30 agosto 2019

San Severino di Centola, l'antico borgo cancellato dal progresso

Il Cilento è caratterizzato da villaggi e casali sparpagliati su un territorio vasto, scarsamente popolato e in gran parte selvaggio. Molti piccoli centri sono stati abbandonati, diventando meta di curiosi e appassionati di rovine; i più celebri sono Roscigno, Sacco Vecchia, San Giovanni a Tresino e San Severino di Centola. Alcuni sono stati lasciati dagli abitanti per cause naturali, come frane, inondazioni, alluvioni o terremoti; altri, invece, hanno subito eventi umani, quali guerre, invasioni o decisioni d'imperio delle autorità. San Severino di Centola costituisce invece un unicum, in quanto a segnarne la fine fu l'avanzare del progresso. Quando a fine Ottocento fu costruita la ferrovia a valle, gli abitanti del borgo sulla rupe cominciarono ad abbandonare le antiche case a picco sulla gola scavata dal fiume Mingardo, insediandosi lungo la strada ferrata. Il progressivo abbandono si concluse nel 1977, ponendo fine ad una storia iniziata nel X secolo.
Passeggiare tra le rovine di San Severino significa immergersi in una dimensione contadina che non esiste più, fatta di casupole in cui famiglie numerose condividevano il tetto con gli animali, dove gli unici luoghi di aggregazione erano la chiesa e la taverna. Tre sono gli edifici di rilievo che è ancora possibile ammirare, anche se ridotti a ruderi: il castello, il palazzo  baronale (con un magnifico portale in pietra locale) e la chiesa di Santa Maria degli Angeli. Il resto è un dedalo di strette viuzze, così erte da affrontare a dorso di mulo, su cui si affacciano le abitazioni. Molte sono pericolanti, altre hanno come soffitto il cielo, qualcuna resiste silente all'avanzare degli anni. L'unico edificio ristrutturato è una cappella, dove tuttora vengono celebrate le funzioni religiose.
A differenza di altri luoghi del genere, San Severino è facilmente raggiungibile, sia con il treno che con l'automobile. Il paese è servito dalla stazione "Centola-Palinuro" della linea Tirrenica Meridionale, posta a valle dell'antico abitato, a circa dieci minuti di cammino. In automobile, per chi proviene da Salerno, bisogna percorrere la Strada statale 18 e uscire a Poderia. L'automobile può essere lasciata in sosta in un piccolo parcheggio all'ingresso del paese.
Fotografie a cura di Sara Nigro, che ringrazio per il prezioso contributo.
Una via del borgo; sulla destra, ruderi del Palazzo baronale
La parte alta del borgo
La cappella, unico edificio ristrutturato
 La piazzetta con la cappella ristrutturata
 Particolare di un'abitazione
 Ruderi della Chiesa di Santa Maria degli Angeli
 Le vie del paese
 La gola scavata dal Mingardo
 Veduta del borgo
 La parte bassa del borgo, con la S.S. 18 in lontananza
I ruderi della Chiesa di Santa Maria degli Angeli

20 agosto 2019

"Il custode" di Carmelo Samonà: le meditazioni di un recluso

Un uomo senza nome è rinchiuso in una stanza anonima, immersa in una fioca penombra. Poche suppellettili, un letto, una sedia impagliata, un'unica finestra che dà su un muro di lunghezza e profondità indefinite. Non sa perché si trova lì, né da quanto tempo; il suo passato non ci viene mai rivelato, se non attraverso fugaci schegge vaganti di ricordi minimi. È in prigione, per quanto all'apparenza non stia scontando una pena. Sarebbe meglio dire che è privato della libertà personale, impossibilitato a muoversi e andare via. Silenti custodi si avvicendano a guardia della cella; non parlano, né interagiscono con lui, se non con indefiniti segnali delle mani. Taciturni e severi, si limitano a portargli da mangiare tre volte al dì, senza mostrare il volto o palesarsi apertamente. Nella forzosa inazione cui è costretto, il protagonista ha un unico obiettivo: stabilire un contatto con i carcerieri.
«Nella situazione in cui mi trovo, la mia stessa sopravvivenza non avrebbe senso se non cercassi di raggiungere come posso, con ogni mezzo di cui dispongo, gli uomini che esercitano su di me una vigilanza così spietata rimanendo nascosti. […] Se il loro intento è di privarmi, tacendo, del senso del tempo e di una qualsiasi idea di futuro, il mio è di scalfire quella cortina, di lavorarla con pazienza, ora per ora, giorno per giorno, fino ad aprire una breccia da cui filtrino indizi meno vaghi sulle mie intenzioni.»
Il custode, di Carmelo Samonà (1926-1990), è stato pubblicato originariamente nel 1983. Il suo autore, nato a Palermo ma trapiantato a Roma, era professore di Letteratura spagnola all'Università della Sapienza, approdato tardivamente alla letteratura, a più di cinquant'anni. Si tratta dunque di un'opera della maturità, come dimostrano lo stile aulico e le complesse tematiche filosofiche ed esistenziali.
Ad una lettura superficiale, e semplificando all'osso il discorso, potrebbe dirsi che non succede niente, che nessun fatto rilevante arricchisce le pagine. Il protagonista è chiuso in uno spazio angusto e riempie le monotone giornate diffondendosi in un complicato monologo. Nulla di più, nessuna variazione sul tema. Eppure, a guardare bene, le sue giornate sono ricche di eventi. In primis ci sono i sussulti interiori, veri e propri terremoti che quotidianamente ne mutano la percezione di sé e del mondo. Poi ci sono gli eventi esterni, tutte le circostanze minime che i carcerieri, ed in particolare uno di loro, introducono nella cella. Un'esitazione della mano, un bisbiglio lontano, un bracciale al polso, una sciarpa azzurra che fa capolino tra i battenti, una pressione più forte del dito sul vassoio; sono inezie a cui nella vita reale non si fa neppure caso. Per il protagonista, invece, sono le chiavi che ha a disposizione per comprendere le ragioni del suo isolamento coatto dalla società, gli strumenti per elaborare una soluzione o addirittura un piano di fuga.
Il romanzo è così attraversato da una sottile inquietudine, perché, di pari passo con il protagonista, anche il lettore compie un continuo sforzo per decifrare l'enigma. Alla fine il custode si rivelerà al recluso, sbrogliando finalmente la matassa. A questo punto però il libro si interrompe, lasciandoci con l'amaro in bocca. Il compito di trovare l'esatta chiave di lettura diventa allora un nostro dovere. Chi è il detenuto e perché si trova lì? Chi sono i carcerieri e perché si ostinano a non rivelarsi? Una prima ipotesi è che Il custode sia una riflessione sulla pena detentiva, sulla sua incapacità di costituire un effettivo contraltare al delitto. Eppure nel libro non si parla mai di processi, né esplicitamente di carcere. E se il recluso si trovasse invece in un manicomio? Anche questa ipotesi pare smentita dalla profonda lucidità della sua analisi, che arriva persino ad afferrare, per poi escluderla decisamente, la tesi della malattia mentale. Forse Samonà ha voluto utilizzare una metafora per descrivere l'uomo contemporaneo, essere sociale che cerca disperatamente un contatto con i propri simili, sebbene non possegga più il linguaggio per conferire distintamente con loro. Se davvero è così, il libro appare rivelatore di una delle malattie del nostro tempo, l'epoca dei social che paradossalmente annullano il vero contatto umano. Quale che sia la risposta, Il custode resta un romanzo breve ma corposo, talmente denso di possibili significati da apparire ostico e impegnativo anche per lettori di lungo corso.

9 agosto 2019

"Power, corruption & lies": i New Order in orbita

É storia risaputa che il nome "New Order" fu scelto a tavolino ben prima della morte di Ian Curtis, quando i quattro Joy Division giurarono eterna fedeltà alla formazione originaria. Il suicidio del cantante confermò l’intendimento, e già un anno dopo, nel 1981, uscì il primo album col nuovo marchio.
La scelta del nome chiarisce un punto decisivo: i New Order non sono i Joy Division senza Ian Curtis, come pure qualcuno continua malignamente a insinuare. Sono una realtà diversa e originale, anzi volutamente svincolata da quel che era stato; ogni paragone col passato, oltre ad essere fuorviante, non avrebbe senso. Se infatti il primo LP, Movement (1981), ancora manteneva legami con le atmosfere dark-wave dei JD, il successivo Power, corruption & lies segna la strada maestra, tracciando il solco che verrà percorso negli anni a seguire. Critica e appassionati si dividono su quale sia il capolavoro dei New Order, tra Movement, Power, corruption & lies (1983) e Low-life (1985). Se il primo appare troppo derivativo, mentre il terzo patisce una registrazione balorda, è forse proprio il secondo disco a meritare il posto più alto del podio.
In copertina una riproduzione del dipinto Un cesto di rose del pittore francese Fantin-Latour, idea del grafico Peter Saville, che mantiene il profilo minimale voluto dal gruppo: nessun libretto coi testi, niente foto, i titoli dei brani stampati solo sull'etichetta del vinile. Senza orpelli di sorta, la musica è al centro del progetto.
Apre le danze Age of consent, gioiello synth-pop che fa venire voglia di ballare. In primo piano le percussioni ossessive di Stephen Morris, preciso e robotico come una drum machine. La sezione ritmica si esalta grazie all'apporto del basso di Hooky, a costruire il tappeto sonoro su cui si innestano gli intrecci di chitarre e sintetizzatori. Echi spettrali di synth caratterizzano il morbido incedere della successiva We all stand. Il ritmo si alza nuovamente con The village, una perfetta gemma d'impronta dance arricchita da intermezzi vocali in cui Sumner non fa il Curtis, ma definisce le coordinate di un modo personale di cantare. Ancora le tastiere in primo piano in Your silent face, altro vertice del disco impreziosito dalle soffici linee del basso. La conclusione è affidata a Leave me alone, che inizia con i memorabili versi «On a thousand islands in the sea / I see a thousand people just like me, / a hundred unions in the snow, / I watch them walking, falling in a row». É un pezzo circolare e ipnotico, che, senza temere di cadere nella banalità più trita, può ben dirsi meraviglioso.
Forse più degli altri LP citati, Power corruption & lies è un disco compiuto e uniforme, sebbene caratterizzato da continui cambi di ritmo. Gli otto brani miscelano sapientemente atmosfere cupe con intermezzi danzerecci squisitamente eighties. Con questo lavoro i New Order prendono per mano l'ascoltatore e lo accompagnano in orbita, verso mondi lontani slegati dalle regole che conosciamo, in cui aleggia una tiepida malinconia, ma rimane sempre la speranza di risorgere. Sarà merito dei sintetizzatori, o forse dello spettro di Ian Curtis. Sarà merito di Morris, Sumner, Hook e Gillian, che hanno dimostrato di saperci fare nonostante molti scommettessero il contrario.
La copertina di Power, corruption & lies (1983)