3 aprile 2021

Attraverso il deserto emotivo: "Un cuore in inverno"

Filofobia è un termine che a molti non dice nulla. Persino il suo significato, ossia la “paura di amare”, rimane oscuro alla maggioranza delle persone, sconcertate al solo pensiero che il sentimento per eccellenza possa generare ansia e timore, attivando meccanismi di fuga ed evitamento. In parole povere, la filofobia è l'atteggiamento di chi matura un terrore per le relazioni, la paura di “cadere” nell'amore (“to fall in love”) e perdere il controllo e la libertà. Non è un modo di dire, un atteggiamento filosofico o narcisistico, ma una vera e propria fobia. La tematica è stata talvolta affrontata al cinema, sempre con superficialità. Di solito c'è un confortante lieto fine in cui il protagonista “guarisce” e si butta a capofitto in una relazione a cui inizialmente era ostile. Niente di più falso, o almeno niente di più inverosimile. 
Un cuore in inverno (1992), per la regia di Claude Sautet, è invece una pellicola di disarmante realismo, che non offre soluzioni consolanti; la filofobia ne è il tema portante, sebbene non venga mai espressamente menzionata. Protagonista è Stéphane – interpretato da un eccellente Daniel Auteuil –, un liutaio quarantenne che fa del lavoro l'unica ragione di vita. Gestisce un laboratorio di liuteria assieme al socio Maxime, da cui diverge per lo stile di vita e l'atteggiamento verso le donne. Stéphane è solitario, equilibrato, riservato, morigerato nei costumi e nelle parole; vive nel retro del laboratorio e da anni ha rinunciato alle relazioni. Maxime è l'esatto opposto: è un gaudente e traditore seriale, abituato al bel mondo e alle belle donne. I due non sono amici, semplicemente soci. Nella dimensione del lavoro hanno trovato un perfetto equilibrio: Maxime è la mente e Stéphane il braccio, il primo procaccia clienti e il secondo li soddisfa. Questo meccanismo apparentemente immutabile entra in crisi quando l'ultima fiamma di Maxime, la bella violinista Camille (Emmanuélle Beart), si innamora inaspettatamente di Stéphane, scontrandosi amaramente con l'incapacità di amare del liutaio. Le parole di quest'ultimo sono una pietra tombale sulle speranze della ragazza. 
«Vuoi a tutti i costi che io sia come tu immagini, un'altra persona, ma io sono come sono.» 
Stéphane è circondato dall'amore degli altri, che si manifesta in tutte le forme: coppie che litigano, che si sposano, si lasciano, si sostengono fino alla morte. Eppure lui resta imperturbabile di fronte a queste vicende, che non possono riguardarlo. Lo sguardo di Sautet non è mai invasivo, si concentra su sottotrame che evidenziano per contrasto il deserto emotivo del protagonista: memorabile in proposito la scena al caffè, con la coppia che prima litiga e poi si riappacifica sotto gli occhi critici e disincantati di Stéphane. Ho detto che la pellicola non regala il classico lieto fine, ragione in più per alzare il voto complessivo. Il muro che Stéphane ha frapposto tra sé e gli altri è invalicabile, troppo rigido il gelo del suo cuore.  
Un cuore in inverno è un film quasi dimenticato, anche se all'epoca incontrò il favore di pubblico e critica: alla Mostra del cinema di Venezia del 1992 si aggiudicò il Leone d'argento e il Premio speciale alla Regia. È una pellicola lenta, nel senso positivo del termine: poche parole, tanti sguardi, un'unica scena sopra le righe (lo schiaffo di Camille a Stéphane). Non a caso il film è stato girato quasi interamente negli interni, per dare maggiore profondità agli intensi primi piani dei protagonisti. Un appartamento, i bar, lo studio di registrazione e il laboratorio di liuteria fanno da sfondo a una vicenda amara e malinconica, che tuttavia non cade nel facile piagnisteo o nel rimpianto. Sautet posa uno sguardo carezzevole e delicato sui suoi personaggi, ma delicatezza non significa superficialità; anzi, il regista francese rovista così profondamente nell'animo tormentato dei protagonisti, che tutti ne escono svuotati, nudi, ammantati solo dalle loro umane debolezze.
La locandina italiana

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