30 gennaio 2021

"Il vizio dell'agnello" di Andrea G. Pinketts: il Male indossa una maschera

Ho acquistato un altro libro di Pinketts dopo tanti anni dalla lettura de Il senso della frase, che all'epoca mi aveva colpito molto. Da allora avevo perso di vista lo scrittore milanese, né avevo seguito le sue fortune, anche televisive. Da quando ho appreso la triste notizia della sua morte, però, mi sono ripromesso di riprendere il discorso interrotto. L'occasione si è presentata qualche giorno fa, quando ho adocchiato una copia de Il vizio dell'agnello in uno dei chioschi di usato e remainders che ancora sopravvivono. Devo riconoscere che, a distanza di tanti anni, l'esperienza si è rivelata entusiasmante. Peraltro, sono legato a Pinketts da un aneddoto personale, per quanto minimo, avendo avuto occasione di parlare con lui al telefono. Fu gentile e mi dispensò preziosi consigli, dandomi la felice impressione di un artista autentico e disincantato nonostante il successo, come confermano le persone che gli sono state più vicine.
Il vizio dell'agnello (1994) è il secondo romanzo della lunga saga con protagonista Lazzaro Santandrea (o Sant'Andrea), dopo l'esordio di Lazzaro, vieni fuori (1991). Lazzaro, vero e proprio alter ego dell'autore, è un ventottenne con un passato turbolento, che si guadagna da vivere scrivendo qualche articolo da freelance o posando come modello per fotoromanzi softcore destinati al mercato estero. Da qualche tempo, però, ha aperto un'altra attività, ai confini della liceità. Sotto lo pseudonimo di dottor Totem, offre consulenze a persone con “problemi psicologici”, senza avere né il titolo né l'esperienza in una materia così delicata. Un giorno si presenta al suo studio – in verità la casa della nonna – una strampalata coppia di origini iugoslave, disperata perché la figlia Branka, un tempo bambina buona e obbediente, ha cominciato ad avvelenare per sadismo i piccioni di Piazza Duomo, fino a puntare alla preda più grande, l'uomo. È stata davvero Branka, ex bambina buona ora affetta dal “vizio dell'agnello”, ad avvelenare anche i due barboni morti in circostanze misteriose negli ultimi giorni? Lazzaro si trova coinvolto suo malgrado in un'indagine all'apparenza inestricabile. Al suo fianco gli strampalati amici di una vita: il neo tassista Duilio Pogliaghi e l'aspirante attore depresso Antonello Cairoli. Lazzaro e la sua cricca si muovono in una Milano ad alta gradazione alcolica, malinconica e poetica, una “città di pazzi e di cani”, in cui persino la violenza è riconducibile a gesto artistico. 
Colpisce la qualità della scrittura di Pinketts, dote rara in un autore “di genere”. Accade spesso che, chi si cimenta nel giallo, il noir o l'hard-boiled, prediliga la trama rispetto allo stile, concentrandosi sull'intreccio a discapito della forma. È questo il motivo per cui il poliziesco e la fantascienza sono stati a lungo snobbati dalla critica e dai lettori più intransigenti. Pinketts, invece, era uno scrittore vero, prestato a un genere. L'aveva capito Fernanda Pivano, che lo elogiò pubblicamente con parole di stima: «caro Pinketts, mio caro giovane pazzo amico, quanto sei bravo!». Il vizio dell'agnello ne è la prova. Pinketts ci restituisce con vivide pennellate gli umori di una Milano nevrotica e nera, i dolori di un'epoca, la fine degli anni Ottanta, che oscilla tra gli ultimi palpiti di un mondo che fu e l'avanzare della contemporaneità scialba e impoetica. Lo fa con una scrittura moderna, senza retorica e agile, eppure priva degli eccessi “giovanilistici” che caratterizzeranno parte della produzione letteraria nostrana degli ultimi vent'anni. Questa cura nello stile e nella ricerca delle parole, unitamente alla costruzione di dialoghi credibili e articolati, sebbene a tratti surreali, accomuna lo scrittore milanese a un altro autore di razza che ci ha lasciati troppo presto, Pier Vittorio Tondelli. 
Pinketts descriveva un mondo che conosceva bene, la Milano dei quartieri a ridosso del centro storico, divisi tra l'antica vocazione popolare e il richiamo borghese del lusso e del successo. I suoi personaggi si muovono in teatri, cinema di seconda categoria, appartamenti signorili in palazzi decadenti e soprattutto bar, caffè, pub, locali notturni, vinerie, mescite. Pinketts descrive l'atmosfera in cui è cresciuto e diventato uomo. Non è un caso, poi, che questo sia un romanzo dove hanno un ruolo centrale le madri, mentre sono del tutto assenti i padri. Si tratta di un ulteriore richiamo autobiografico, come ben sa chi conosce il simbiotico rapporto tra lo scrittore e la mamma, ribadito anche in una delle sue ultime interviste. 
Non solo consiglio vivamente la lettura del romanzo, anche e soprattutto a chi non è un amante del noir, ma mi sento di suggerire l'acquisto in blocco del trittico iniziale della saga di Lazzaro Santandrea. Lazzaro, vieni fuori, Il vizio dell'agnello e Il senso della frase sono romanzi freschi e divertenti, espressione del talento smisurato di uno degli ultimi scrittori di razza. 

16 gennaio 2021

I fantasmi romani di Eduardo e Mastroianni

Roma, primi anni Sessanta. In un avito palazzo del centro storico vive il sessantacinquenne principe Annibale di Roviano (Eduardo De Filippo), erede di un'antichissima stirpe che annovera tra le sue fila notabili e cardinali. Nel palazzo è persino conservata una “sedia papale”, a ricordo delle passate visite dei pontefici. Don Annibale però non se la passa bene: pur mantenendo ostinatamente il suo orgoglio principesco, possiede pochissime sostanze, appena sufficienti per pagare un portiere tuttofare e per il quotidiano pasto al ristorante. Il Paese si sta trasformando, sono gli anni del boom economico; di pari passo con il declino delle famiglie nobiliari c'è la rapida ascesa di un'imprenditoria moderna, scaltra, disposta a tutto pur di fare quattrini. Il decadente palazzo dei Roviano, posto com'è al centro di Roma, diventa l'obiettivo di immobiliaristi senza scrupoli, che vorrebbero raderlo al suolo per costruire un supermercato con annesso garage coperto. Don Annibale non è disposto a cedere alle sirene del progresso e si rifiuta di vendere il palazzo, nonostante le generose offerte. La sua ostinazione ne accresce la fama di uomo strampalato, già consolidata per via dell'abitudine di parlare da solo, o meglio, con invisibili presenze che lui chiama “fantasmi”. 
Nonostante lo scetticismo che lo circonda, don Annibale ha ragione. Egli non è solo, perché nel palazzo si aggirano gli spiriti di quattro suoi antenati morti in modo violento, che per questo motivo sono destinati a vagare in eterno negli stessi luoghi in cui hanno vissuto, senza poter raggiungere la pace eterna. Sono il fratello Poldino (morto da bambino), Fra Bartolomeo (Tino Buazzelli), Reginaldo (Marcello Mastroianni) e l'ingenua Flora (Sandra Milo). Nessuno li può vedere, ma i quattro aleggiano ancora nel mondo dei vivi, potendo finanche intervenire nelle vicende umane, sia pure in modo limitato. Sono fantasmi buoni, numi tutelari della casa, che hanno mantenuto i (tanti) vizi e le (poche) virtù di quando erano in vita. La loro placida esistenza post mortem, che da secoli corre lungo i soliti binari, viene però stravolta da un avvenimento imprevisto, che ne mette a rischio la permanenza nel prestigioso immobile. Pur di non essere “sfrattati” dalla secolare dimora, i quattro sono costretti a intervenire nel mondo dei vivi, con l'aiuto di un abile pittore, anch'egli un fantasma, interpretato da Vittorio Gassman. 
Fantasmi a Roma (1961), per la regia di Antonio Pietrangeli, è prima di tutto una commedia delicata e garbata, con molte gag e battute divertenti. La sceneggiatura, oltre che dallo stesso Pietrangeli, è firmata da Ennio Flaiano ed Ettore Scola. A contribuire alla riuscita del film è soprattutto il cast stellare: Eduardo caratterizza don Annibale di una profonda e ironica umanità, Mastroianni interpreta tre personaggi con istrionica maestria, Buazzelli e la Milo sono eccellenti comprimari. 
L'assenza di effetti speciali non rende meno credibile la storia, che anzi è sviluppata egregiamente pur nella povertà dei mezzi tecnici. I fantasmi sono resi con un espediente cromatico, una patina azzurrina che ne ricopre i volti e le vesti. È questa semplice differenza di tonalità, che come detto non necessita di effetti speciali, a segnare il distacco tra la vita e la morte. Si tratta di una soluzione semplice, forse persino pioneristica e artigianale, ma di grande efficacia. Il film rappresenta dunque il dualismo morte/vita senza esasperarlo, con toni leggeri: i morti coabitano con i vivi e sanno persino intervenire nelle vicende umane, orientandole verso il bene. Un messaggio se si vuole pacificatorio, o comunque rassicurante. Sarebbe però riduttivo classificare la pellicola come una commediola spensierata, senza approfondirne i risvolti di feroce critica sociale e dei costumi. Fantasmi a Roma è infatti un'arguta analisi dell'Italia del boom economico, sia pure mediata attraverso la lente del racconto fantastico. In primis, il film di Pietrangeli lancia i suoi strali polemici contro la cementificazione selvaggia, che tanti danni ha fatto al Bel Paese proprio a partire dagli anni Cinquanta del Novecento. Emblematica, a tal proposito, è la figura dell'ingegnere che vuole acquistare il palazzo dei Roviano per abbatterlo e costruirci un supermercato: i suoi idoli sono il progresso e il profitto, e ciò che li ostacola deve essere abbattuto a colpi di ruspa. Nel film si contrappongono dunque i due volti antitetici di Roma: il centro storico e la periferia, la culla del glorioso passato e l'emblema di un presente impoetico e scialbo. E ancora, la pellicola è un atto di accusa contro la burocrazia tentacolare, la corruzione, il dolo della classe dirigente di voler svendere le bellezze del Paese agli speculatori senza scrupoli. 
In conclusione, Fantasmi a Roma è un film che si presta a più letture: è adatto per le famiglie, ma al tempo stesso fa riflettere. La sua forza è nella semplicità della trama e nella straordinaria interpretazione di alcuni tra i più grandi attori del Novecento.
La locandina del film

2 gennaio 2021

"L'apprendista del sole" di Gian Piero Bona: il Divino è nel cuore di ogni uomo

Gian Piero Bona, il “poète extraordinaire” secondo la definizione di Jean Cocteau, ci ha lasciati lo scorso 27 ottobre, all'alba dei suoi novantaquattro anni. Praticamente nessuno ne ha parlato, salvo due articoli sul Corriere della Sera e La Stampa. È stato poeta, romanziere, traduttore e fine esoterista, conosciuto soprattutto per lo scandaloso esordio de Il soldato nudo (1960) e l'intenso Il silenzio delle cicale (1981), vincitore del Premio selezione Campiello. Le sue ultime fatiche sono il romanzo autobiografico L'amico ebreo (2016) e la raccolta lirica La volontà del vento (2018). Figura eccentrica e controcorrente, al di fuori delle logiche partitiche e partigiane del mondo culturale italiano, Bona meriterebbe di essere riletto e riscoperto. Ben venga allora l'iniziativa della casa editrice Lindau, che ha ristampato diverse sue opere fuori catalogo da anni.
L'apprendista del sole rappresenta un unicum nel panorama letterario tricolore, un romanzo che si distacca da tutta la produzione nostrana, un esperimento coraggioso e fuori dai canoni. La ristampa a cura della Lindau segue l'originale prima edizione Rusconi del 1989, all'epoca recensita persino da Eugène Ionesco, che disse di aver trovato nel romanzo di Bona «quel grande spirito dell'altrove verso il quale tendono tutti i veri scrittori». L'apprendista del sole è un romanzo di formazione, un viaggio iniziatico alla scoperta di sé, che ricorda Siddharta di Hesse o Il Profeta di Gibran (di cui, non a caso, Bona è stato il primo traduttore italiano). Il protagonista è Ondo, un giovane che «conteneva in sé due persone che lottavano, odiandosi, senza che l'una sull'altra avesse mai il sopravvento». Ondo proviene da una famiglia ricca, ma la ricchezza che gli ha donato la sorte non lo soddisfa; è un ragazzo dotato di una sensibilità spiccata, che tuttavia è una maledizione, perché lo rende dubbioso e sconosciuto a se stesso. Malinconico e chiuso, tormentato e inquieto, vuole trovare la Via, ovvero la strada per la perfetta e piena comprensione di sé e del mondo. 
«Eppure una via c'è, per ciascuno. Che uno la trovi non conta. Conta il sapere che c'è. Sarà la via un giorno a trovare noi.»
Così Ondo parte, lascia la casa e i familiari e si imbarca sul Fuiadeh, una nave cargo diretta in Egitto. Per lunghi anni viaggia in lungo e in largo in Oriente: vive ad Alessandria, Porto Said, Beirut, Baghdad, Istanbul. Conosce tante persone e vive molteplici esperienze, spesso antitetiche: la ricchezza e la miseria, la fatica e l'indolenza, l'amore puro e quello mercenario, la carnalità e il misticismo, il vizio sfrenato e la virtù monastica, il vuoto del cuore e la pienezza dello spirito. Il suo è un viaggio iniziatico, guidato dal sufi Mohamed, figura mistica e di grande potenza evocativa. Più volte il protagonista inciampa, più volte sembra prendere una strada sbagliata; eppure alla fine la sua ricerca è coronata dal successo, quando scopre che il Dio che cercava è in realtà in sé, perché il principio divino abita in tutti gli uomini e nelle loro passioni. Viene in mente il testo di Visioni, scritta da Juri Camisasca per Alice: «più lontano vai, sempre meno conosci». E ancora, Claudio Rocchi che cantava che «Dio è dentro, nel cuore di ogni uomo». Gli scrittori e i cantanti nostrani che si sono avvicinati alla filosofia e al misticismo dell'Asia sembrano aver capito questa costante del pensiero orientale: il divino non è altro da noi, né è più in alto, ma è in noi, è il soffio che dà vita alle membra e direzione alla nostra anima. Ecco perché alla fine del viaggio Ondo ritorna al paese natale, perché il suo ciclo si è compiuto e non avrebbe più senso spostarsi nello spazio. 
«Tu non sei solo, sei una miriade di forme in cui risplende l'unica luce, l'unica essenza che trasmigra rimanendo sempre la stessa.»
Diversi gli spunti autobiografici che rimandano all'esperienza dello scrittore: il padre industriale, l'avita dimora di famiglia, i viaggi in Oriente, la fascinazione dell'esoterismo, il tema dell'uscire da sé, la doppiezza dell'amore carnale e spirituale. Molti anche i rimandi al resto della sua produzione letteraria; esiste un legame tra Ondo e Tristano, il protagonista de Il silenzio delle cicale. Anche il secondo è l'unico superstite di un naufragio, anche lui vaga nel mondo e tra i ricordi alla ricerca di una forma costante e immutabile del proprio essere. Solo che, mentre Ondo trova infine una composizione, Tristano è l'emblema dell'uomo a metà, l'esito di un imperdonabile fallimento.
L'apprendista del sole non è una lettura agevole. È un libro pregno di simbolismi e intriso di un misticismo serio, colto e ragionato. Bona non offre idee di seconda mano, ma sa rielaborare – e finanche spiegare, sia pure attraverso metafore – pensieri profondi che attengono alle grandi domande universali. Non nascondo che è stata una lettura a tratti faticosa, perché i concetti che si dipanano nel libro sono tanti e non sempre immediati; rimane comunque un romanzo originale e imprevedibile, una piacevole deviazione rispetto alla linea retta della letteratura italiana del tardo Novecento.
La recente ristampa curata da Lindau