10 giugno 2018

"Un uomo solo" di Carlo Cassola: una storia d'amore e d'anarchia

«Soprattutto lo confortava la coscienza di aver tenuto fede alle proprie idee». Così si conclude il breve ma intenso romanzo di Carlo Cassola, pubblicato nel 1978. Tito, il protagonista, alla fine della vicenda può tirare un sospiro di sollievo, perché ancora una volta la sorte è stata benigna con lui, consentendogli di maritare la figlia e (soprattutto) di non tradire i propri ideali. È lui l’uomo solo del titolo. Tito è solo in famiglia, nel paese e negli ideali. Solo in famiglia, perché la moglie e la figlia lo trattano come una bestia rara, all’apparenza spaventosa ma tutto sommato innocua e domabile. È solo nel paese, perché per le sue idee anarchiche ha subito il carcere, le perquisizioni e infine l’isolamento. È solo negli ideali, perché con l’avvento del regime fascista è stato chiuso il circolo libertario Germinal e tutti i compagni hanno tradito i vecchi ideali in nome della convenienza o del quieto vivere. Ha solo tre amici, con cui si vede la domenica: l’avvocato repubblicano Corsi, un barbiere comunista e un sarto socialista. Separati negli ideali politici, li unisce l’opposizione al fascismo e la circostanza di essere gli unici ostili al regime nel piccolo comune del grossetano in cui vivono. Sono gli anni della guerra in Etiopia e dell’Impero, gli anni del maggiore consenso del regime. Dunque sono quattro gli uomini soli del romanzo, più simili a quattro Don Chisciotte che a veri e propri rivoluzionari. La loro ribellione si traduce nelle lunghe chiacchierate, che spesso sfociano in divertenti alterchi su questioni prettamente ideologiche, su quanto fosse democratico lo Stato liberale e su quale debba essere la migliore forma di governo per il futuro. Solo Tito, da buon anarchico, se ne tira fuori: «la sua idea era che il mondo di prima non era migliore di questo. Era lo stesso un mondo di violenze e di sopraffazioni. Solo, in modo più nascosto. Adesso era come se tutte quelle iniquità fossero venute alla luce». I fascisti lasciano fare i quattro amici, consapevoli di non poter temere nulla dalle chiacchiere inconcludenti.
Intanto la vita di paese va avanti. Il caffè è il centro del potere, dove si riuniscono fascisti e simpatizzanti,  convinti o semplici opportunisti. Il villaggio è un microcosmo che ricalca la situazione complessiva dell’Italia di quegli anni: i fascisti in piazza, i pochi oppositori confinati, le masse indifferenti alle sorti del Paese. Di fatto, il “fascismo come autobiografia di una nazione” di cui parlava Gobetti. Tra gli opportunisti che fanno affari col regime c’è anche Agenore, il quinto uomo solo del romanzo. Nato povero, ha realizzato sconfinate ricchezze grazie al duro lavoro e alle mazzette. Ungere i potenti di turno e non inimicarsi nessuno pur di preservare gli affari è il suo unico credo. Un tempo amico di Tito, ne è l’esatto opposto; il fato, però, ha in serbo per i due ex amici un tiro mancino. Il figlio di Agenore e la figlia di Tito vogliono sposarsi, ma Agenore non può tollerare che il terzogenito impalmi la figlia di un sovversivo. Nasce così il conflitto ideologico che attraversa sottilmente le pagine del romanzo: è possibile rinunciare ai propri ideali per il bene di una figlia? Amore o anarchia, oppure è possibile salvarli entrambi? La conclusione sarà inaspettata non tanto nell’esito, quanto piuttosto nella spiegazione. A prevalere non saranno né l’amore né l’ideale: vinceranno l’interesse e la sensualità, tra le manifestazioni più intense dell’essere umano.
Tito sarà felice del risultato conseguito, ma non comprenderà mai il sottile meccanismo che ne ha governato gli esiti. Candido e disinteressato, è un personaggio destinato a rimanere a lungo nella mente del lettore. Pur con tutta la simpatia possibile che dobbiamo tributare a questo «maniaco della politica» (come lo definisce l’avvocato Corsi), non possiamo dimenticarne i limiti. Guidato da una fiducia cieca verso le persone, dà la colpa delle storture del mondo all’organizzazione sociale, ma non arriva a comprendere quanto male possa allignare nell’animo umano. Tito non sa convincersi che esiste una cattiveria in natura e anche per questo è destinato al fallimento, a perseguire indefessamente un ideale a cui rimane fedele pur sapendolo irrealizzabile.
Il romanzo di Cassola si legge tutto d’un fiato: scritto con uno stile essenziale, è ricco di piacevoli dialoghi e ricostruisce abilmente la realtà della provincia italiana negli anni tra le due guerre mondiali. Il regime è più che altro una cornice, tanto che i fascisti non appaiono mai in carne e ossa, ma vengono solo evocati dai protagonisti. Cassola è riuscito a dare al libro una direzione ben precisa, che trascende il mero impegno civile, per concentrarsi sulla sfera intima dei suoi protagonisti, sull’irrisolto conflitto tra sentimento e ideale, tra le esigenze del mondo concreto e le belle ma utopistiche costruzioni della mente.

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