In uno sperduto convento della campagna
veneta, una giovane novizia di nome Rita Passi viene colta da atroci dubbi
sulla propria vocazione ad un passo dal prendere il velo. Desiderosa di
salvarsi da quella che considera una condanna, rivela le sue ambasce in
un’accorata lettera indirizzata a don Giuseppe Scarpa, sacerdote che qualche
giorno prima aveva fatto visita al convento. Inizia così un turbinio di missive
tra una pluralità di persone, che cercano di dipanare una matassa, non solo
morale, che si dimostrerà impossibile da sbrogliare; quello che sembrava essere
semplicemente il naturale sommovimento di uno spirito giovane, finisce per
diventare un increscioso caso di cronaca, tale da sconvolgere l’esistenza di quanti
ne vengono a conoscenza. È questa, in parole povere, la trama del romanzo di
Piovene, pubblicato nel 1941 e considerato un classico. Confesso che, quando il
libro mi è capitato tra le mani, l’ho inizialmente considerato di scarsa
attrattiva, ma ho dovuto ricredermi già dalla lettura della prima lettera. Il
caso narrato da Piovene va oltre la tematica religiosa, per elevarsi a
paradigma di studio della natura umana e della sua doppiezza. Parlando
dell’ambiguità dell’uomo, il poeta gallese Dylan Thomas rivelava che servivano
dieci paradossi per ricomporre in lui un’unica verità. In un certo senso, è
questo il messaggio lanciato da Piovene: tutti i suoi personaggi hanno un fondo
di ambiguità, che li conduce a giustificare le proprie azioni agli occhi degli
altri, nella costante paura di un giudizio. Le loro azioni sono guidate
dall’istinto, e questo li porta ad autoassolversi, a cercare negli altri (e nel
lettore) una conferma della propria innocenza. Si pensi a quanto scrive Rita
sull’amore, che sente «come precario e
condannato, più una invenzione e specialità mia che un sentimento naturale e
comune». Tale convinzione, mai scalfita da dubbi, la conduce agli errori
che ne funesteranno la giovane vita.
Lettere di
una novizia promette, pagina dopo pagina, la rivelazione di una verità che
permane invece oscura. Chiuso il libro, rimane sospesa una domanda: qual è la
verità? Quella torbida e ambigua narrata da Rita, oppure quella gravida di
risentimento esposta dalla madre? Una risposta non è data, perché ciò che a
Piovene interessa non è la scoperta del vero, quanto piuttosto l’accettazione dell’impossibilità
di tale scoperta. Ma d’altronde la verità è sconosciuta agli stessi
protagonisti. Nell’introduzione, Piovene scrive che «i personaggi […] hanno un punto comune: tutti ripugnano dal conoscersi
a fondo; […] ognuno tiene i suoi pensieri sospesi, fluidi, indecifrati, pronti
a mutare secondo la sua convenienza». Per questa ragione il romanzo non vive
della classica dicotomia buono/cattivo; tutti i personaggi mentono, tutti
cercano di giustificare le proprie azioni scaricando le colpe sugli altri e sul
fato. La novizia Rita è l’emblema di questa ambiguità; è al tempo stesso
vittima e carnefice, ingenua e maliziosa, al punto da soccombere a tale
doppiezza.
In conclusione, Lettere di una novizia è il racconto epistolare di una crisi di
coscienza, l’intimo resoconto di un segreto rovello in grado di sconvolgere le
esistenze di quanti ne sono venuti a conoscenza. C’è poco da dire sulla qualità
della scrittura. Piovene è un grande narratore e rimane un piacere leggere le
quarantadue lettere che compongono il romanzo, sempre in bilico tra uno stile colto
e la cruda cronaca dei tormenti del cuore.
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