All fall down sconta il
pegno di essere il terzo album, quello che di solito viene considerato il
lavoro della maturità, su cui sono maggiormente puntati gli occhi della
critica. Se il primo disco è guardato con una certa indulgenza, mentre il
secondo serve per aggiustare la mira, il terzo è sempre visto come la prova del
nove. Dai The Sound era lecito aspettarsi un ulteriore salto di qualità, dopo
l’iniziale Jeopardy (1980) e il meraviglioso
From the lions mouth (1981). È stato
forse questo pregiudizio a condizionare i pareri, non sempre lusinghieri,
sul terzo lavoro del 1982. In effetti al primo ascolto parrebbe confermata
l’opinione di chi lo considera un passo indietro, la parentesi meno eccitante
di una discografia breve ma eccellente.
Gli ascolti ripetuti, però, rendono giustizia a un disco vario,
compiuto, deciso e coraggioso nelle scelte non convenzionali e non commerciali.
Qui l’anima plumbea di Borland raggiunge probabilmente il culmine di un’analisi
introspettiva lucida e malinconica, il racconto senza veli del male di vivere. Dark-wave allo stato puro, dunque.
Sezione ritmica in primo piano, con le trame cadenzate della batteria di Mike
Dudley e l’onnipresente basso di Graham Green. Il ritmo è rallentato, tanto che
nella title track sembra di assistere
agli ultimi palpiti di un cuore in agonia; eppure il gruppo è capace di
repentine accelerazioni, di slanci di vitalità che si collocano tra le cose
migliori di quegli anni. Il paragone con il resto della produzione di Borland
& soci è inevitabile, ma se ci soffermiamo sulle tracce, tralasciando il
passato e il futuro, c’è da rimanerne abbagliati. Monument è la canzone d’amore definitiva, perché dentro c’è tutto:
la paura, l’ascesa, la caduta e la sublimazione di una donna che «is not just a girl, not just a building for
the skyline, but a monument to love». Per non parlare di Party of the mind, che è un viaggio
allucinato di tre minuti nella mente di Borland, che sa essere al contempo cupo
e meravigliosamente ironico. Poi c’è l’accelerazione finale di Song and dance, di una perfezione così
straordinariamente terrena che verrebbe voglia di ballarla. Forse in questo
disco mancano un po’ le trame psichedeliche delle tastiere di Max Mayers; lo
capisci perché quando ci mette il suo tocco magico, come nelle tre note di Where the love is, la canzone si apre in
direzioni inaspettate, prende strade laterali che la trasformano in un
gioiello. Oppure si ascolti la conclusiva We
could go far, retta dal basso imperioso di Green, o ancora la coda di Song and dance, in cui tutto il gruppo
dà il meglio di sé. È proprio quando il suono si fa più coeso e partecipato che
il disco vive i suoi momenti più alti.
Un discorso a parte
merita Adrian Borland: le sue chitarre lancinanti, i testi disperati ma lucidi
e la sua interpretazione vocale sono in grado di dare il vestito
giusto al disco. The Sound era un gruppo affiatato, ma in All fall down si sente maggiormente la
scrittura di Borland, che ammanta ogni canzone di una carica di disperazione
senza eguali. Egli canta le tematiche più care, come il male di vivere,
l’inanità degli sforzi di cambiare, l’irrisolutezza, e lo fa allargando
la prospettiva dal piano individuale a quello collettivo (come in Red paint). Le atmosfere plumbee
predominano persino nelle canzoni d’amore, ma Borland è capace di
costruire deliziosi quadretti ironici (Party
of the mind) e di lanciare messaggi di speranza, sia pure in forma
dubitativa. Non è un caso che il disco si apra con una dichiarazione di resa e si
concluda con le timide parole di fiducia che chiudono We could go far.
Servono ripetuti
ascolti per cogliere l’aspetto decisivo, ovvero la compiutezza di fondo, la
circolarità di temi e ritmi, che ne fanno un lavoro in un certo senso perfetto.
Forse è l’album meno accessibile del quartetto inglese, ma è un disco che si
lascia comprendere, assimilare e amare con pazienza, alla distanza.
La criptica copertina di All fall down (1982)