inutili che fungono da mero riempitivo, senza un continuum logico-temporale. Ciononostante, grazie anche alla diffusione di internet, The room ha riscosso negli anni un successo sempre crescente, proprio per l’involontaria comicità delle sue scene e la pessima recitazione del protagonista. Diverse testate l’hanno definito “il più brutto film della storia del cinema”, consacrandone così la fama ed ergendolo a lungometraggio di culto.
The disaster artist (2017) è un film sulla genesi e la produzione di The room o, se si vuole, sulla figura in qualche modo eccezionale di Tommy Wiseau. Utilizzando un termine anglosassone che rende bene l’idea, si può affermare che The disaster artist è il making of di The room. La regia è di James Franco (che interpreta lo stesso Wiseau), mentre il soggetto è di Greg Sestero, amico di Wiseau e coprotagonista di The room.
La trama ricalca la vicenda reale. Greg è un diciannovenne che sogna di sfondare nel cinema. Ad un corso di recitazione conosce l’eclettico Tommy Wiseau, uno squinternato attore fuori dalle righe, che afferma di essere nato a New Orleans, nonostante uno spiccato accento dell’Europa dell’Est. In breve nasce una profonda amicizia tra i due, che stipulano un vero e proprio patto di sostenersi reciprocamente per la realizzazione del sogno comune, quello di diventare attori professionisti. Tommy è in possesso di risorse finanziarie illimitate e così, dopo innumerevoli rifiuti, prende la decisione che gli darà la fama: scrivere, produrre, finanziare, dirigere e interpretare il suo film personale. The disaster artist ricalca fedelmente i fatti realmente accaduti, lasciando intatto il mistero intorno alla figura di Wiseau: non sappiamo quale sia il suo vero nome, quanti anni abbia, dove sia nato e, soprattutto, come faccia ad essere talmente ricco da poter buttare al vento milioni di dollari solo per inseguire un sogno.
Il film diverte dall’inizio alla fine ed è ricco di scene memorabili. James Franco regala una straordinaria interpretazione di Tommy Wiseau: ne viene fuori il ritratto di un personaggio non comune, che dell’artista vero possiede solo il tormento, ma non il talento. Tommy è capace di violenti scatti d’ira, ma al tempo stesso è un uomo generoso e dolce, che osserva il mondo con lo sguardo vergine e disincantato del bambino. Si pensi in proposito all’amicizia tra Greg e Tommy: mentre il primo mantiene la propria indipendenza, al punto di andare ad abitare con la fidanzata, Tommy vive il rapporto con infantile gelosia, desiderando l’esclusività delle attenzioni e dell’affetto dell’amico.
In conclusione, la pellicola è una riflessione sullo straordinario potere dei sogni e delle aspirazioni individuali, ma al tempo stesso una velata critica al dio denaro. Rimane infatti insoluta una domanda, fin troppo prosaica. Se Tommy Wiseau non avesse avuto a disposizione un cospicuo patrimonio da buttare alle ortiche, sarebbe riuscito a realizzare le sue aspirazioni?
La locandina italiana del film