20 luglio 2016

"Viaggio col padre" di Carlo Castellaneta: le ragioni del distacco

Carlo Castellaneta iniziò la stesura di Viaggio col padre a soli venticinque anni, anche se dovette attenderne altri tre per vederlo pubblicato (1958). Come tutti i romanzi d’esordio, risente di una certa acerbità, sia nelle intenzioni che nella struttura narrativa. Per quanto concerne il primo aspetto, è stato lo stesso autore milanese, ormai adulto, a ironizzare con bonario distacco sul suo primo romanzo, frutto della “fiducia di potere, ancora, nell’Italia del 1955 affamata di giustizia, cambiare il mondo con un libro”. Quanto alla struttura, la narrazione si dipana lungo due piani intersecantisi: quello presente del viaggio in treno e quello passato dei ricordi. Si tratta di una scelta non propriamente originale e quasi forzata in alcuni punti, ma che riesce funzionale allo scopo del racconto, conferendogli uniformità di fondo.
La trama può essere riassunta in poche battute. Un ragazzo intraprende assieme al padre un lungo viaggio in treno, da Milano a Foggia, per partecipare a un funerale. Tra i due aleggiano antichi dissapori, risalenti al tempo della guerra. Il loro non è semplicemente un conflitto generazionale, ma una propaggine privata della guerra civile che si è combattuta in Italia tra fascisti e partigiani. Il padre, convinto fascista, ha condotto la famiglia in rovina pur di non tradire i propri ideali. La moglie e i figli, inizialmente pieni di ammirazione nei suoi confronti, di pari passo con l’inasprimento del conflitto hanno acquisito una maggiore consapevolezza degli errori e degli orrori del regime, fino ad appoggiare, sia pure in modo silente, la causa partigiana. Conclusa la guerra, le tensioni a lungo covate sono esplose, determinando la disgregazione del nucleo familiare. A distanza di qualche anno, il figlio coglie l’occasione del viaggio in treno per conoscere il perché delle scelte del padre, del suo tenace aggrapparsi a ideali e valori sconfitti dalla storia, la sua cieca testardaggine nel non voler ammettere gli errori compiuti. E solo alla fine, quando il convoglio è ormai prossimo alla stazione di Foggia, la tensione viene sciolta in un chiarimento tanto desiderato quanto parziale.
Viaggio col padre è prima di tutto il resoconto di un dramma familiare, calato nel più vasto contesto del dramma nazionale della guerra civile. Allo stesso modo, è un romanzo di formazione individuale e collettiva, perché alla crescita del sentimento democratico nell’animo del protagonista corrisponde il risveglio di un’intera nazione.  È poi il libro della Milano operaia, fatta di palazzi rugginosi costruiti ai bordi delle massicciate, di piccole invidie e storie minime di periferia. Con questo romanzo Castellaneta inizia a imprimere il marchio di fabbrica della sua produzione successiva: la descrizione vivida e dolente della Milano popolare, un microcosmo in evoluzione che in pochi anni passa dalla miseria nera agli agi del miracolo economico. Figura esemplare di questa voglia di cambiamento è Ottavio, l’intellettuale comunista poi diventato capo-partigiano, che contribuisce in maniera determinante alla crescita del protagonista. Il personaggio di Ottavio sarà poi ripreso da Castellaneta nel successivo romanzo Una lunga rabbia, facendogli assumere le vesti del pittore Oreste.
Sebbene Viaggio col padre risenta dei limiti dell’opera prima, rimane comunque una lettura godibile e finanche avvincente. Echeggia qui e lì una certa enfasi nella volontà di costruire una storia di redenzione individuale e collettiva, perché audace era il compito che il giovane autore si era dato: cambiare con un libro le sorti d’Italia o, quantomeno, tentare una spiegazione degli eventi che seguirono alla caduta del regime.

4 luglio 2016

"Chiamalo sonno" di Henry Roth: le angosce del bambino emigrante

Parlare di Chiamalo sonno significa innanzitutto interrogarsi sul “caso Henry Roth”, come viene definito dalla critica. Henry Roth (1906-1995) è stato per lungo tempo autore di un unico romanzo. Quando Chiamalo sonno uscì, egli aveva ventotto anni ed era così convinto di aver trasfuso in quell’opera tutto quanto avesse da dire, da chiudersi in un silenzio durato quasi tre decenni. Iniziò a scrivere un secondo volume, ma si arrese dopo aver ultimato un centinaio di pagine, colpito da un oscuro male di vivere a cui sono state date diverse spiegazioni: la depressione, una forte delusione sentimentale, una crisi mistica, l’isolamento dovuto alle sue posizioni politiche. Fatto sta che Roth costruì intorno a sé un muro di silenzio, allontanandosi dal mondo culturale e persino dalla città, rifugiandosi nella quieta provincia americana. Solo intorno alla metà degli anni Sessanta, il libro, che aveva continuato a circolare in una ristretta cerchia di appassionati, venne ristampato negli Stati Uniti e poi in Europa, diventando un caso letterario e un long-seller, contribuendo alla riscoperta del suo autore.
Oggi Chiamalo sonno è considerato un capolavoro, perché, come ha osservato Mario Materassi nella postfazione all’edizione italiana Garzanti, è un vero e proprio «punto di coincidenza di tutto il Novecento» letterario e non, in quanto «il suo senso è un valore permanentemente rinnovantesi».
Il romanzo è ambientato negli Stati Uniti dei primi anni del secolo scorso, l’epoca dell’immigrazione di massa. David, un bambino ebreo nato in Austria, giunge assieme alla madre nella terra delle grandi opportunità, dove il padre si è già trasferito da un paio di anni. I genitori di David non potrebbero essere più diversi: dolce e piena di attenzioni la madre, duro e iracondo il padre. Il piccolo David vive con paura questo contrasto, che viene traslato dalle quattro mura domestiche al mondo esterno. Nella sua mente si fa strada una concezione manichea della vita, in cui ogni aspetto viene ad essere classificato secondo la rigorosa dicotomia bene-male. Il padre, le tenebre, la cantina e i coetanei rappresentano il male, l’oscurità fisica e morale da cui fuggire. Dall’altro lato, invece, c’è la madre, che agli occhi di David è il concentrato supremo di ogni bene. L’intera realtà viene trasfigurata attraverso gli occhi del bambino, che sono il privilegiato punto di osservazione scelto da Roth nella stesura del romanzo. Nelle pagine si alternano dati reali e immaginifici, in quanto l’intera narrazione viene filtrata e quasi inquinata dalle visioni di David, continuamente in bilico tra un mondo palpabile, duro e crudo, e una dimensione fantastica, rassicurante e onirica. Chiamalo sonno non è dunque propriamente un romanzo di formazione; sebbene vi sia una crescita graduale e sofferta del protagonista, nel finale si ascolta quasi un canto di resa, un totale rifiuto del dato reale in favore del sicuro rifugio rappresentato dall’abbraccio materno.
Il libro è un vivido ritratto dell’America del primo Novecento, un Paese in grande fermento per effetto di un’ondata migratoria che contribuirà a delinearne il volto moderno, il cosiddetto melting pot. Straordinario poi il linguaggio utilizzato da Roth, che alterna slanci lirici a chiacchiere da bar, mescola il turpiloquio col linguaggio alto, combina sapientemente l’inglese, lo yiddish e la babele di lingue parlate dagli immigrati, italiani compresi. Nel suo capolavoro, Roth è stato attento alla descrizione dei luoghi e dei tipi umani: i personaggi sono pochi, ma di indimenticabile spessore. Si pensi ad Albert, il padre di David, un uomo rude e violento, i cui improvvisi scatti d’ira sono talmente prorompenti da mettere in soggezione persino il lettore. Si rimane incantati, poi, dalla dolcezza di Genya, stupiti dalla sboccataggine di Bertha, entusiasmati dalla baldanza del giovane Leo.
E alla fine mi viene da dire che forse ha ragione chi ritiene che Chiamalo sonno rappresenti la summa di tutta la letteratura del Novecento: perché David è solo un bambino, ma incarna tutte le ansie e le angosce dell’uomo moderno, diviso tra il richiamo della tradizione religiosa e le blandizie del progresso, tra la paura dell’autorità e un’incontenibile voglia di ribellione.