25 aprile 2018

Fire Next Time: gli epigoni del rock militante

Più o meno negli stessi anni in cui in Italia i CCCP furoreggiavano con il loro istrionico “punk filosovietico”, in Inghilterra c’era ancora chi metteva la musica al servizio dei propri ideali, nella convinzione un po’ ingenua che si potesse cambiare il mondo. I Fire Next Time, che avevano preso il nome da un libello antirazzista dello scrittore americano James Baldwin, provenivano dalla città industriale di Leicester ed erano capitanati dal cantante e chitarrista James Maddock, autore di tutti i testi e le musiche. Completavano la formazione Nick Muir alle tastiere, James O’Malley al basso e Ray Weston alla batteria. La pagina inglese di Wikipedia parla di «a four-piece left-wing soul band», ovvero una formazione soul a quattro, ideologicamente schierata a sinistra. Figli minori di un’Inghilterra operaia, dunque, traditi dalla politica e impantanati nella stagnazione economica. La definizione appare calzante, anche se non rende bene l’idea di quale musica suonassero. Di certo non è punk, né new wave, né tantomeno ska; è un rock militante dalle venature soul, impegnato nei testi e curato negli arrangiamenti.
In North to South, il loro primo e unico LP pubblicato dalla Polydor nel 1988, non troveremo dunque la furia iconoclasta del punk, ma robuste  canzoni dalla struttura classica, che si mantengono sempre nel solco di un suono poco ruvido e molto addomesticato, con la strumentazione arricchita dal sassofono, dalla tromba e persino dal corno. Il primo punto di riferimento è certamente Springsteen, sia perché Maddock canta allo stesso modo, sia perché le canzoni raccontano storie minime di eroi minori, al pari di quelle del Boss. Si pensi alla figura del minatore in Following the hearse, oppure al soldato di Fields of France o al padre disperato di We’ve lost too much. Sono storie di emarginazione e dolore, raccontate attraverso parole semplici ma sentite. Altre sono poi le fonti di ispirazione del gruppo: dai Clash e dagli oscuri gruppi skinhead hanno preso la rabbia, dagli ultimi Jam un certo gusto per le commistioni tra generi.
Tutte le canzoni hanno un taglio polemico di critica sociale. I Fire Next Time portavano avanti un discorso politico e ci tenevano a farlo sapere, traccia dopo traccia. In un’Inghilterra travolta dalla crisi e dove pure i laburisti avevano tradito, Maddock & soci volevano essere la voce degli ultimi, dei disoccupati, dei giovani che facevano la fila per un sussidio, delle ragazze madri, degli emarginati. Le canzoni parlano dunque di guerra (Fields of France), di miseria (Supasave), di aborto (She was strong), di disoccupazione, precarietà del lavoro e lotta di classe (We’ve lost too much e Can’t forgive). Inutile dire che la rabbia giovane che trasuda dai testi appare a volte ingenua, persino eccessiva se non contestualizzata o letta con gli occhi del presente. Eppure, a ben vedere, i problemi affrontati dal disco sono, a trent’anni esatti, i medesimi che ci affliggono oggi.
È superfluo fare un’analisi brano per brano; va però puntualizzato che il disco non conosce cali di tensione, è davvero piacevole dall’inizio alla fine. Almeno quattro le gemme: la cupa ballata North to South, la combattiva Can’t forgive, la toccante Saint Mary’s steps e la furiosa We’ve lost too much.
I Fire Next Time hanno dato un contributo modesto alla storia della musica, eppure non vanno dimenticati, perché North to South è davvero un disco bello e intenso, da mettere sul piatto nei giorni un po’ malinconici e rabbiosi, quando l’incazzatura sale e sembra svanire la voglia di stare ancora sulle barricate.
La copertina di North to South (1988) e la band sul retro del disco

14 aprile 2018

La Medaglia d’Onore per gli Internati Militari Italiani: il valore di seicentomila "no!"

Vengono chiamati I.M.I. dalla storiografia ufficiale i soldati italiani catturati dagli invasori tedeschi e deportati in Germania nei campi di prigionia e internamento, subito dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943. I.M.I. è l’acronimo di Internati Militari Italiani, una formula senza significato secondo le norme del diritto internazionale; il Governo tedesco, infatti, privò i soldati italiani catturati dello status di prigioniero di guerra, che avrebbe loro garantito la tutela della Croce Rossa e del diritto internazionale. Questi ragazzi, spesso appena arruolati, vennero posti di fronte ad una scelta: combattere accanto a nazisti e fascisti, oppure subire la dura prigionia e il lavoro coatto. In seicentomila, la grandissima maggioranza, non ebbero dubbi e scelsero la schiavitù piuttosto che difendere un’ideologia aberrante. Diventarono così gli “schiavi di Hitler”, lavoratori coatti per dodici ore al giorno nei campi di internamento.
La motivazione della Medaglia al Valor Militare all’Internato Ignoto rende bene l’idea delle condizioni in cui vissero gli I.M.I., «internati in campi di concentramento in condizioni di vita inumane, sottoposti a torture di ogni sorta, a lusinghe per convincerli a collaborare con il nemico, non cedettero mai, non ebbero incertezze, non scesero a compromesso alcuno; per rimanere fedeli all’onore di militari e di uomini, scelsero eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinti e sempre coraggiosamente determinati, non vennero meno ai loro doveri nella consapevolezza che solo così la Patria un giorno avrebbe riacquistato la propria dignità di nazione libera».
Per troppi anni un velo di colpevole dimenticanza ha circondato la vicenda dei cosiddetti I.M.I., che non hanno ricevuto il riconoscimento che avrebbero meritato. Un po’ alla volta questo velo è stato squarciato ed è stato finalmente riconosciuto il valore di quel “no”, equivalente ad un vero e proprio atto di Resistenza. La Liberazione non è dunque merito soltanto dei partigiani e degli Alleati, ma anche di altri seicentomila uomini che, astenendosi dal combattere al fianco dei tedeschi, e subendo per questo la fame, la schiavitù e finanche la morte, hanno contribuito a redimere il Paese.
La legge n. 296/2006, sia pure tardivamente, ha riconosciuto un’onorificenza ai seicentomila: la Medaglia d’Onore ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti. Coniata in bronzo dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato per conto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, riporta sul rovescio un cerchio di filo spinato spezzato nella parte superiore, che racchiude il nominativo dell’insignito. Gli I.M.I. ancora in vita, ma anche i loro congiunti, possono richiederla seguendo la procedura disponibile cliccando qui.
Mio nonno era uno di quei seicentomila e mercoledì 11 aprile, nel corso di una toccante cerimonia in Prefettura a Roma, ha ottenuto il riconoscimento che l’avrebbe riempito di orgoglio se fosse stato ancora in vita. La sua storia è simile a quella di tanti altri: venne catturato dopo l’otto settembre in una caserma del Nord Italia e, per essersi rifiutato di combattere assieme ai tedeschi, fu internato nel campo di prigionia di Neubrandenburg, in cui rimase fino alla liberazione da parte dei Sovietici. Raccontava con dolore delle baracche in cui sopravviveva al gelo assieme ad altri internati, delle bucce di patate che spesso costituivano il misero pasto della giornata, delle umiliazioni subite, delle malattie, della morte dilagante di tanti amici e commilitoni, delle durissime giornate di lavoro forzato. Tutto questo per un "no", che è stato un vero atto di resistenza non armata. A lui e agli altri seicentomila I.M.I. è dedicato questo mio modesto contributo.
Dritto e rovescio della Medaglia d'Onore I.M.I. conferita a mio nonno

3 aprile 2018

"Giovannino" di Ercole Patti: la malìa di un dolcissimo veleno

La letteratura mondiale abbonda di romanzi che hanno come titolo il nome del protagonista: mi vengono in mente Agostino di Moravia, Jacob von Gunten di Walser e Demetrio Pianelli di De Marchi. Non so dire quanto sia felice una tale scelta, eppure spesso il nome possiede già in nuce le caratteristiche del personaggio, servendo da guida al lettore. E se il romanzo racconta le vicende di un giovane rampollo dell’alta borghesia catanese di inizio Novecento, che trascorre le giornate nell’ozio e nell’agio scansando con fermezza il lavoro, esiste forse un nome più adatto di Giovannino? Patti lo sapeva bene e tanto più azzeccata appare la scelta del titolo di questo piacevole e fortunato romanzo di formazione del 1954.
Giovannino è l’unico figlio del ricco notaio Calì, che desidera per il discendente una sistemazione adeguata con una sua pari. Seguiamo la sua parabola di vita dall’adolescenza fino alla «senescenza precoce», come correttamente riportato nella quarta di copertina dell’edizione Bompiani. Giovannino ci appare come l’emblema dello scansafatiche: trascorre intere giornate nelle campagne o nei caffè coi suoi amici sfaccendati, alla ricerca di avventure galanti e non disdegnando l’uso di droghe. A mio avviso, sarebbe tuttavia riduttivo bollarlo quale l’ennesima figura di inetto della letteratura italiana. Egli è più che altro un opportunista, per educazione familiare prima ancora che per indole. Il matrimonio di interesse finisce così per essere il degno e ovvio epilogo di un’esistenza votata all’amore “per la roba” di verghiana memoria. La critica di Patti assume pertanto una portata più ampia: vengono lanciati strali contro una borghesia e una nobiltà inconcludenti, i cui rampolli, da scapigliati senza ribellione, finiscono per sacrificare una possibile esistenza da esteti all’affanno per accumulare denaro. Questo è in fondo anche il triste percorso di Giovannino, la cui precoce vecchiaia coincide di fatto con il raggiungimento di un benessere abulico e fine a se stesso. Non a caso, le pagine più ariose del romanzo sono quelle che raccontano la breve esperienza romana del protagonista: lontano da Catania e dall’assillo parentale, egli vive sei mesi di deliquio, nonostante un misero stipendio da impiegato ministeriale e la quotidianità grama di una camera ammobiliata in affitto.
Mai come in questo caso, poi, si può affermare che la città non costituisca il semplice fondale entro cui si muovono i personaggi, ma sia essa stessa un personaggio. Anzi, sarebbe più corretto parlare al plurale, perché la vicenda si snoda tra Catania e Roma. La città siciliana, in particolare, è descritta magistralmente in tutte le sue sfumature di colori, profumi e suoni. Catania è l’emblema di una vita molle e agiata, per chi se lo può permettere, che addormenta lo spirito e le membra con il suo «veleno dolcissimo», fatto di lunghe passeggiate per l’affollata Via Etnea, di circoli e pasticcerie (anzi, dolcerie) che sono il luogo di ritrovo preferito di una folla numerosissima di nobili, possidenti, ricche dame, avvocati e assicuratori che vivono solo per ostentare ciò che hanno o vorrebbero possedere. E anche Giovannino, come i suoi scapestrati amici, non riesce a sfuggire al destino di «una vita che scorre così liscia, così piana, così dolce che si può invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia».
La scrittura di Patti è ricercata senza essere sofistica, tanto che Montale l’ha descritta con un ossimoro, la “facilità difficile”. Lo scrittore siciliano alterna diversi registri, passando agilmente dal lirico all’umoristico; lo stile diventa uno dei punti di forza del romanzo, che scorre via docilmente pagina dopo pagina, inoculando nel lettore quel dolce veleno che era poi l’intima essenza della vita di Giovannino.