2 giugno 2020

"Il giardino di cemento" di Ian McEwan: preservare l'imperfezione per non disperdersi

È incredibile come possano trovarsi inaspettate connessioni tra libri letti in momenti diversi della vita. Era il 1997 quando acquistai Voglio tornare a casa di Cynthia Voigt, uno splendido romanzo per l'infanzia pubblicato in Italia da Salani. La vicenda dei quattro fratelli Tillermann, orfani di padre e con la madre ricoverata in un ospedale psichiatrico, mi colpì molto. I quattro, rimasti soli ma uniti da un solido vincolo affettivo, fuggono dagli assistenti sociali e compiono un viaggio on the road nell'America rurale, alla ricerca della nonna che non hanno mai conosciuto. A distanza di oltre vent'anni, Il giardino di cemento mi ha riportato alla mente il romanzo della Voigt, pur con le dovute, enormi differenze; la vicenda narrata da McEwan ha infatti tratti morbosi e inquietanti, ma soprattutto non si conclude con un consolante lieto fine.
Julie, Jack, Sue e Tom hanno tra i diciotto e gli otto anni e vivono assieme ai genitori in una immensa casa nella squallida periferia inglese, una specie di purgatorio postindustriale che non è né campagna né città. La loro è l'unica casa ancora in piedi nella via; intorno solo macerie, in lontananza enormi alveari umani chiamati genericamente “i grattacieli”. Il padre è un uomo chiuso, «ossessivo, fragile e irascibile», incapace di slanci emotivi diversi dagli scoppi d'ira; l'unica sua passione è la cura maniacale del minuscolo giardino intorno all'abitazione. Malato di cuore, è stroncato da un infarto davanti al figlio Jack. La mamma è una donna buona e dolce, granitico punto di riferimento affettivo per i quattro figli. Purtroppo anche lei si ammala e si spegne a casa dopo una lunga agonia, rifiutando il ricovero ospedaliero. Non avendo parenti o amici stretti, i fratelli tengono nascosta la morte della madre e ne occultano il cadavere in cantina, all'interno di un grosso baule che viene riempito di cemento fino all'orlo.
Qual è la ragione di una decisione apparentemente così folle? I fratelli non hanno una risposta; ciascuno è chiuso nel proprio universo e ritiene di aver fatto la scelta giusta, l'unica possibile. McEwan ci regala il sentito e toccante resoconto di una giovinezza malata e sofferta, incapace di porsi le domande giuste e che non sa trovare un senso alle proprie azioni. Ogni personaggio è funzionale e insostituibile in questo perfetto meccanismo narrativo: Julie è al tempo stesso virginea e provocatrice, Jack vive un'adolescenza ribelle e rugginosa, Sue annichilisce il dolore nella lettura e nella scrittura, Tom è alla ricerca di un'identità sessuale che non riesce a definire.
Annunciare al mondo la morte della madre sarebbe la scelta più facile e comoda. I quattro fratelli, però, sono intimamente convinti che ciò significherebbe l'intervento dei servizi sociali, il trasferimento in istituto, l'abbandono della casa, il rischio che della loro imperfetta ma irripetibile unità familiare non resti che la cenere. Solo alla fine questo senso viene svelato, nell'ultima toccante scena che rivela il profondo amore che avvince i fratelli. I quattro sanno di essere un'unità imperfetta, un nucleo claudicante e difettoso, eppure è solo lo stare insieme che impedisce la dispersione dell'unica identità che conoscono. Letto secondo questa prospettiva, il loro gesto assume un significato alto e inimitabile. Il baule diventa sarcofago, la cantina è un monumento funebre, l'occultamento del corpo della madre ha la valenza di un perfetto atto d'amore. Di fronte alla rivelazione, ogni giudizio morale è destinato a cadere, ogni pregiudizio ad arrendersi.
Il giardino di cemento, pubblicato nel 1978, è il romanzo d'esordio di uno scrittore di razza, che riesce a tratteggiare con toni vividi il male di vivere che può albergare in un animo adolescente. È un libro duro, a tratti disturbante, di fronte al quale non si può rimanere indifferenti. McEwan sa tracciare un segno profondo nella sensibilità del lettore, oltre a lanciare tanti inestricabili interrogativi, destinati però a rimanere insoluti; scioglierli significherebbe svelare il profondo mistero dell'essere umano, un compito che nessun romanzo può assumersi senza rischiare di essere bugiardo e parziale. Nel coacervo di sensazioni che il libro lascia, sarà la pietas a emergere alla fine, in una sorta di rito catartico che purifica il cuore e  la memoria dei protagonisti.

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