25 febbraio 2016

"Il resto di niente" di Enzo Striano: il fallimento dei grandi ideali

Il resto di niente è un episodio isolato nella storia della letteratura italiana del secondo Novecento, un’opera fuori moda e fuori dal tempo, di commovente, struggente bellezza. Pochi libri hanno la capacità di eguagliarlo per potenza evocativa, precisione della ricostruzione storica, abilità nella successione dei registri linguistici, dal popolare al colto. Superficialmente si potrebbe dire che si tratta di un romanzo storico, la biografia di Eleonora Pimentel Fonseca e il resoconto del sogno repubblicano napoletano del 1799. In realtà, è molto di più e per almeno due ragioni. La prima è che, come scrisse lo stesso Striano, “tutti i romanzi sono storici, così come tutti sono sperimentali”, in quanto ciò che differenzia gli uni dagli altri è il grado di libertà che lo scrittore si è preso nell’esporre i fatti. In secondo luogo, confinarlo entro stringenti limiti geografici (Napoli), storici (gli anni della Rivoluzione francese) e sociologici (la “meridionalità”), costituirebbe un grave e imperdonabile torto. Il libro possiede infatti l’ampio respiro dei capolavori che trattano temi universali, perché, come evidenziato da Francesco Durante, “è un romanzo di uomini e di donne, non di personaggi storici chiusi ciascuno nella propria miniatura fissata per la posterità”.
La protagonista, Eleonora Pimentel Fonseca (Lenòr in portoghese, Lionora in napoletano), apparteneva ad una famiglia nobile portoghese, costretta a fuggire da Roma a causa degli attriti tra la Santa Sede e il Re lusitano, che aveva cacciato i potenti Gesuiti dal territorio del suo Regno. Riparata nelle Due Sicilie, per la precisione a Napoli, la famiglia Pimentel Fonseca dovette costruirsi una nuova vita. Eleonora, dotata di spiccatissima intelligenza e talento poetico, già giovanissima entrò a far parte dei salotti e dei circoli intellettuali della Capitale, fino a diventare accademica d’Arcadia. Accanto all’amore per le lettere, però, si sviluppò in lei un’accesa passione politica. Erano gli anni della Rivoluzione francese, del giacobinismo, dell’affermazione dei nuovi ideali egualitari in contrapposizione alla tirannide e alle disuguaglianze sociali dell’ancien regime. Anche a Napoli soffiava il nuovo vento degli ideali, grazie ad illuminati pensatori come Filangieri e Genovesi; si affermarono così i circoli giacobini, che vedevano nella Francia la grande madre di ogni libertà. Re Ferdinando e sua moglie Maria Carolina, spalleggiati dall’aristocrazia più retriva e da gran parte del clero, iniziarono una spietata persecuzione dei giacobini, con l’intento di estirpare il “germe” della rivolta dal Regno. Eppure, anche in Napoli il sogno rivoluzionario si realizzò, sia pure per pochi mesi, quando nel 1799 venne proclamata l’effimera Repubblica Napoletana. Lenòr ne fu una delle principali artefici, quale direttrice e unica redattrice del giornale ufficiale, il Monitore napolitano (sul modello del Moniteur d’oltralpe).      
Il romanzo non è un’apologia della parentesi repubblicana, né, più in generale, una pervicace difesa delle idee rivoluzionarie. Anzi, si potrebbe dire che Striano abbia raccontato l’illusorietà del sogno repubblicano, la fallacia degli ideali egualitari calati con forza in un contesto, quello partenopeo, retto da regole ancestrali, del tutto estraneo e quasi immune al sentire elitario degli spiriti democratici. La Repubblica napoletana è stata un fallimento, al di là del suo indubbio valore storico, perché non è riuscita a convincere il popolo minuto, i “lazzari” e la nascente classe media, legati da un vincolo quasi paternalistico al re. La rivoluzione e i grandi principi altro non sono stati che balocchi intellettuali, vuote parole che non hanno avuto la capacità di apparire seducenti o convincenti per un popolo abituato ad arrabattarsi giorno dopo giorno, ma capace di vivere quasi felicemente persino nella miseria più nera. Ed ecco dunque il grande paradosso, compreso dagli spiriti più acuti come Vincenzo Cuoco: il popolo partenopeo non ha alcuna fiducia nei rivoluzionari, che promettono di liberarlo da una schiavitù in cui non sente di essere costretto. Perché il popolo è già libero e non necessita di altra libertà; e questo, si badi bene, non perché sia stupido o ottuso, ma perché portatore di una sua profonda saggezza, nell’atavica comprensione che le cose non possono mai cambiare, che i ruoli di povero e ricco non potranno mai essere sovvertiti. E questo senso di sfiducia acquista una valenza ancora più ampia nelle parole di Vincenzo Sanges, uno dei protagonisti del libro.
«Ricordati che quand’uno entra a far parte di un’organizzazione, una chiesa, di qualsiasi tipo essa sia, come individuo è finito: da libero si fa necessariamente schiavo.»
Al di là del discorso ideologico, il romanzo è anche un vivido ritratto della città di Napoli, che proprio alla fine del Settecento visse uno dei suoi massimi periodi di splendore artistico e culturale, grazie alla presenza di intellettuali di punta, che ne fecero una delle due capitali italiane dell’Illuminismo, assieme a Milano. Oltre ai circoli culturali, ai teatri, ai salotti racchiusi negli scrigni di magnifici palazzi, Striano racconta anche l’altra Napoli, fatta del buio dei vicoli, della miseria dei bassi abitati da una miriade di “lazzari” che campano alla giornata. E di questi due volti della città vengono straordinariamente descritti rumori, odori e colori, sì che durante la lettura sembra davvero di essere immersi nell’atmosfera partenopea. Si considerino in proposito le intense descrizioni delle feste popolari e dei mercati, delle adunate in piazza e delle esecuzioni; Striano tratteggia visi contratti nel riso o nel pianto, riporta stralci di frasi udite per strada, fa crepitare le pagine di rumori intensi, le riempie di umori decisi, vi condensa suoni e sfumature. E proprio nel ruolo di narratore onnisciente dà prova magistrale di sapienza letteraria.
Le suggestioni e le riflessioni ispirate dal libro sono così tante che non è possibile racchiuderle in poche righe. Eppure, è doveroso segnalare che Il resto di niente è prima di tutto un complesso e profondo ritratto di donna. Striano entra nell’animo della sua eroina, con straordinaria sensibilità la mette a nudo di fronte al lettore, senza nascondere nulla: turbamenti, dubbi, accese passioni, gioie e dolori. Lenòr Pimentel è un personaggio che, chiuso il libro, sarà impossibile dimenticare.

16 febbraio 2016

"La musica, anche quando è ricerca, è prima di tutto comunicazione": intervista a Paolo Tarsi

Il marchigiano Paolo Tarsi è un musicista d’avanguardia che sta ottenendo importanti riscontri, già indicato dalla critica come una delle figure emergenti della musica sperimentale nostrana. Recentemente ha pubblicato il suo secondo disco, Furniture music for new primitives. Ho avuto il piacere di recensirlo e di fare una chiacchierata con Paolo. Buona lettura.

La recensione
Ci vuole molto coraggio, non solo in senso figurato, ad immergersi nel mare magnum della sperimentazione. Eppure, è forse proprio in questo settore, più che altrove, che si viene a creare una corrispondenza personale, direi quasi intima, tra l’artista e l’ascoltatore. Ho usato volutamente la parola “ascoltatore”, perché mai come nell’ambito della musica d’avanguardia occorre abiurare la parola “fruitore” che spesso viene utilizzata in altri contesti, prettamente commerciali. Questo secondo disco del marchigiano Paolo Tarsi, dopo Dream in a landscape, merita proprio di essere “ascoltato”, ossia non semplicemente “sentito”, ma compreso nella sua complicata struttura. Furniture music for new primitives ha suscitato l’attenzione di molti critici, che hanno individuato in Paolo Tarsi una delle figure emergenti della musica sperimentale nostrana. Il disco, dedicato allo scrittore beat William Burroughs, è stato pubblicato dalla storica etichetta Cramps, quella degli Area e del primo Finardi, per intenderci. Numerosi sono gli artisti che hanno partecipato al progetto; tra questi, Paolo Tofani, che suona la sua trikanta veena in Construction dans l’espace et le silence, la formazione d’archi Quartetto Maurice, Roberto Paci Dalò e il sassofonista Michele Selva. L’intento del progetto, come chiarito dallo stesso musicista, è un ritorno alle origini del minimalismo, in un continuo e fecondo dialogo tra rock sperimentale, elettronica, improvvisazione e musica contemporanea.
Si apre con Dreamtime, che ci cala subito nelle atmosfere del disco, con un cupo clarinetto basso che si staglia su echi elettronici, scampoli di suoni provenienti da altre galassie. In Cluster #2 il tappeto sonoro si arricchisce; anche se non c’è una linea ritmica di fondo, che sostenga tutto il discorso, non si può negare che il brano possieda una propria unitarietà, con arpeggi di chitarra elettrica a dominare la scena. Segue Electric Sakuhin, sicuramente il pezzo più complesso e compiuto, arricchito da lievi percussioni. Suonato con la collaborazione del Junkfood 4tet, è un sottile gioco elettronico, di continui rimandi e rinvii sonori, dall’incedere quasi ipnotico. Sebbene stiamo parlando di avanguardia, è questa forse la traccia più “accessibile” dell’album, in cui il convulso esordio si scioglie in una ben definita linea melodica. Maestoso il finale, quasi da opera rock, con la chitarra in grande evidenza. In the total animal soup of time può essere letta come un’ideale prosecuzione, su toni più soffusi, della traccia precedente. Si viene catapultati in un territorio mistico, dominato però da suoni computerizzati; l’impressione è quella di trovarsi in un tempo futuro eppure primordiale, senza uomini e senza dèi. Si arriva poi a Construction dans l’espace et le silence, con la collaborazione del grande Paolo Tofani, che suona la sua trikanta veena; suggestioni orientali, sentori d’incenso, tracce di musica indiana si combinano in un felice connubio. Chiude il disco Minutes to go, ancora con Tofani, dove affiora un parlato lontano, metallico; è forse in questa traccia che più si sente l’influenza delle sperimentazioni estreme degli Area, come quelle contenute in Crac.
Una proposta interessante, tra minimalismo ed improvvisazione, ambient e musica da camera, tracce di un certo rock primitivo, con gli Area, Battiato, Eno e Cage a fare da apripista. Per chi ama l’avanguardia, per chi osa lasciare la strada sicura della musica tradizionale per affrontare ardui percorsi sonori in salita.

L’intervista
Domanda. Ciao Paolo. Qual è il significato di un titolo apparentemente così criptico come Furniture music for new primitives? E chi sono i “nuovi primitivi”?
Risposta. Il titolo dell’album prende spunto in parte dalla traduzione in inglese di Musique d’ameublement (letteralmente significa “musica da arredamento”, talvolta tradotta con “musica da tappezzeria”), l’espressione coniata da Erik Satie per definire l’ultima fase della sua produzione. Non manca un riferimento, poi, al presente in cui viviamo. Un mondo completamente saturo di segnali e modi di comunicare, popolato sempre più spesso da creature completamente virtuali che si muovono quasi come dei nuovi primitivi di fronte alle possibilità tecnologiche del XXI secolo. Ed è per tentare di rispondere ai sovraccarichi di messaggi che caratterizzano la nostra epoca che le composizioni di questo disco si basano tutte su pochissimi elementi musicali. Un modo per permettere a questi brani di imprimere al loro passaggio un segno più duraturo nella memoria di chi ascolta, ma non solo. Ogni composizione è prima di tutto esaustiva nella propria essenzialità.

D. Nelle tracce del disco si avvertono echi della musica sperimentale italiana degli anni Settanta, come Area, il primo Battiato, gli Arti e mestieri, il Perigeo. In quali aspetti ne hai tratto ispirazione? E quali sono, invece, le chiavi del tuo personale linguaggio musicale?
R. Il disco in un certo senso è inversamente speculare all’album Maledetti degli Area, con cui condivide peraltro una dimensione aperta. Laddove in Maledetti (1976) una formazione classica – il quartetto d’archi – decostruiva Bach in un contesto progressive, qui trovano spazio miniature per piccoli ensemble da camera (più o meno elettrificati) accanto a un unico brano propriamente rock. Quindi, come giustamente hai notato, gli Area sono stati un punto di riferimento molto importante per me. Hanno saputo unire in maniera unica la sperimentazione elettronica con rock, free jazz, avanguardia colta e persino con la canzone, senza dimenticare mai che la musica, anche quando è ricerca, è prima di tutto comunicazione. Ad ogni modo i miei punti di riferimento sono innumerevoli e non solo musicali. Nel disco compaiono in codice omaggi a Richard Wright e ai Pink Floyd, a Donald Fagen degli Steely Dan, al compositore Edward Elgar, a Roy Lichtenstein e a Burroughs, naturalmente. Credo sia fondamentale filtrare il mondo che ci ruota attorno per poi trovare una personale chiave di lettura, un modo del tutto proprio di raccontare le cose. Ogni artista, sono convinto, deve trovare una sua autonomia che lo porti ad essere indipendente dagli altri, per questo sono molto critico verso me stesso nel mio lavoro. Mi fa sempre molto piacere quindi vedere riconoscere in questo disco, da parte di chi lo ha ascoltato, forte e ben identificabile la mia firma. Per intenderci, questo non è – né vuole esserlo – un disco à la manière de. I riferimenti a cui accennavo non devono trarre in inganno.

D. In un’epoca come la nostra, di quasi totale desertificazione culturale, quali sono le motivazioni che spingono un artista a spendere se stesso e la sua creatività per la sperimentazione, per l’avanguardia?
R. Non saprei, la mia non è una posizione ideologica. Scrivo musica in completa libertà e so di essere fortunato perché non sempre ciò è possibile. Direi che semplicemente inseguo ciò che più mi gratifica. È anche una forma di ricerca interiore, se vuoi. Però, in futuro, se dovessi sentire l’esigenza di esprimermi in maniera più diretta lo farò con la stessa onestà intellettuale e senza soffermarmi troppo sui distinguo di genere.

D. La tua è una musica colta, di non immediata assimilazione. Chi sono i destinatari di questo messaggio?
R. Quando scrivo non penso mai alla reazione del pubblico. Con questo non voglio dire che non tenga in considerazione la figura dell’ascoltatore, tutt’altro! Semplicemente non cerco di compiacerlo, il risultato non soddisferebbe nessuno. Allo stesso tempo non si tratta di un progetto pensato per una ristretta cerchia di ascoltatori: per avvicinarsi alle musiche contenute in questo disco non è necessario leggere alcun manuale di istruzioni! Chi ama Brian Eno, Battiato, Björk, i Pink Floyd o i Radiohead, così come Philip Glass, Steve Reich, Terry Riley e i Velvet Underground, ha tutti gli strumenti per avvicinarsi a queste sonorità senza dover essere necessariamente a sua volta un addetto ai lavori. Detto ciò, se l’arte è libertà di espressione, tolta anche questa, oggi agli artisti cosa resterebbe? Dato che le possibilità di guadagno ultimamente si sono ristrette un po’ per tutti, mentire agli altri e prima ancora a se stessi non avrebbe proprio senso.

D. Mi ha sempre incuriosito la figura di Paolo Tofani: dagli esordi con i Califfi, passando per gli Area, Claudio Rocchi e gli Hare Krishna. È anche uno degli ospiti del tuo disco; cosa puoi raccontarci di lui?
R. Paolo è una persona semplicemente fantastica e un musicista che non si è fermato al percorso, pur importante, avuto con gli Area. Ha saputo rinnovarsi giorno dopo giorno grazie a una mente rivolta al futuro, esplorando idee nuove e sonorità sempre fresche. Il suo ultimo album, Real Essence (2015), ne è la dimostrazione più lampante.

D. Venendo alla struttura del disco, ho una curiosità. Si può parlare di un concept album, nel senso che le tracce sono legate da un continuum, oppure vivono in completa autonomia le une dalle altre?
R. Il concept del disco si ispira alla struttura del romanzo Le città della notte rossa di William S. Burroughs, in cui la percezione della realtà del racconto ad ogni capitolo si fa sempre più distorta e intricata. Come risucchiato in un piccolo vortice, dopo un inizio quieto e quasi rassicurante l’album approda in un cumulo di elettricità e di elettronica indecifrabile dove la voce affilata di Burroughs e quella magnetica di Paolo Tofani si incontrano e si infrangono in uno specchio gonfio di suoni saturi. Ed è in questa traccia nascosta, dal titolo Minutes to Go, che trova conclusione un lavoro fortemente unitario e, se vuoi, persino un po’ enigmatico grazie anche alla bellissima veste grafica originale realizzata da Luca Domeneghetti e Roberto Masotti.

D. Quali sono i tuoi progetti futuri?
R. Recentemente sono entrato in studio per registrare materiale inedito che verrà presentato a breve, seguiranno nuovi concerti e l’uscita di un documentario per cui ho scritto le musiche. Ho anche in cantiere un libro ma, come sempre, il futuro resta tutto da scrivere. Ho già preso carta e penna ma per ora sono pagine di un diario segreto. Promuovere adeguatamente il nuovo album resta l’obiettivo principale.
Paolo Tarsi (a sinistra) con Paolo Tofani

La suggestiva copertina del disco

Furniture Music for New Primitives (Cramps/Rara Records) è acquistabile:
in digital download su iTunes, Amazon, Google Play
in e-commerce (spedizione a casa) scrivendo a contemporaryjukebox@gmail.com
Alis non tarsis (Facebook)

8 febbraio 2016

"Le rovine in attesa": la recensione di Federica Privitera su "Critica Letteraria"

Una recensione de Le rovine in attesa, a cura di Federica Privitera, è apparsa stamane sulla rivista CriticaLetteraria.org. La riporto di seguito, ringraziando l’autrice per l’analisi.

QUANDO LE ROVINE SONO I RUDERI DEL NOSTRO ANIMO
A cura di Federica Privitera
Si dice che la lettura abbia quel magico potere di far viaggiare i lettori su mezzi di locomozione speciali, in cavalcate fantasiose verso luoghi e tempi lontani. Le rovine in attesa offre la possibilità di un viaggio, così come qualunque altro libro di narrativa, eppure offre il vantaggio dell’indeterminatezza. Sebbene sia chiaro, infatti, che la realtà storica sia lontana da quella contemporanea, il testo non possiede le coordinate temporali per collocare la storia (e anche un po’ se stessi) in un momento specifico. Ciò che si respira è un’atmosfera lontana, impolverata e rarefatta che affascina ma al tempo stesso estrania.
Non ci si riesce immediatamente a immedesimare (anche se non è obbligatorio che questo venga fatto durante la lettura) nelle vicende di Erminio Narri, un giurista che lavora in una biblioteca di teologia che lo opprime, lui che adora i codici, le leggi e si nutre di ogni statuto. Angosciato dalla prospettiva di passare la vita chiuso in quel luogo odioso e desideroso di una gloria che possa aiutare ad affermarlo nel panorama degli studiosi di diritto, sembra ottenere un riscatto quando riceve la lettera di un anziano nobiluomo meridionale, Don Alberico Priviano, che lo invita a discutere con lui di un affare urgente e segreto. Allettato dalla proposta, non esita un momento a licenziarsi, fare i bagagli e partire alla volta del decadente palazzo per abbracciare un futuro ridivenuto intrigante. Don Alberico, la giovane moglie Viola, l’amministratore Campi, il maggiordomo Armando e il misterioso Frate Ruggero, Fra Cristoforo dei giorni nostri, accompagneranno Erminio in un percorso di studio non più solo giuridico ma propriamente interiore.
La storia, che non rivela eccessi narrativi coinvolgenti o riflessivi, sorprende per il linguaggio con cui viene narrata: un italiano arcaizzante (a tratti in maniera artificiosa) che contribuisce con forza ad alimentare quell’atmosfera indefinita che già la collocazione temporale aveva contribuito a creare. Una coerenza linguistica che, sebbene a volte risulti difficile da digerire durante la lettura, si coniuga perfettamente con alcune delle massime enunciate nel libro. In un’altalena tra il passato e il futuro, il mondo perduto che viene raccontato possiede una patina di nostalgia, frutto delle riflessioni dei personaggi:
«La libertà è la scelta di un’esistenza votata alla ricerca di una schiavitù in cui vogliamo cadere, perché solo in essa ci sentiamo veramente appagati. […] Cosa sono queste presunte libertà se non formidabili schiavitù, a cui per convenzione o per convinzione ci si assoggetta?»  
Condivisibile o meno in un contesto storico come quello attuale, la sentenza pronunciata dal coprotagonista oramai disilluso sul futuro, si dimostra ancora una volta coerente con l’impianto dato a tutta la storia. Proprio la trattazione dell’oscuro progetto avvincerà i protagonisti in un comune destino, che li porterà ad accettare definitivamente il peso della propria inettitudine morale e materiale. I due, apparentemente così diversi, si scopriranno vicini, entrambi pervasi nel profondo dell’animo da una solitudine alla quale hanno cercato di dare maldestramente sollievo con l’ansia del successo e una vana aspirazione di rivincita.
Ecco che le rovine in attesa del titolo si svelano a poco a poco: non hanno nulla a che vedere con i resti archeologici a cui tutti siamo abituati ma sono doppiamente gli individui che aspettano invano un cambiamento nella società e che si crogiolano nella loro solitudine rifiutando il contatto con il mondo esterno, e rovine sono anche i desideri vani dell’uomo, dal denaro all’affermazione e la gloria. Erminio e Don Alberico perderanno tutto proprio ricercando spasmodicamente “altro” senza trovare una serenità profonda. Pur nell’inconsistenza della trama e della definizione dei personaggi, due immagini rimangono indelebili dalla lettura de Le rovine in attesa. Una splendida descrizione dei bar ottocenteschi, grazie alla quale un quadro impressionista sembra affiorare tra le parole, con i suoi fumi e le sue pulsioni artistiche dirompenti; un èkphrasis in perfetto stile omerico, poi, campeggia tra le pagine e a partire dalla cornice di uno specchio si racconta una storia accattivante e distensiva, parentesi affabulatoria in un lento incedere della trama, breve momento di serenità che spinge alla riflessione.
Un libro che, come un ponte rotto fra le sponde del passato e del presente, propone tra le righe (e con una forza che sarebbe dovuta essere maggiore) un’invettiva contro la seduzione e i desideri di gloria.