31 marzo 2024

"Il bastardo primordiale" di Tom Sharpe: per gli amanti del grottesco

Il bastardo del titolo è tale di nascita e di fatto. Di nascita perché la madre, morta di parto, non ha mai rivelato l'identità dell'uomo che l'ha sedotta e abbandonata. Di fatto perché Lockhart Flawse, questo il suo nome, è un giovane cinico e privo di scrupoli, pronto a commettere ogni genere di nefandezze pur di raggiungere il suo scopo. Lockhart vive a Flawse Hall, un'antica magione sperduta nella brughiera del Northumberland, assieme al dispotico nonno materno Edwin e al truce ma fido domestico scozzese Dodd. Il motore dell'azione, l'evento che dà il via a un caleidoscopio di vicende tra il comico e il tragico, è l'incontro dei due Flawse con madre e figlia Sandicott. La prima è un'arrampicatrice sociale, disposta a rinunciare persino alla propria dignità pur di mettere le mani sul patrimonio del vecchio. La figlia Jessica è invece una ragazza dolce e ingenua, cresciuta a pane e romanzetti rosa, incapace di ogni malizia. Tra i membri di questo eccentrico quartetto si celebrano due matrimoni: nonno Flawse sposa mamma Sandicott e Lockhart impalma Jessica. È a questo punto che gli eventi prendono una piega inaspettata fino all'esplosivo finale.
Il bastardo primordiale è considerato un romanzo umoristico, sebbene la tonalità dominante sia il grottesco. La storia è infatti infarcita di eventi bizzarri, paradossali, gravi e drammatici, tuttavia narrati con un tono innaturalmente lieve e comico: esplosioni, uccisioni di animali, omicidi, incesti, atti di sadismo, parafilie, reati contro il patrimonio e contro le persone, imbalsamazioni e via discorrendo. Il tutto è esposto con uno stile asciutto e sobrio che solo raramente indulge nel turpiloquio. D'altronde il londinese Tom Sharpe (1928-2013) era un serio studioso di storia e antropologia, prima ancora di ottenere la fama come scrittore umoristico. Lavorò per un periodo in Sudafrica, venendone espulso nel 1961 per aver pubblicamente contestato il regime dell'apartheid. Pubblicò il suo romanzo d'esordio nel 1971, relativamente tardi, dando sfogo a una vena grottesca che lo portò a sfornare molti bestseller. In Italia sono stati pubblicati da Longanesi e TEA.
Il romanzo è un perfetto esempio di humour nero inglese, tra sarcasmo, giochi di parole, scene irresistibilmente comiche e altre di devastante cinismo. Non mancano frecciatine razziste, rivolte principalmente a noi italiani; il personaggio dell'imbalsamatore Taglioni è infatti un concentrato dei peggiori e più odiosi stereotipi che gli inglesi hanno nei nostri confronti. Tuttavia è indiscutibile che il vero bersaglio dei feroci strali di Sharpe siano proprio i suoi connazionali. Il quadro che ne esce è davvero desolante: gli inglesi sono descritti come un popolo gretto, intollerante, aristocratico solo di facciata, tendente alla perversione e alla brutalità, feroce dietro un perbenismo ipocrita. È risaputo che paradosso ed esagerazione sono le chiavi di volta del grottesco; tuttavia è indubbio che oltre i sapienti eccessi del romanzo si nasconda un fondo di verità.
Sulla copertina dell'edizione TEA c'è una promessa perentoria, ossia "Garantito: si ride!". A mio avviso è un'esagerazione, perché il romanzo strappa sì qualche sorriso, ma non si ride mai di gusto; forse per apprezzare al meglio i giochi di parole andrebbe letto in lingua originale. Ritengo invece che il punto di forza siano i personaggi; Sharpe infatti è riuscito a tratteggiare perfettamente i tanti vizi e le poche virtù di questo quartetto di squinternati. Persino i personaggi di contorno – Dodd, l'avvocato Bullstrode, il citato Taglioni – sono delineati con straordinaria vividezza. 
Ho acquistato questo romanzo per caso, in quanto non conoscevo il caustico scrittore inglese. L'ho pagato due euro perché ho trovato una vecchia edizione del 1994 in una libreria di remainder. Faccio questa precisazione perché, discostandosi molto dai miei canoni, credo che non l'avrei mai comprato a prezzo pieno. Tuttavia lo consiglio agli amanti del genere grottesco, perché il turbinio di emozioni contrastanti che provoca è sicuramente buon pane per i loro denti.
Edizione TEA del 1994

19 marzo 2024

"Gioventù. Scene di vita di provincia" di John Maxwell Coetzee: una dolorosa iniziazione

Si parla poco della storia del Sudafrica, meno di quanto meriterebbe una delle pagine più controverse del Novecento. L'apartheid è solo menzionata dai manuali di storia delle scuole superiori, brevi cenni che non rendono pienamente l'idea di cosa è stato l'ultimo sistema segregazionista protetto dall'ombrello della legge. Come ho già scritto altrove, quando si parla di lotta contro l'apartheid, il pensiero corre a Nelson Mandela e ai militanti dell'African National Congress. Eppure non fu esclusivamente una battaglia della gente di colore: molti cittadini bianchi fecero propria questa buona causa, pagando addirittura con il carcere. I bianchi che non appoggiavano la segregazione erano coraggiosi, perché ci voleva ardimento per abbandonare i privilegi di cui si godeva esclusivamente per il colore della pelle, abbracciando la causa degli esclusi e degli emarginati. C'era poi una terza categoria, formata da quelli che non sostenevano né il governo né gli attivisti di colore, provando al contempo disgusto per la classe dominante e sfiducia verso quanti avrebbero dovuto rovesciarla. L'unica opzione concepibile era emigrare. È a questa minoranza di scettici che Coetzee ha dato voce nel romanzo Gioventù. Scene di vita di provincia.
Si tratta del secondo volume di un'autobiografia fittizia principiata col romanzo Infanzia. La vicenda è narrata anonimamente in terza persona. Il protagonista John è un giovane studente di matematica di Città del Capo. Sebbene in Sudafrica sia privilegiato in quanto bianco, prova insofferenza verso il proprio Paese e i suoi abitanti. Il Sudafrica gli appare come una terra arretrata nonostante la ricchezza materiale, culturalmente povera, lontana dai grandi movimenti artistici, capace solo di scimmiottare malamente le mode provenienti dall'Inghilterra o dagli Stati Uniti. In poche parole, una nazione senza identità, ignorata dagli europei cui vorrebbe assomigliare e tuttavia non pienamente africana. John invece pensa di essere un artista, un poeta per la precisione, e non tollera che il tempo gli sfugga di mano senza averlo pienamente vissuto. Così un giorno, prima della notifica della famigerata cartolina per la leva obbligatoria, si lascia tutto alle spalle e parte per l'agognata Londra.
Sono i primi anni Sessanta, gli anni della Swinging London, quando la capitale inglese si è affermata come centro indiscusso dello stile, della moda e della cultura. John prova in tutti i modi a diventare londinese e a recidere i contatti con la madrepatria; addirittura viene assunto come programmatore dalla IBM, conducendo una vita convenzionale che stride coi suoi sogni da artista bohémien. Scopre però di non essere tagliato per quell'esistenza e inanella un fallimento dietro l'altro, soprattutto in campo sentimentale. Inizialmente si convince che è il prezzo da pagare per diventare un vero artista: solo toccando con mano ogni abiezione e cadendo sempre più in basso potrà assomigliare ai suoi miti letterari. Anche questa è una fallace convinzione: la verità è che le origini sono una catena da cui non ci si può mai liberare.
«Il Sudafrica è come un albatro che gli sta sul groppone. Vorrebbe toglierselo di dosso, non gli importa come, così da cominciare a respirare.»
Gioventù è il resoconto di una dolorosa iniziazione che purtroppo conduce a uno scontato fallimento. È facile identificarsi in John, nella sua inettitudine e incapacità di adeguarsi al modello di esistenza che ha in mente. Dovunque vagherà sulla terra, sarà sempre un diverso, salvo nel natio Sudafrica, dove si trovano le sirene che gli fanno ribrezzo e tuttavia lo attirano perché gli somigliano. Alla fine dovrà accettare il fallimento come qualcosa di ineludibile. Coetzee sembra sostenere che non ha senso tentare di ribellarsi a un destino scritto nel sangue: una visione cupa e pessimistica espressa attraverso una scrittura densa e introspettiva. Gioventù è perfettamente inquadrabile nel genere del romanzo di formazione, sebbene la maturazione del protagonista coincida con lo sviluppo di un totale disincanto verso le cose del mondo. Nonostante innumerevoli esperienze di studio, lavorative, sentimentali e artistiche, John non riesce a trovare una strada che senta essere pienamente la sua. E torno dunque a quanto già detto all'inizio, ovvero che con Gioventù lo scrittore di Città del Capo ha dato voce a una minoranza negletta di "esuli" sudafricani.
Breve postilla. È un libro godibile che peraltro contiene molti riferimenti all'Italia e alla sua cultura; un motivo in più per leggerlo e apprezzare uno scrittore che nel 2003 è stato insignito del Premio Nobel.

6 marzo 2024

Le suggestioni d'oltremanica dei Frigidaire Tango

Parlare dei Frigidaire Tango significa tornare alle origini della new wave nostrana, prima ancora che nascesse il fenomeno del "rock italiano cantato in italiano" che vide tra i principali esponenti Diaframma e Litfiba. Qualche anno prima, siamo agli inizi degli Ottanta, la musica tricolore si era aperta alle suggestioni d'oltremanica, come già era accaduto nei due decenni precedenti. Se il beat e il progressive furono infatti importati dalla terra d'Albione dando vita a interessanti e originali progetti autoctoni, il punk della prima ora aveva appena sfiorato la penisola. Con la new wave, invece, si può parlare nuovamente di una scena italiana, di cui i Frigidaire Tango furono precursori e protagonisti, al punto da condividere il palco persino coi Sound del compianto Adrian Borland. Originari di Bassano del Grappa, diedero alle stampe solamente un 33 giri (The cock, 1981) e un EP (Russian dolls, 1983). Quest'ultimo contiene Recall, il loro brano più celebre che fu presentato persino in RAI, recentemente riproposto nella traduzione italiana da Giorgio Canali nel suo album Perle per porci. Ho parlato di traduzione perché i Frigidaire Tango cantavano in inglese, al pari di gruppi mitici come Chrisma, Neon e Gaznevada. Scioltisi qualche anno dopo, si sono poi riformati dando alle stampe nel 2009 un disco di inediti cantato in italiano, L'illusione del volo. Ma l'interesse nei loro confronti si era risvegliato già tre anni prima con la pubblicazione di un cofanetto contenente tutta la produzione, The freezer box. L'album di esordio di cui voglio parlare, The cock, è stato invece ristampato in LP nel 2013 dalla Spittle Records, per cui è facilmente reperibile.
Prima di analizzarlo, bisogna partire dal contesto. Come raccontato dagli stessi musicisti in un'intervista disponibile su Vice, in quegli anni non era facile pubblicare un disco, soprattutto perché nell'epoca dell'analogico la registrazione aveva costi proibitivi. Ciononostante, il gruppo veneto ottenne la fiducia di una piccola etichetta indipendente, la Young Records. Il risultato fu eccellente, tanto che The cock è un album che può ancora dire molto a oltre quarant'anni dalla sua uscita. Registrato al Button Studio tra la primavera e l'autunno del 1981, vede Charlie "Out" Cazale alla voce, Steve "Hill" Dal Col alla chitarra, Mark Brenda alle tastiere, J.M. Le Baptiste alla batteria, nonché il bassista uscente (Steve "Elbow" Gomero) e il nuovo Dave Nigger. Il disco è inoltre impreziosito dal sassofono di Alex Strax. Come è evidente dagli pseudonimi, l'Inghilterra era l'immancabile punto di riferimento. Il suono di The cock ricorda infatti i grandi nomi del post punk: Stranglers e Magazine per l'uso delle tastiere, Joy Division per le atmosfere, e ancora The Sound, Ultravox, i primi XTC.
Il basso prepotente che apre Dangerous echo indica subito la via. Ritmo incalzante e bordate di chitarra su un tappeto di tastiere: così si presenta la band nei primi solchi di The cock, in perfetto stile new wave. Nella successiva Anytime you dress so fine fa addirittura capolino un sassofono, mentre Blue & pink è un raffinato gioiellino synth-wave con una meravigliosa coda pianistica su cui si innesta la chitarra lancinante di Dal Col. Push a me ricorda la coeva The fire dei Sound: una traccia furiosa e veloce come da tradizione punk. La prima facciata si chiude con le atmosfere rarefatte di A citizen came, altro brano degno di nota. Resterà sorpreso chi pensi che il lato B sia inferiore, come spesso accade negli album d'esordio. Invece, a parte un paio di riempitivi, il livello si mantiene alto. La strumentale I'm faster non avrebbe sfigurato in dischi inglesi ben più celebri: la furia chitarristica ammansita dal tappeto di tastiere la rende un ideale anello di congiunzione tra passato e "nuova onda". Black curtains è la mia preferita; ricorda qualcosa dei Magazine di Howard Devoto ed è impreziosita da un bell'assolo finale di Dal Col che sembra quasi John McGeoch. La conclusione è affidata all'omonima Frigidaire tango, una sorta di "tango elettronico" che vira verso la musica industriale.
Dopo ripetuti ascolti posso confermare che The cock è davvero una gemma nascosta che avrebbe meritato ben altra fama. Qualche ingenuità c'è, ma dobbiamo pensare che i ragazzi di Bassano erano giovanissimi e si approcciavano a un genere che in Italia era ancora agli albori. L'ispirazione dei gruppi inglesi si sente, tuttavia The cock non è derivativo; anzi, sorprende l'ascoltatore per originalità e compiutezza del progetto. Ai Frigidaire Tango si deve molto di più rispetto a quanto abbiano raccolto, come dimostra il fatto che abbiano suonato con Adrian Borland. Questo 33 giri non può mancare in un'ideale classifica dei cento migliori dischi di rock italiano.
Copertina e retro di The cock (ristampa Spittle Records del 2013)