20 marzo 2020

Cavalcare la "nuova onda": l'omonimo disco d'esordio degli Psychedelic Furs

Ho scritto altrove che la new wave britannica accomunava gruppi dalle anime differenti. C'era chi esplorava umori plumbei (Joy Division; The Sound), chi non aveva rotto i ponti con il punk (Echo & The Bunnymen), chi proponeva soluzioni raffinate (Japan; The Comsat Angels; The Chameleons), chi giocava con l'elettronica (New Order), chi coltivava nevrosi urbane (Magazine). In questo calderone ribollente di idee, un posto di spicco era occupato da The Psychedelic Furs, sestetto londinese nato nel 1977, che pubblicò il primo omonimo LP nel 1980. Proprio di questo lavoro intendo parlare, facendo una dovuta precisazione. Il disco pubblicato in Inghilterra è composto da nove tracce, mentre la versione americana diverge per una copertina alternativa, ma soprattutto per la scelta e l'ordine dei brani. In particolare, l'edizione per il mercato statunitense conta dieci tracce, per effetto dell'eliminazione di Blacks/Radio e l'aggiunta di Susan's strange e Soap commercial. La mia recensione si riferisce a quest'ultima versione.
La formazione era composta da sei elementi: Richard Butler (voce), il fratello Tim al basso, John Ashton e Roger Morris alle chitarre, Vince Ely (batteria) e il sassofonista Duncan Kilburn. Il sestetto era ben collaudato: l'intreccio tra chitarre e sassofono ne era il marchio di fabbrica, assieme all'inconfondibile voce di Richard Butler, così simile ad una cantilena. L'aggettivo "psychedelic" non è scelto a caso, ma richiama la corrente di metà anni Sessanta, sebbene la band londinese adottasse un linguaggio moderno, con pochi agganci al passato. Bowie è forse il più immediato punto di riferimento, con echi alla Kinks e Velvet Underground. Il punk occhieggia dietro l'angolo, ma la sua furia selvaggia è ammansita da un linguaggio più raffinato e colto.
Il disco vive di fasi alterne, intervallando pezzi destinati ad entrare nella storia della new wave a momenti trascurabili. Alla prima categoria appartiene certamente l'iniziale India, che cala l'ascoltatore nelle atmosfere tipiche della band; è una sorta di disordine ragionato, in cui gli unici punti di riferimento sono le chitarre effettate e la voce grave di Richard Butler. I livelli restano altissimi con la plumbea Sister Europe, a cui è legato un divertente aneddoto. Secondo il racconto di Richard Butler, fu il produttore Steve Lillywhite a suggerirgli il modo di cantare: “vai in un pub e scolati due birre; quando tornerai, ti voglio sentire cantare come farebbe uno che parla al telefono alle tre del mattino”. Ma il capolavoro del disco rimane l'iconica Imitation of Christ: musica e testo raggiungono l'apice, in un crescendo di immagini vivide che lasciano senza fiato. Susan's strange è invece una traccia presente solo nella versione statunitense, ma sarebbe sbagliato definirla un mero riempitivo. L'incedere è lento e sognante, regala momenti di placida spensieratezza rispetto agli altri brani citati. Egualmente valida è l'altra canzone presente solo sulla versione a stelle e strisce, Soap commercial. Il resto scorre via senza particolari sussulti, con brani che avrebbero forse meritato una scrittura più meditata (su tutti, Wedding song e Flowers).
Molte riviste e siti specializzati lo considerano un lavoro imprescindibile per chiunque voglia approcciarsi alla new wave. Non nego che si tratti di un disco di agevole assimilazione, quantomeno rispetto a lavori maggiormente complessi e innovativi. Questo però ne è anche un evidente limite; se è vero che vi sono gemme di altissima qualità, resta pur sempre una tracklist poco omogenea, che risente pesantemente del tempo passato nei pezzi di minore valore assoluto. A mio avviso, è più che altro un necessario completamento, destinato a quanti abbiano voglia di approfondire un genere che ha dato la stura a tutta la produzione successiva, compresa quella contemporanea.
 Copertina dell'edizione statunitense
Retro dell'edizione statunitense (LP)

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