25 maggio 2023

Una stagione irripetibile: ricordi di rock progressivo italiano

Chiunque ami la musica del passato si sarà imbattuto almeno una volta nel famigerato progressive. Amato e odiato allo stesso tempo, esaltato da certi puristi della tecnica e ripudiato da altri, era il fumo negli occhi per la generazione punk.
«Fanculo qualsiasi tecnica, ciò che importa è l'anima di chi suona e non la qualità dello strumento.»
Così affermava Giovanni Lindo Ferretti all'epoca dei CCCP, e non ci sono dubbi che la sua stoccata fosse rivolta ai mostri sacri progressivi del decennio precedente. A pensarci bene, come dargli torto? È più che legittimo che non tutti digeriscano il rock sinfonico/barocco, le suite di venti minuti, i lunghissimi strumentali che occupano un'intera facciata, le combinazioni flauto/sintetizzatore, i concept album che raccontano storie più o meno strampalate e così via. Eppure non si può ignorare che il progressive nel nostro Paese abbia avuto un successo straordinario, sì che non ha più senso discettare sul se sia stato mero sfoggio di tecnica o espressione artistica genuina.
Venire a sapere che in Italia c'era stata negli anni Settanta una stagione rock fu per me una scoperta sensazionale. Credo fosse il 2001 quando sul settimanale Musica! allegato a La Repubblica uscì un articolo sugli Area, in occasione della ristampa in cd del loro catalogo da parte della Edel. In quell'articolo erano menzionati altri gruppi a me sconosciuti e si parlava di anni mitologici in cui il rock italiano poteva competere con quello inglese. All'epoca non avevo internet e di rock italiano conoscevo quello che passavano Videomusic e MTV: Litfiba, Afterhours, Marlene Kuntz, Üstmamò, C.S.I., Negrita e pochi altri. Decisi di procurarmi immediatamente Arbeit macht frei degli Area; lo trovai a Supernova Records, un negozio fantastico che oggi purtroppo non c'è più. L'impatto fu traumatico: del rock avevo un'idea piuttosto grezza e non ero abituato a una musica così "difficile". Eppure non mi feci scoraggiare. Per un periodo diventai anch'io un appassionato di rock progressivo e mi procurai un mucchio di dischi, prevalentemente italiani e qualche inglese: Area, Banco, PFM, Osanna, Perigeo, New Trolls, Trip, Le Orme, Museo Rosenbach, Rovescio della Medaglia, Van der Graaf Generator, Genesis, Gentle Giant, Affinity, Curved Air, per citarne alcuni.
Alcuni non li ascolto più da anni, altri sono entrati di diritto tra i miei preferiti di tutti i tempi. A tal proposito, quella che segue non vuole essere una classifica, né un elenco dei dischi di prog italiano che non possono mancare in una collezione che si rispetti. Più semplicemente, si tratta di tre grandi album italiani che meritano di essere ascoltati a prescindere da qualsiasi discorso su generi e preferenze. Il primo è Forse le lucciole non si amano più, della Locanda delle Fate. Correva l'anno 1977 e la grande stagione del progressive tricolore era già finita. Fuori tempo massimo, per giunta in un Paese scosso da opposti estremismi e violenze, questo settetto piemontese tirò fuori dal cilindro un LP sognante, etereo ma al tempo stesso deciso, un suono corposo che accompagna testi malinconici che ricordano il "profumo di colla bianca", per citare uno dei brani. Una perfetta alchimia di chitarre e tastiere, arricchita da una delle migliori voci dell'epoca. 
Il primo e omonimo del Biglietto per l'Inferno, datato 1974, fu per me una folgorazione. Lo acquistai un sabato d'inverno, senza conoscere nulla di quella band dal nome accattivante. Mi aspettavo un suono simile a quello dei mostri sacri del genere e invece scoprii un lavoro pazzesco dalle tinte hard, con la chitarra elettrica in evidenza e testi coraggiosi e controcorrente. L'ho ascoltato così tante volte che pezzi fantastici come Il nevare, Confessione e Una strana regina sono ancora ben impressi nella mia mente.
Concludo con Aria, di Alan Sorrenti (1972). Fu una rivoluzione nel panorama musicale dell'epoca, un crogiolo di suoni e poesia, un disco d'avanguardia eppure per niente ostico. La suite che dà il titolo all'album dura oltre diciannove minuti ma non conosce neppure un calo d'ispirazione. Aria è Napoli che incontra Londra, la tradizione che abbraccia la sperimentazione, una voce eccelsa e mai di maniera. Fosse stato pubblicato nel Regno Unito, oggi sarebbe ricordato come uno dei più grandi dischi prog di sempre.
Locanda delle Fate - Forse le lucciole non si amano più - 1977

12 maggio 2023

"Festival": ho visto anche dei comici tristi

È comune la curiosità di vedere un attore comico recitare in un film drammatico. Spesso anch'io mi sono chiesto quale sarebbe il risultato se alcuni interpreti di certe commedie all'italiana venissero assoldati in produzioni di spessore. Attori solitamente impegnati in spettacoli comici potrebbero riservare delle sorprese? Oppure l'essere conosciuti solo per ruoli brillanti o caricaturali li renderebbe poco credibili in opere drammatiche? Evidentemente siamo in molti a porci queste domande, se persino alcuni registi ci hanno provato.
Per il suo Festival (1996), Pupi Avati affidò a Massimo Boldi il ruolo del protagonista. L'attore, volto noto della commedia all'italiana e protagonista di innumerevoli "cinepanettoni", era al suo primo (e finora unico) ruolo drammatico. Il risultato fu sorprendente, sebbene la risposta del pubblico fu più tiepida di quella dei critici, come spesso accade in casi simili.
Boldi interpreta Franco Melis, un comico ormai sul viale del tramonto, stanco, disilluso e praticamente dimenticato dal grande pubblico. Fino a quindici anni prima era invece una celebrità: le sue commedie sbancavano i botteghini, i paparazzi lo assediavano, era presenza fissa nei talk show e gli era stata affidata persino la conduzione del programma della domenica pomeriggio su Rai Uno. Vicende giudiziarie, la separazione dalla moglie e il cambiamento dei gusti del pubblico l'hanno però condannato a un rapido oblio. Dalle stelle alle stalle, come si suol dire. Franco però, sia pure con rammarico, ha infine accettato un presente fatto di sagre di paese e misere comparsate in locali di infimo livello. Fino a quando, inaspettatamente, un lungometraggio indipendente in cui ha recitato solo per il misero cachet viene selezionato al Festival del cinema di Venezia, dandogli un'ultima chance di tornare alla ribalta.
Festival è in primis il ritratto amaro e tenero di un uomo ferito dalla vita, rassegnato senza rimpianti al ruolo di comparsa, al contempo tenacemente aggrappato alle ceneri della passata celebrità. Non c'è rancore in Melis, né risentimento verso quanti l'hanno abbandonato; pur con le sue fragilità, resiste agli schiaffi che la vita gli riserva. E quando il destino beffardo gli gioca l'ultimo tiro, con grande dignità volta le spalle e lascia la scena, trovando conforto negli affetti più sinceri. Come attestato da autorevoli critici, Boldi è perfettamente calato nel ruolo e dimostra di essere un attore validissimo anche – soprattutto, direi – fuori dai ruoli comici che l'hanno reso celebre. I suoi silenzi malinconici, i sorrisi tirati e l'incedere stanco comunicano più di mille parole: sono atti d'accusa contro l'apparenza, l'intellettualismo di facciata e l'ipocrisia del mondo dello spettacolo.
Da ricordare anche le interpretazioni degli altri attori, da Margaret Mazzantini (l'ex moglie Carla) ad Alberto Di Stasio (il rivale Leo). Spicca inoltre Gianni Cavina, nel ruolo di Renzo Polpo, l'ineffabile agente di Melis. Renzo è l'angelo custode del comico, l'unico nell'ambiente che gli vuole veramente bene. In un mondo di opportunisti e voltafaccia, Renzo è uno vero. Onesto fino al midollo, anche e soprattutto intellettualmente, non esita a farsi da parte quando il successo bussa di nuovo alla porta di Melis. Un'interpretazione pura e commovente che valse a Cavina il Nastro d'argento al miglior attore non protagonista.
Festival è un film che negli anni non ha perso nulla della sua freschezza. Anzi, azzardo che è più attuale oggi rispetto al 1996. Viviamo nella società della celebrità usa e getta, in cui perfetti sconosciuti possono diventare famosi dalla sera alla mattina, magari per un video "virale" condiviso da milioni di utenti in tutto il mondo. Così come si afferma, questa fama sparisce alla medesima velocità, per giunta senza lasciare traccia. Le meteore ci sono sempre state, come venivano chiamate in un programma televisivo della mia adolescenza, eppure mai certe stelle sono state così effimere come ai giorni nostri. La differenza sta nel fatto che Franco Melis, rispetto ai personaggi da quattro soldi dell'era social, è un gigante capace di resistere ai rovesci della fortuna senza mai affondare.