23 aprile 2022

I primi quarant'anni di Martin Mystère

Con il numero 386 di Martin Mystère attualmente in edicola si celebra un piccolo miracolo editoriale, ancora più meritorio se pensiamo alla profondissima crisi in cui versano le pubblicazioni periodiche. Sono infatti trascorsi esattamente quarant'anni dall'aprile 1982, quando uscì Gli uomini in nero, primo celebre albo della longeva serie. Nel corso di questi otto lustri il mondo è cambiato e Martin Mystère ne ha seguito l'evoluzione politica, sociale e tecnologica. A differenza di altri personaggi che vivono in un'epoca indefinita o in un passato immutabile, come ad esempio Zagor, il Buon Vecchio Zio Marty è saldamente radicato nel presente. Quella che oggi può sembrare la normalità, nel 1982 fu invece una piccola rivoluzione. La serie ideata da Alfredo Castelli è stata infatti il trait d'union tra il fumetto bonelliano classico e le nuove creazioni degli anni Ottanta (Dylan Dog, Nick Raider) e Novanta (Nathan Never, Julia).
Il numero 386 si inserisce peraltro nella rinnovazione della serie cominciata esattamente un anno fa con il numero 375, che ha inaugurato il ritorno alla mensilità. Si è trattato di un ritorno alle origini, dato che la cadenza è già stata mensile fino al numero 278, per diventare poi bimestrale per quasi quindici anni. L'albo in edicola, intitolato I suoi primi 40 anni, riunisce le caratteristiche di entrambi i formati. Come i bimestrali, è un “balenottero”, ossia un volume di circa 160 pagine. Come nei nuovi mensili, invece, la storia inedita è sviluppata in poco più di settanta tavole, mentre il resto delle pagine è occupato da redazionali e da un romanzo a puntate di Andrea Carlo Cappi.
Due le iniziative legate al quarantennale che ne fanno un albo celebrativo. La prima è la storia inedita, che finalmente propone un'avventura risalente agli albori della carriera di Martin, spesso accennata eppure mai raccontata nei minimi dettagli: il mystero noto come “il fantasma del Topkapi”. È una storia che si è svolta a Istanbul nel 1982 e che è valsa a Martin una grande popolarità in Turchia. Dopo quarant'anni esatti, il nostro eroe ritorna negli stessi luoghi per dipanare i punti oscuri di una vicenda interrotta e mai del tutto chiarita. Come sempre quando si tratta di albi speciali, soggetto e sceneggiatura sono curati dallo stesso Castelli, mentre le tavole sono illustrate da Alessandrini, Torti e Orlandi. La storia è avvincente ma richiede una seconda lettura per poterne cogliere tutte le sfumature.
La seconda chicca dell'albo è nelle sessantaquattro tavole finali di Operazione Arca in una veste inedita. Come noto, Op
erazione Arca è il titolo del terzo albo della serie, uscito nel lontano giugno 1982. Non tutti sanno, però, che in origine il personaggio doveva chiamarsi Doc Robinson ed essere inglese. Il nome fu però “bruciato” dall'uscita nelle edicole italiane della rivista a fumetti Robinson, che impose un cambio alla Bonelli. Per il quarantennale Alfredo Castelli ha deciso di rispolverare e regalare ai lettori storici una versione inedita di Operazione Arca, quella con protagonista Doc Robinson. Abbiamo così modo di rileggere questo breve capolavoro in una veste inedita, arricchita da un editoriale dello stesso Castelli che svela i retroscena delle vicissitudini che portarono al cambio del nome in corsa, quando già erano stati completati e quasi mandati in stampa gli albi a nome Doc Robinson. Inutile ribadire che Operazione Arca è una storia breve e tuttavia perfettamente compiuta, scritta e disegnata con uno stile classico eppure moderno, che tanti lettori storici del BVZM apprezzerebbero tuttora. 
Il numero 386 è anche l'occasione per tirare le somme del “nuovo” Martin Mystère, a distanza di un anno dal ritorno alla mensilità. A mio avviso ci sono soprattutto luci, ma anche qualche ombra. Le storie a fumetti e i redazionali sono i punti di forza del nuovo corso. Quanto alle storie, il numero inferiore di pagine a disposizione velocizza il ritmo della narrazione, riducendo al minimo le prolissità e le vignette eccessivamente verbose. I redazionali scritti da Castelli sono sempre interessanti, il giusto approfondimento alle questioni affrontate nella storia a fumetti. Le ultime dieci pagine di ogni albo sono invece dedicate a un romanzo a puntate di Andrea Carlo Cappi. Con il numero 386 si è concluso il primo romanzo, intitolato Il potere del falco. La storia è indubbiamente valida, appassionante e ricca di rimandi colti, letterari e cinematografici. Tuttavia, non è di mio gradimento la scelta di suddividerla in puntate, togliendo spazio alle tavole a fumetti. Sarà un mio limite, ma ho fatto molta fatica a ricordare una storia “spalmata” su dodici puntate mensili, né è pensabile che il lettore ogni volta riprenda in mano gli episodi precedenti per fare un ripasso generale. Inoltre, l'impressione è che con questa scelta editoriale siano state sottratte pagine al fumetto, ridotto dalle circa 150 tavole del bimestrale alle attuali 77 del mensile. Forse sarebbe stato opportuno allegare l'intero romanzo a un unico albo, anche con un sovrapprezzo. Credo che tale soluzione avrebbe reso maggiore giustizia all'opera in prosa e dato più spazio alle storie a fumetti, che è poi ciò che desidera chi da anni acquista Martin Mystère. Ad ogni buon conto, l'operazione sarà ripetuta, sia pure con una formula parzialmente diversa, a partire dal prossimo numero, fino all'albo 400. Restiamo in attesa e intanto facciamo i migliori auguri a Martin per questi primi quarant'anni di vita editoriale.
Martin Mystère n. 386 - I suoi primi 40 anni - aprile 2022

10 aprile 2022

"La donna in bianco" di Wilkie Collins: la rivincita del romanzo vittoriano

Ci sono libri che ti prendono a tradimento: si presentano sotto mentite spoglie, nascondendosi dietro un'apparenza dimessa, per poi rivelare a poco a poco la loro natura. Rientrano in questa categoria alcuni corposi romanzi dell'Ottocento, originariamente pubblicati a puntate su qualche rivista destinata a un pubblico di estrazione borghese. Chi scriveva questi romanzi, cosiddetti di appendice, sapeva come tenere i lettori incollati alle pagine. Bastava infarcire le storie di amori scabrosi, tradimenti, inganni, scambi di persona, finte morti e resurrezioni, qualche elemento soprannaturale, e il gioco era fatto. Molti di questi libri non sono sopravvissuti alla fine dell'epoca in cui vennero concepiti, e oggi sono a malapena ricordati da qualche archeologo da mercatino dell'usato. Altri, invece, sono tuttora stampati e incontrano nuovi e fedeli ammiratori.
Mi sono approcciato a La donna in bianco di Wilkie Collins (1824-1889) con qualche pregiudizio, sebbene la stretta amicizia del suo autore con Charles Dickens fosse già di per sé una sufficiente garanzia. Uscì a puntate sulla rivista All the year round tra il 1859 e il 1860, nella migliore tradizione del feuilleton. Fu, manco a dirlo, uno strepitoso successo di pubblico. Anche io ne sono stato prima ammaliato e infine conquistato, ansioso di conoscere la conclusione dell'intricata vicenda. Al pari degli antenati di un secolo e mezzo fa, ho sofferto e gioito assieme ai protagonisti, mi sono rammaricato dei loro dispiaceri e ho tirato un sospiro di sollievo a ogni pericolo scampato. Leggere La donna in bianco è un'esperienza che definirei "ottocentesca", sebbene l'aggettivo non abbia alcun significato proprio. Eppure non mi viene in mente parola migliore. Fatto sta che il volume scorre nonostante le oltre seicento pagine, ti invischia in un intreccio dai tratti parossistici, dalle tinte fosche e rosa, una via di mezzo tra una telenovela e un giallo. Mi scuso se sembro sarcastico, perché non è mia intenzione. In verità provo grande ammirazione e rispetto per la mente che ha saputo concepire una storia così avvincente, in grado di ammaliare i lettori a distanza di un secolo e mezzo dalla sua pubblicazione. La società di cui parla Collins non esiste più, il mondo dominato da un'aristocrazia vacua e sciovinista si è dissolto sotto le picconate della democrazia e dell'egualitarismo, eppure questo volume ha ancora tanto da dirci. Un classico che più classico non si può, sebbene non sia universalmente conosciuto al pari di altre opere di minore levatura.
Riassumere in poche righe la trama non avrebbe senso e sarebbe persino fuorviante. Basti dire che la complicata vicenda si snoda tra la caotica Londra e le placide campagne dell'Hampshire e del Cumberland. Proprio in quest'ultima regione, in un'avita dimora conosciuta come Limmeridge House, vivono Laura e Marian, sorelle per parte di madre. La prima è dolce e sensibile, erede di una grossa fortuna e promessa in sposa al bieco Sir Percival Glyde. La seconda è forte ed energica e vive solo per amore della sorella, il cui benessere è l'obiettivo della sua vita. L'arrivo nella casa di un maestro di disegno, Walter Hartright, sconvolge il cuore di Laura, gettando pesanti ombre sul suo prossimo matrimonio. A scompigliare ulteriormente le carte, una misteriosa donna vestita completamente di bianco, che appare e scompare all'improvviso e sembra essere indissolubilmente legata a un terribile segreto del passato di Sir Glyde. Su queste basi piuttosto classiche ha inizio un turbinio di avvenimenti che si dipanano pagina dopo pagina. 
Terminata la lettura, mi sono chiesto cos'è che più affascina di questo romanzo, quali sono i punti di forza al di là della trama e dei colpi di scena. Ritengo che le ragioni del suo successo siano principalmente tre. La prima risiede nella tecnica narrativa utilizzata: Collins optò infatti per un racconto a più voci. Non c'è un unico narratore onnisciente, sono gli stessi personaggi ad alternarsi nell'esposizione dei fatti secondo quanto è di loro conoscenza. Ciascuno narra un pezzo della storia, attraverso memoriali, resoconti, testimonianze e pagine di diario. A differenza di ciò che si potrebbe pensare, l'intreccio non risulta ostico o appesantito; anzi, La donna in bianco è un racconto corale perfettamente riuscito. Altro pregio è la modernità del linguaggio: la scrittura è scorrevole, non si dilunga in particolari non necessari, è perfettamente funzionale all'intenso incedere della trama. Tra tutti gli scrittori dell'epoca vittoriana, Collins è forse il più moderno. Il suo stile essenziale non indulge in ampollose divagazioni, né quando descrive i luoghi, né quando si addentra nell'animo dei personaggi. Questi ultimi sono il terzo, grande punto di forza del libro. Tutti sono perfettamente delineati, dai protagonisti alle figure di contorno. Collins dimostra una encomiabile capacità di approfondimento psicologico, che rende credibili tanto i protagonisti quanto i personaggi minori. Su tutti, svetta l'italianissimo conte Fosco, il vero "cattivo" del romanzo. A lui voglio dedicare le ultime righe di questa recensione. La sua è una figura straordinaria, oserei dire monumentale, destinata a rimanere impressa nella mente del lettore, sebbene qualcuno potrebbe obiettare che incarni tutti gli odiosi pregiudizi degli inglesi verso gli italiani. È un gentiluomo impeccabile che segue una propria discutibile morale: è scaltro, voltagabbana, astuto, un finissimo pensatore e al tempo stesso un uomo d'azione. Il conte Fosco è capace al contempo di grandi infamie e disinteressati gesti d'altruismo: egli è la somma di mille contraddizioni e per questo è la prova tangibile della straordinaria penna di Wilkie Collins.