27 giugno 2020

La figura del padre nella poesia meridionale del Novecento: Gatto, Sinisgalli e Filippelli

Innumerevoli sono le poesie dedicate alla figura del padre. Ne ho scelte tre, scritte da importanti poeti meridionali del Novecento: Gatto, Sinisgalli e Filippelli. Sono testi assai diversi, eppure accomunati da una medesima sensibilità di fondo, sì che idealmente possono essere ricondotti a unità. Ricorrono alcune tematiche tipiche della letteratura meridionale del Novecento: il dolore esistenziale, la fatica del lavoro, l'amarezza, il legame con la terra, il ciclo delle stagioni e l'eterna contrapposizione tra il giorno e la notte, la luce e il buio. Ne vengono fuori tre meravigliosi ritratti di padri, savi e dolenti come sapevano esserlo specialmente alcuni vecchi uomini del Sud.

Alfonso Gatto – A mio padre
Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l'ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s'accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.
Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un'ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com'è bella la notte e com'è buona
ad amarci così con l'aria in piena
fin dentro al sonno”. Tu vedevi il mondo
nel novilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l'alba.

Nei versi di Alfonso Gatto (1909-1976) è evidente la contrapposizione tra due stagioni della vita, che corrispondono a diversi periodi storici. La prima è l'infanzia, epoca della libertà e della fiducia nel progresso. Il poeta salernitano ricorda l'ottimismo del padre, che invitava i figli a non aver paura della notte, intesa come preludio a una nuova alba. Al passato dell'infanzia si contrappone il presente della maturità; sono gli anni della guerra, del sangue, dell'invasore nazista e della Resistenza. La sofferenza del presente diventa l'occasione per ricordare il padre; la fede che questi aveva nel futuro è ciò che più manca a Gatto, costretto a vivere un triste presente, fatto di lutti, oppressione e assenza di libertà. Basterebbe allora che il padre potesse tornargli accanto, anche solo per una sera, per restituire al figlio corrucciato la fiducia in un avvenire migliore.

Leonardo Sinisgalli – A mio padre
L'uomo che torna solo
a tarda sera dalla vigna
scuote le rape nella vasca
sbuca dal viottolo con la paglia
macchiata di verderame.
L'uomo che porta così fresco
terriccio sulle scarpe, odore
di fresca sera nei vestiti
si ferma a una fonte, parla
con un ortolano che sradica i finocchi.
È un uomo, un piccolo uomo
ch'io guardo di lontano.
È un punto vivo all'orizzonte.
Forse la sua pupilla
si accende questa sera
accanto alla peschiera
dove si asciuga la fronte.

Il ricordo del padre Vito, che ci propone Leonardo Sinisgalli (1908-1981), cala invece il lettore in un'atmosfera pacifica e serena. La lirica è incentrata su un'unica, semplice e vivida immagine: il ritorno a casa la sera, dopo una dura giornata di lavoro nei campi. Le campagne del Meridione sono, allo stesso tempo, luoghi di secolari ingiustizie e straordinaria bellezza, di lotte contadine e di festa. Il poeta lucano ci regala in pochi versi un ritratto del padre bracciante, uguale a tanti altri, eppure portatore di un'unicità che si rivela nel particolare della “pupilla che s'accende”. Sinisgalli usa un linguaggio campestre, denso di evocazioni visive (la macchia di verderame), olfattive (l'odore dei vestiti), tattili (lo scuotere delle rape, l'asciugarsi della fronte), uditive (le chiacchiere con l'ortolano). Non c'è l'impegno civile del Gatto, non c'è l'esaltazione di particolari doti o meriti, ma una raffigurazione asciutta, di stringente realismo, che porta il lettore a calarsi nella quieta atmosfera serale; sembra quasi di essere accanto al poeta, seduti mollemente su un muretto a secco ancora imbevuto di sole, a guardare avanzare il piccolo e mite contadino.

Renato Filippelli  Io vegliai la tua morte
Io vegliai la tua morte
per tutta la notte,
ti parlai come a un figlio bambino
che s'avventuri nel buio,
ti dissi piano, come preghiere,
tutte le mie poesie scritte per te,
che un selvaggio pudore ti nascose
per tanti anni.
Tentai di sollevarti
le palpebre per rivederti gli occhi.
Entrava dalle imposte
un po' di spazio celeste,
la voce delle foglie nel vento
dell'orto, un ritmo
di tempo nell'eternità.
Io dissi a Dio: “Nel giorno
della misericordia,
guardami con gli occhi di mio padre”.

Il ricordo del casertano Renato Filippelli (1936-2010) è invece legato al momento estremo, al letto di morte su cui giace il padre in agonia. Fulcro della lirica è l'inversione dei ruoli: è il figlio a tenere per mano il padre, a rincuorarlo come si fa con un bambino che ha paura di affrontare il buio. Il figlio diventa guida, accompagna il genitore intimorito verso le tenebre ineluttabili. Il ruolo s'inverte nuovamente nei versi successivi: il poeta, durante la veglia, legge al padre semicosciente tutti i suoi scritti segreti, quelli che per pudore e vergogna non gli aveva mai rivelato. Anche nel momento estremo si mantiene figlio, quasi a cercare dal padre morente un'approvazione estrema e tanto desiderata.
Cagnaccio di San Pietro - Ritratto di pescatore - collezione privata

15 giugno 2020

"Malombra" di Antonio Fogazzaro: tra satira di costume e ossessioni spirituali

Ho impiegato vent'anni esatti per finire Malombra. Lo acquistai a quattordici anni, grazie a un buono libri di 50.000 lire offerto dalla Regione Lazio ai vincitori di un concorso per studenti. All'epoca ero fissato con la letteratura gotica e fantastica; basti dire che lessi persino l'indigesto mattone di Horace Walpole, Il castello di Otranto. Non potevo dunque lasciarmi sfuggire quello che è considerato il capostipite del genere in lingua italiana. Com'era prevedibile, la prima volta mollai la lettura dopo cinquanta faticosissime pagine. Qualche anno dopo mi cimentai nuovamente, arrivando a concludere la prima parte. Successivamente l'ho ripreso in mano varie volte, affrontato con le migliori intenzioni senza andare oltre i primi capitoli, infine abbandonato.
L'ultima è stata la volta buona. Alla base della decisione di arrivare fino in fondo c'era la stessa, immutata fascinazione di un tempo. Sarà che le storie dal sapore gotico hanno un'attrattiva particolare, sarà che, parafrasando Fiumani, “le cose in cui credo sono le stesse da una vita”, fatto sta che non ho resistito all'oscuro richiamo dell'avito palazzo signorile sulle sponde di un lago selvaggio, in cui si consuma una vicenda dai tratti occulti. Le aspettative sono state in parte disattese, perché Malombra non è una novella gotica o fantastica, ma un romanzo di costume tipicamente ottocentesco, che affronta incidentalmente tematiche spirituali e vagamente esoteriche.
La trama è nota, trattandosi di un classico. Corrado Silla, scrittore negletto da pubblico e critica, è invitato da un misterioso gentiluomo in un'antica dimora sulle sponde di un lago lombardo, per una non meglio precisata collaborazione. Nel palazzo del conte Cesare d'Ormengo, il giovane Corrado ha modo di conoscere meglio se stesso e il passato della propria famiglia, ma soprattutto s'invaghisce della nipote del conte, Marina di Malombra. Quest'ultima è il prototipo della femme fatale: bella, aristocratica, sdegnosa, altezzosa, dotata di un fascino perverso di fronte al quale si può solo soccombere. Marina è convinta di essere la reincarnazione della sfortunata ava Cecilia, rinchiusa nel palazzo dal crudele marito, infine impazzita e morta in circostanze misteriose. È questo l'elemento gotico che ha spinto molti critici a inquadrare il romanzo in un genere con cui, in verità, ha pochissimi punti di contatto. Il buio, la tempesta, l'intima sofferenza degli spiriti burrascosi, sono più che altro tematiche tardo-romantiche. È la cornice in cui si svolge la vicenda ad avere tratti tipici di certa letteratura gotica, ma l'ambizione di Fogazzaro era molto più alta dello scrivere un racconto fantastico.
Lo ribadisco, Malombra è principalmente un romanzo di costume, e non a caso parte significativa della storia si svolge nei salotti mondani di Milano. Fogazzaro ci regala uno spaccato fedele della nuova Italia post-unitaria; tutte le classi sociali sono rappresentate, dai miseri contadini all'aristocrazia, passando per la nascente borghesia industriale, che sarà destinata a cambiare il volto del Paese.
A mio avviso, punti di forza sono l'ambientazione e l'arguta caratterizzazione dei personaggi. Quanto a questi ultimi, Fogazzaro ne esaspera le caratteristiche, ne amplifica vizi e virtù, correndo il rischio di operare una classificazione manichea. Corrado Silla è allora l'emblema dello scrittore inetto, del romantico dell'ultima ora dilaniato da tormenti estetici, religiosi e morali. Steinegge, che pure è il personaggio che ho amato di più, perde forza quando viene fulminato sulla via di Damasco; la sua repentina conversione, per quanto provocata da un evento inaspettato e gioioso, ha il sapore di una rampogna moralizzante. E ancora, la contessa Fosca e il figliolo Nepo sono volutamente ridicoli e macchiettistici. Paradossalmente, il personaggio più credibile è Marina di Malombra, nonostante i parossismi e le ossessioni di reincarnazione.
Quanto al linguaggio, è letterario senza essere stucchevole, elegante ma di facile assimilazione. L'autore gioca con i registri: si passa dal comico (la servitù) al patetico (la contessa Fosca), dal drammatico (Silla) al misterioso (Marina). Prevalgono i dialoghi, ma sovente il narratore si dilunga in minuziose descrizioni del paesaggio e in analitiche dissertazioni sullo stato d'animo dei protagonisti; eppure, per quanto si tratti di un romanzo ottocentesco, questi intermezzi “aulici” non rallentano il ritmo della vicenda, che corre a precipizio verso il drammatico finale.
Si tratta di un classico, su cui sono stati versati fiumi d'inchiostro. Fermo restando che la mia recensione non può aggiungere nulla a quanto è già stato detto, ne consiglio la lettura, se non altro per la forte influenza simbolica che il libro ha avuto su generazioni di lettori. Per chi volesse, su YouTube è disponibile lo splendido lungometraggio del 1942 di Mario Soldati, che riproduce fedelmente le ambientazioni e gli umori del romanzo, grazie soprattutto a una superba fotografia.
Copertina di un'edizione Garzanti (2000)

2 giugno 2020

"Il giardino di cemento" di Ian McEwan: preservare l'imperfezione per non disperdersi

È incredibile come possano trovarsi inaspettate connessioni tra libri letti in momenti diversi della vita. Era il 1997 quando acquistai Voglio tornare a casa di Cynthia Voigt, uno splendido romanzo per l'infanzia pubblicato in Italia da Salani. La vicenda dei quattro fratelli Tillermann, orfani di padre e con la madre ricoverata in un ospedale psichiatrico, mi colpì molto. I quattro, rimasti soli ma uniti da un solido vincolo affettivo, fuggono dagli assistenti sociali e compiono un viaggio on the road nell'America rurale, alla ricerca della nonna che non hanno mai conosciuto. A distanza di oltre vent'anni, Il giardino di cemento mi ha riportato alla mente il romanzo della Voigt, pur con le dovute, enormi differenze; la vicenda narrata da McEwan ha infatti tratti morbosi e inquietanti, ma soprattutto non si conclude con un consolante lieto fine.
Julie, Jack, Sue e Tom hanno tra i diciotto e gli otto anni e vivono assieme ai genitori in una immensa casa nella squallida periferia inglese, una specie di purgatorio postindustriale che non è né campagna né città. La loro è l'unica casa ancora in piedi nella via; intorno solo macerie, in lontananza enormi alveari umani chiamati genericamente “i grattacieli”. Il padre è un uomo chiuso, «ossessivo, fragile e irascibile», incapace di slanci emotivi diversi dagli scoppi d'ira; l'unica sua passione è la cura maniacale del minuscolo giardino intorno all'abitazione. Malato di cuore, è stroncato da un infarto davanti al figlio Jack. La mamma è una donna buona e dolce, granitico punto di riferimento affettivo per i quattro figli. Purtroppo anche lei si ammala e si spegne a casa dopo una lunga agonia, rifiutando il ricovero ospedaliero. Non avendo parenti o amici stretti, i fratelli tengono nascosta la morte della madre e ne occultano il cadavere in cantina, all'interno di un grosso baule che viene riempito di cemento fino all'orlo.
Qual è la ragione di una decisione apparentemente così folle? I fratelli non hanno una risposta; ciascuno è chiuso nel proprio universo e ritiene di aver fatto la scelta giusta, l'unica possibile. McEwan ci regala il sentito e toccante resoconto di una giovinezza malata e sofferta, incapace di porsi le domande giuste e che non sa trovare un senso alle proprie azioni. Ogni personaggio è funzionale e insostituibile in questo perfetto meccanismo narrativo: Julie è al tempo stesso virginea e provocatrice, Jack vive un'adolescenza ribelle e rugginosa, Sue annichilisce il dolore nella lettura e nella scrittura, Tom è alla ricerca di un'identità sessuale che non riesce a definire.
Annunciare al mondo la morte della madre sarebbe la scelta più facile e comoda. I quattro fratelli, però, sono intimamente convinti che ciò significherebbe l'intervento dei servizi sociali, il trasferimento in istituto, l'abbandono della casa, il rischio che della loro imperfetta ma irripetibile unità familiare non resti che la cenere. Solo alla fine questo senso viene svelato, nell'ultima toccante scena che rivela il profondo amore che avvince i fratelli. I quattro sanno di essere un'unità imperfetta, un nucleo claudicante e difettoso, eppure è solo lo stare insieme che impedisce la dispersione dell'unica identità che conoscono. Letto secondo questa prospettiva, il loro gesto assume un significato alto e inimitabile. Il baule diventa sarcofago, la cantina è un monumento funebre, l'occultamento del corpo della madre ha la valenza di un perfetto atto d'amore. Di fronte alla rivelazione, ogni giudizio morale è destinato a cadere, ogni pregiudizio ad arrendersi.
Il giardino di cemento, pubblicato nel 1978, è il romanzo d'esordio di uno scrittore di razza, che riesce a tratteggiare con toni vividi il male di vivere che può albergare in un animo adolescente. È un libro duro, a tratti disturbante, di fronte al quale non si può rimanere indifferenti. McEwan sa tracciare un segno profondo nella sensibilità del lettore, oltre a lanciare tanti inestricabili interrogativi, destinati però a rimanere insoluti; scioglierli significherebbe svelare il profondo mistero dell'essere umano, un compito che nessun romanzo può assumersi senza rischiare di essere bugiardo e parziale. Nel coacervo di sensazioni che il libro lascia, sarà la pietas a emergere alla fine, in una sorta di rito catartico che purifica il cuore e  la memoria dei protagonisti.