22 giugno 2025

"Una manciata di more" di Ignazio Silone: l'imperdonabile tradimento

La terra è il grande tema della letteratura meridionale del Novecento. O meglio, a voler essere più precisi, è la lotta per la terra tra braccianti e possidenti, "cafoni" e "galantuomini" per dirla con altri termini, ad aver costituito il principale ambito d'interesse di questo filone letterario. Alvaro, Jovine, Alianello, Silone, solo per ricordarne alcuni, hanno descritto nei propri romanzi un Meridione diviso tra le sirene del progresso e il richiamo della tradizione ancestrale, tra le speranze di un futuro migliore e l'amara disillusione che segue alla constatazione che nulla può veramente cambiare. La terra è il termometro di quella società apparentemente immutabile, eppure percorsa da sotterranei fremiti di rivolta: solo quando la terra sarà di chi la lavora, sostengono i meridionalisti, il Sud potrà dirsi veramente liberato dalle antiche catene. Una manciata di more (1952), per molti il più maturo tra i romanzi di Silone, si inserisce in questa corrente di impegno civile.
In una desolata contrada dell'Italia meridionale, un angolo della Marsica tanto cara all'autore, si consuma una vicenda che è lo specchio di quel che accadeva in altre centinaia di identiche località del Mezzogiorno. Qui la terra è identificata nella "selva" e i possidenti sono i membri della famiglia Tarocchi. La selva è una vasta foresta da secoli contesa tra i miseri braccianti, che ne rivendicano l'uso comune secondo antiche servitù, e i membri della potente famiglia dei Tarocchi, che con sotterfugi, imbrogli e ingiustizie la vogliono tutta per sé. Eppure anche in questa landa misera e arsiccia si alza il vento della rivoluzione, o meglio il suo suono: c'è una tromba che incita i contadini a riunirsi e a marciare per far valere i propri diritti. Nessuno sa con precisione dove si trovi, perché subito dopo l'uso viene nascosta per impedire che le autorità la sequestrino. Così è successo con le rivolte sociali di inizio secolo e poi durante il fascismo; ogni volta che il suono della tromba si è diffuso nella vallata, i ricchi proprietari terrieri, appoggiati di volta in volta dalle autorità, hanno tremato, temendo di perdere i loro privilegi.
Caduto il regime fascista e terminato anche il secondo conflitto mondiale, nulla è cambiato nelle campagne della Marsica. Un nuovo attore è tuttavia apparso sulla scena, quel Partito Comunista che ha ambizioni di governo, dopo gli anni della clandestinità e la vittoria nella guerra di Liberazione. Per quanto sia un romanzo corale, il personaggio principale può essere identificato in Rocco De Donatis, di professione ingegnere, figlio eletto di quella terra funestata dalla miseria e dalle tragedie umane e naturali (il terribile terremoto del 1915). Rocco è un dirigente comunista, eppure in lui cresce l'insofferenza nei confronti del Partito, fino a trasformarsi in aperta ostilità. Rocco è appena tornato da un viaggio in Unione Sovietica, dove ha visto il volto crudele dell'ideale politico a cui ha dedicato tutta la propria vita. Ha scritto un memoriale sulla sua esperienza nella terra dei soviet e, tornato in Italia, assume un atteggiamento critico contro le decisioni dell'alta dirigenza, prona ai diktat di Mosca. Rocco invece vuole fare di testa propria e addirittura ha una convivenza more uxorio con una ragazza ebrea di nome Stella, attirandosi ancora di più le ire dei papaveri di Partito. In breve inizia una campagna di delegittimazione nei suoi confronti, fino al palese ostracismo.
La drammatica vicenda di Rocco svela ambiguità e ipocrisie del Partito, sebbene entrambi teoricamente perseguano il medesimo obiettivo, ovvero la tutela dei diritti dei contadini. Una manciata di more è dunque un durissimo atto d'accusa contro il P.C.I. Silone sembra voler dire che la questione vera, il male profondo del Mezzogiorno, è nella mancata riforma agraria, promessa da tutte le forze di governo succedutesi dal 1861 e mai realizzata. E la cosa ancora più grave è che neppure il Partito Comunista abbia messo mano alla questione, sebbene a rigor di logica fosse quello che sosteneva le rivendicazioni dei braccianti. Ecco perché per Silone le etichette ideologiche sono inutili e finanche dannose, così come lo sono per il suo personaggio Rocco, di cui è evidente lo spunto autobiografico.
La fotografia che viene fatta del Partito Comunista è impietosa: ne esce l'immagine di un'organizzazione asfissiante, bigotta, assuefatta dagli stessi vizi borghesi che vorrebbe estirpare, una struttura che non ammette il dissenso interno e mette a tacere le voci critiche. E allora, ai contadini meridionali traditi persino da chi avrebbe dovuto difenderli, non resta che mettere mano ancora una volta alla tromba che da secoli li chiama a raccolta.
Recente edizione Oscar Mondadori

9 giugno 2025

Daryl Zed: chi sono i mostri?

La pubblicazione in unico volume della miniserie dedicata a Daryl Zed era attesa dal 2020, ma ha visto la luce soltanto a maggio di quest'anno. L'albo tutto a colori di 192 pagine, ovviamente a cura di Sergio Bonelli Editore, è disponibile in edicola al prezzo di 7,90 euro. Il volume era già pronto da anni, come detto, ma non era mai stato distribuito. Le ragioni del ritardo sono state spiegate da Tiziano Sclavi in una lettera aperta che potete trovare sul sito della Bonelli.
Daryl Zed è un'opera di meta-fumetto, nel senso che si tratta di un espediente narrativo per cui un fumetto (Dylan Dog) contiene al suo interno un'altra testata (Daryl Zed), che a sua volta contiene un terzo fumetto (ancora una volta Dylan Dog). Nella finzione letteraria di Dylan Dog, Daryl Zed è un fumetto scritto da un amico di Dylan ispirandosi proprio alla figura dell'Indagatore dell'incubo. E nella finzione letteraria di Daryl Zed c'è un amico del protagonista, un fumettista chiamato Tiz con le sembianze di Sclavi, che ha creato un fumetto chiamato Dylan Dog, ispirandosi alle avventure di Daryl. Insomma, un complicato gioco di scatole cinesi in cui Dylan è fonte di ispirazione per Daryl che a sua volta è fonte di ispirazione per un altro Dylan.
Il personaggio fece la propria comparsa nell'albo 69 di Dylan Dog, intitolato Caccia alle streghe, celebre soprattutto perché si inserì nella vera e propria crociata che taluni esponenti della politica e dell'associazionismo lanciarono all'epoca contro alcuni fumetti, ritenuti un'incitazione alla violenza, se non addirittura un'istigazione a delinquere. Quelle prese di posizione, lo dico per inciso, fanno quantomeno sorridere se pensiamo ai giorni nostri, in cui smartphone e social stanno creando un esercito di veri e propri zombies privi di fantasia, al confronto dei quali i tanto bistrattati fumetti avevano quantomeno la capacità di stimolare l'immaginazione dei lettori.
Daryl Zed non è altri che un personaggio secondario (anzi, del tutto marginale) che diventa protagonista di una propria serie. L'albo della Bonelli ora in edicola contiene tre storie, tutte legate da un filo conduttore: I mostri sono loro (Faraci/Mari), Il sangue è acqua (Faraci/Stano) e Cerchio chiuso (Faraci/Dell'Edera). Il tutto condito da una vivace colorazione in stile pop art con le pagine deliziosamente ingiallite, a dare un'aura rétro.
Il protagonista è semplicemente un cacciatore di mostri, come chiarisce anche il titolo dell'albo, un uomo tutto d'un pezzo dalla mascella squadrata e dai modi bruschi che per lavoro libera il mondo da ogni sorta di creatura malvagia: alieni, rettiliani, licantropi e soprattutto vampiri. Una specie di Maurizio Merli o Luc Merenda nei panni del commissario di ferro dei poliziotteschi italiani degli anni Settanta. Daryl si muove in un mondo che potrebbe appartenere al recente passato o al prossimo futuro, caratterizzato da atmosfere cupe e spesso violente, un mondo che è messo in pericolo dai crimini efferati commessi da bizzarre creature, per l'appunto i mostri. È pertanto necessario l'intervento repressivo della polizia, coadiuvata dal nostro eroe. Una trama semplice, una struttura classica e lineare, potremmo dire tagliata con l'accetta, tutto il contrario delle raffinatezze di Dylan Dog. Daryl infatti non è un personaggio con velleità artistiche o letterarie; ha lo sguardo cinico e duro, porta sempre in bella vista una pistola e parla come un qualsiasi piedipiatti di un romanzo hard boiled.
Ci sono delle somiglianze tra Dylan e Daryl: entrambi hanno un amico poliziotto, sono schivi e solitari, vivono situazioni al limite con personaggi ricorrenti (su tutti, Johnny Freak). È però diversa, anzi antitetica, la filosofia dei due personaggi, la prospettiva da cui osservano la realtà. Dylan è un uomo tormentato che sa di non avere la verità in tasca; per lui il mondo non è solo bianco e nero, ma fatto di tante gradazioni di grigio, al punto che non è facile capire chi siano davvero i mostri. «I mostri siamo noi» è solito ripetere, a voler significare che il male può albergare in tutti, qualunque significato possa avere il concetto di "male", che per Dylan non è universale. Daryl invece ha una visione manichea del mondo, fatto di buoni e cattivi, dove i primi sono indiscutibilmente positivi e i secondi sono irrimediabilmente malvagi; non esistono sfumature, non è possibile sbagliare e i mostri vanno liquidati senza pietà né ripensamenti. «I mostri sono loro» è solito affermare, né ammette che tale assunto possa essere messo in dubbio.
Leggere Daryl Zed è come affrontare Dylan Dog in una prospettiva rovesciata, un gioco degli specchi in cui l'orrore è il medesimo ma senza possibilità di redenzione o di differenti interpretazioni. La domanda allora resta aperta: ma chi sono veramente i mostri, noi o loro?