Parlare de Il comunista o di uno qualsiasi
dei romanzi dello scrittore emiliano, significa inevitabilmente riproporre il
“caso Morselli”, ovvero il destino del narratore di talento ignorato in vita,
rifiutato dalle case editrici, riscoperto colpevolmente dopo il suicidio,
dovuto, si dice, agli immeritati rifiuti. Leggere i suoi libri consente di
comprendere le ragioni di tale ostracismo, che non dipese – e come avrebbe
potuto essere? – da demeriti letterari o assenza di talento, quanto piuttosto
dalla pervicace volontà di porsi ai margini della letteratura che andava per la
maggiore. Si pensi, per limitarmi a ciò che ho letto, all’ultimo uomo sulla
faccia della Terra protagonista di Dissipatio H.G., oppure alla meticolosa
riscrittura della Grande Guerra in Contro-passato prossimo; si tratta con ogni
evidenza di opere extra ordinem, di difficile classificazione e finanche
ostiche.
Fatte queste premesse, resta da capire perché
il medesimo trattamento sia stato riservato a Il comunista (1965), che pure
aveva un solido aggancio con la realtà dell’epoca. Erano gli anni dell’ascesa
del PCI, che si vantava di essere il più grande partito comunista
dell’Occidente, su cui si appuntavano gli sguardi preoccupati della CIA e degli
alleati americani. La ragione di tale insuccesso è contenuta in una famosa
lettera che Italo Calvino indirizzò a Morselli dopo aver rifiutato, in veste di
consulente dell’editore Einaudi, il libro in questione. Pur non negando i
meriti dell’opera, Calvino criticò la stessa scelta del romanzo politico,
affermando che «dal romanzo politico non mi aspetto nulla, né in un campo d’interessi
né nell’altro; credo cioè che si può fare opera di letteratura creativa con
tutto, politica compresa, ma bisogna trovare forme di discorso più duttili, più
vere, meno organicamente false di quello che è il romanzo oggi». Ma soprattutto
Calvino contestò la veridicità dell’opera di Morselli, sancendo senza appello
che «ogni accento di verità si perde quando ci si trova all’interno del
partito comunista; lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio
di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le
posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per
poterlo “inventare”».
A
distanza di cinquant’anni, scomparsa la cornice ideologica della stroncatura, è
doveroso leggere il romanzo secondo una diversa prospettiva. Il comunista del
titolo è Walter Ferranini, militante reggiano catapultato come deputato a Roma
per aver ottenuto qualche migliaio di preferenze. L’impatto con la vita romana
è per lui brutale, perché viene a scontrarsi con due mostri, il Parlamento e il
Partito. Il primo è il luogo delle chiacchiere, che quasi mai costituiscono il
preludio alle soluzioni nell’interesse del Paese. Mentre nella città natale
Ferranini era riuscito ad operare concretamente per il bene della classe
operaia, in Parlamento riesce ad esprimere solo stitici interventi, e per di
più si ritrova confinato in una delle commissioni meno utili. Se possibile, il
Partito si dimostra essere un’entità ancora più oscura e soffocante, il
Leviatano di hobbesiana memoria. Ferranini si rende conto ben presto di essere
estraneo alle dinamiche di Partito, destinato a scontrarvisi senza possibilità
di successo. Il PCI è descritto come una mastodontica struttura, attenta più
alle disquisizioni astratte che ai problemi concreti della classe operaia;
anzi, un partito intrinsecamente borghese, che dalla borghesia che vorrebbe
combattere ha mutuato vizi e ossessioni, non ultima la bigotta condanna delle
relazioni extraconiugali. In tale contesto, Ferranini è un uomo troppo onesto e
autocritico per sopravvivere: goccia a goccia gli eventi della vita romana
scavano un solco profondo nella sua psiche, aprendo una devastante crisi
di coscienza. Il deputato cerca di ammansire le voci di dentro, facendole
soccombere al dovere dell’obbedienza, ma l’esito è drammatico. La vera colpa di
Ferranini è quella di voler capire: accettare e servire dovrebbero essere gli imperativi,
mentre lui vorrebbe comprendere e agire nel segno del cambiamento. All’apparir
del vero, dovrà però riconoscere che il Partito è un monolite contro cui è vano
scontrarsi.
Quale insegnamento possiamo trarre oggi da Il comunista? Nulla o
quasi è rimasto dell’epoca raccontata dal romanzo: non esiste più l’URSS, né il
PCI, c’è chi parla persino del superamento del concetto di classe sociale.
Credo allora che la lettura del libro, se si riescono a decontestualizzare
le vicende, possa lasciarci un prezioso avvertimento, ovvero che ogni chiesa schiavizza i suoi adepti. Un uomo veramente libero non deve servire alcuna
chiesa o partito, se vuol preservare la propria inimitabile individualità.
Sappiamo che Morselli ha pagato con l’ostracismo questa pervicace
ostinazione a fuggire i legami della società; eppure il tempo, unico
galantuomo, gli ha dato infine ragione.