24 febbraio 2024

Il pittore che ha dato voce al silenzio

Dal 9 febbraio al 26 maggio è possibile visitare a Roma, presso il Palazzo Merulana, la mostra "Antonio Donghi: la magia del silenzio", a cura di Fabio Benzi. Come ho già scritto qualche tempo fa, Palazzo Merulana ha sede nell'omonima via nell'ex Palazzo dell'Ufficio di Igiene, chiuso e pericolante fino a pochi anni fa. Nel 2013 il Comune di Roma, proprietario dell'edificio, ha avviato un project financing per il recupero dell'area; è nato così Palazzo Merulana, oggi sede di un interessante museo di pittura e scultura del Novecento italiano. Lo spazio espositivo è articolato su quattro livelli e ospita stabilmente un centinaio di opere. Il percorso museale si snoda al secondo (il meraviglioso Salone) e al terzo piano (la Galleria), mentre al quarto c'è un'ampia sala utilizzata anche per conferenze. Le opere esposte sono di proprietà dei coniugi Elena e Claudio Cerasi; alla Fondazione a loro intitolata si deve il merito di aver aperto al grande pubblico questa importante collezione privata. La mostra dedicata a Donghi occupa il terzo piano e il biglietto consente di visitare inoltre la collezione permanente e, fino al 3 marzo, un'esposizione dell'artista contemporaneo Vittorio Marella.
Il romano Antonio Donghi (1897-1963) è stato uno dei principali esponenti del cd. Realismo magico, corrente artistica e letteraria che si affermò in Italia fra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Agli inizi della carriera si dedicò perlopiù alla paesaggistica, con opere di gusto tradizionale in stile post-impressionista. Nel 1923 la svolta. Donghi entrò a far parte del gruppo di artisti gravitanti intorno alla Galleria Bragaglia, ove erano esposte le avanguardie nazionali e straniere; qui ammirò le opere di Ubaldo Oppi, che lo impressionarono profondamente. Oppi è considerato uno dei fondatori del citato Realismo magico, una corrente che inseriva elementi magici o metafisici in una cornice apparentemente realistica. Per capire di cosa si tratta, vi invito a leggere il romanzo La pietra lunare di Tommaso Landolfi, in grado di spiegare meglio di ogni manifesto questo particolare movimento. Lo stile di Donghi si affinò nei due decenni successivi, rendendolo un artista noto e riconoscibile. Caratteristica è la rappresentazione di figure semplici, uomini e donne ripresi in gesti quotidiani, raffigurati in pose fisse, dallo sguardo profondissimo, realistici al massimo eppure circondati da un'aura sovrannaturale. Ha scritto in proposito il poeta lucano Leonardo Sinisgalli:
«Bisogna veramente nominare il paradiso a proposito di Donghi, e domandarsi di che cosa sono fatti gli angeli. […] Questi fiori che sembrano dipinti sui piatti, questi personaggi a coppie, così limpidi a furia di star fermi, così totalmente privi di ombra, hanno una fissità medianica. Sono spiriti, ecco, e son fatti della stessa sostanza dei fiori. Anche gli angeli devono essere fatti della stessa sostanza.»
Le opere in mostra sono più di trenta, in prestito dalla Galleria Comunale d'Arte Moderna di Roma, dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, dalle collezioni della Banca d'Italia e UniCredit, nonché facenti parte della Fondazione Elena e Claudio Cerasi. Di fatto viene ricostruito l'intero percorso del pittore romano: i paesaggi e le nature morte delle origini, arrivando ai ritratti di figure in interni ed esterni, colti nella dimensione intima della camera da letto, della toeletta o del camerino. Non a caso molte opere rappresentano circensi, attori e saltimbanchi, raffigurati non durante l'esibizione ma nelle pause prima o dopo lo spettacolo. Il teatro, il cinema e il circo ebbero infatti una profonda influenza su Donghi.
Figura di donna, 1932

Sebbene i paesaggi rientrino tra le opere "minori" dell'artista, quelli esposti sono molto suggestivi. Non sono un critico d'arte, ma ho notato che la medesima fissità che caratterizza i ritratti è presente anche nei paesaggi. Sono luoghi senza tempo, immoti, bloccati in un eterno presente. Si prenda come esempio il Castello di Arsoli: tutto è apparentemente fermo, ma il cancello di ferro aperto sul fondo induce nell'osservatore una sottile inquietudine, come se da un momento all'altro dovesse irrompere sulla scena un personaggio inquietante o un evento inatteso.
Castello di Arsoli, 1946
Via del Lavatore, 1924
Paesaggio toscano (Monte Amiata), 1934
Fruttiera su un tavolo, 1935

I ritratti sono invece i grandi capolavori di Donghi. Come riportato nelle note che accompagnano la visita, Donghi «ha una capacità straordinaria di assorbire i testi figurativi dell'arte antica, dal Trecento al Seicento, celandone accuratamente i riferimenti in soggetti semplici e popolari». Sono personaggi senza tempo, moderni per angoscia esistenziale e un sottile male di vivere che traspare dallo sguardo, e al tempo stesso antichi come divinità, di cui hanno anche la posa ieratica. Osservandoli, viene da chiedersi cosa si nasconda dietro il loro sguardo interrogativo: indifferenza, paura, angoscia, disincanto o semplicemente resa alle grandi domande che attanagliano l'uomo. I personaggi di Donghi cercano una risposta ai dubbi che affollano la mente, oppure semplicemente accettano passivamente gioie e dolori dell'esistenza? Questa la domanda che mi sono posto. D'altronde, sembra emergere un senso di totale incomunicabilità; anche laddove le figure sono in gruppo – come ne La gita in barca o in Caccia alle allodole –, non c'è dialogo tra loro, non si toccano, non si guardano né parlano. Ciascuna è immersa nei propri casi ed è disinteressata ai pensieri e ai sentimenti degli altri.
Donna alla toeletta, 1930
Annunciata, 1940
Ritratto di madre e figlia, 1942
Caccia alle allodole, 1943

Tra le tante opere, mi ha colpito particolarmente Il giocoliere. In una stanza dai colori tenui, abbellita soltanto da una tenda e da un modesto vaso di fiori su un treppiede, un giocoliere prova il suo spettacolo. Vestito con un gilet ocra e pantaloni di velluto viola, è in grado di tenere un cilindro in equilibrio sul sigaro. Lo sguardo è fisso sul cappello, i piedi ben piantati in terra, una mano sul fianco e l'altra in avanti, pronta a prendere il cilindro qualora dovesse cadere. Il quadro è così realistico che lo spettatore non può far altro che rimanere in silenzio, rapito dall'abilità del giocoliere e timoroso che il cappello possa cadere.
Il giocoliere, 1936

Le fotografie rendono l'idea della mostra più di qualsiasi commento, per cui non aggiungo altro. Mi preme tuttavia fare un piccolo appunto. La mostra è ospitata in tre sale abbastanza anguste, sebbene Palazzo Merulana disponga di spazi più ampi e arieggiati, come i saloni al secondo e quarto piano. Dato il notevole afflusso di pubblico, specialmente nei fine-settimana, forse sarebbe stato opportuno collocarla nelle sale più grandi.
Ritratto di donna, 1944
Il cacciatore, 1929

12 febbraio 2024

"La fonte ai confini del mondo" di William Morris: dove tutto è cominciato

Quando si parla di generi letterari o correnti artistiche, c'è sempre divergenza di opinioni circa l'individuazione dell'artista capostipite o dell'opera archetipica. Ciò vale anche per la letteratura fantastica, specialmente per il suo sottogenere noto come fantasy. Se infatti la storia del fantastico è antica quanto l'uomo, come ci insegna Todorov in un suo celebre saggio, il fantasy è invece relativamente recente, risalendo alla seconda metà dell'Ottocento. Sia pure con le dovute cautele, molti concordano che La fonte ai confini del mondo (1896) dell'inglese William Morris possa essere considerato il primo romanzo fantasy della storia, tanto che fu di ispirazione per i grandi maestri del genere, Tolkien e Lewis. Morris nacque a Walthamstow nel 1834 e morì nel 1896; fu scrittore di prosa, poeta, architetto, editore e pittore legato al movimento preraffaellita, nonché attivista politico vicino al socialismo. La fonte ai confini del mondo è stata a lungo inedita in Italia; la prima edizione Fanucci è infatti del 2005, poi ristampata nel 2019.
La trama riprende pedissequamente alcuni tòpoi della letteratura cortese e cavalleresca. In un'epoca che somiglia al Medioevo c'è una terra immaginaria su cui regnano diversi sovrani. Uno di questi è Peter, un regulus che regna sulla felice Upmeads. Peter ha quattro figli e i tre maggiori lasciano la terra dei padri per fare fortuna nel mondo. Il più piccolo, Ralph, è destinato a rimanere a Upmeads; tuttavia il suo temperamento temerario lo spinge ad allontanarsi di nascosto dagli amorevoli genitori. Così un bel giorno parte senza una meta precisa. Inizialmente segue un indefinito desiderio d'avventura, fino a quando viene a conoscenza di una miracolosa fonte che dona eterna giovinezza, salute, felicità e avvenenza a chiunque riesca a bere le sue acque. Senza esitazioni Ralph parte alla ricerca della sorgente, tra mille peripezie che gli faranno acquisire fama, sapere e gloria.
Il tema centrale del romanzo è proprio il viaggio; in ciò si ravvisa l'influenza maggiore che Morris ha avuto sugli altri maestri del genere. Il suo protagonista è perennemente in movimento, a piedi o a cavallo; egli visita città e castelli, attraversa boschi e deserti, valica montagne e supera colline, guada torrenti e fiumi impetuosi, conosce uomini e donne di ogni risma. Le descrizioni delle peregrinazioni di Ralph sono a mio avviso il punto forte del romanzo; forse soltanto Tolkien riuscirà a rendere con maggiore realismo e vividezza lande selvagge e paesaggi immaginari. Morris è, sotto questo aspetto, uno scrittore "ottocentesco", minuzioso nelle descrizioni e attento nei particolari; molte pagine offrono davvero un'esperienza immersiva, sicché sembra di camminare assieme ai suoi personaggi in terre lontane e amene. I dialoghi invece sono spesso verbosi, oltre che improntati a un tono moraleggiante che appesantisce la lettura. Tutti i personaggi, anche i più umili, sfoggiano un linguaggio forbito da poeta cortese che appare poco credibile, rendendo indistinguibile il misero bracciante dal potente abate, il rozzo guerriero dal letterato.
Un altro aspetto poco convincente è che i personaggi sono stereotipati secondo una rigida visione manichea che esaspera gli aspetti buoni e quelli cattivi, senza vie di mezzo. Mi duole dire che in alcuni frangenti ho trovato insopportabile il protagonista. Ralph è l'emblema dell'eroe senza macchia e senza paura: bello, coraggioso, saggio, giusto, in una parola perfetto. A tratti tracotante, non ha l'ingenuità della giovinezza che me l'avrebbe reso più simpatico; nessun dubbio lo sfiora, nessuna difficoltà sembra insormontabile per lui. Per queste ragioni diventa difficile immedesimarsi o anche solo empatizzare con lui, in quanto Morris non instilla mai il dubbio che Ralph possa fallire nella sua missione, per cui l'esito della vicenda appare scontato già dalle prime pagine. Anche gli altri personaggi hanno una psicologia poco approfondita e risultano appiattiti su un'unica dimensione: Ursula è l'incarnazione del bene, il signore di Utterbol quella del male, e così via.
La vera originalità dell'opera, quella che ci fa dire che con Morris "tutto è cominciato", è il perfetto assemblaggio di miti, leggende, tradizioni orali, poemi epici e amor cortese in una storia complessa e abbastanza avvincente. Lo scrittore inglese comprese prima di ogni altro il grande potenziale racchiuso in queste storie tramandate da secoli, purché venissero rielaborate in chiave più moderna per adattarsi ai gusti del pubblico. L'apprezzamento dei suoi colleghi conferma la validità dell'intuizione di Morris.
Mi sono approcciato alla lettura del libro con grande entusiasmo, memore delle piacevoli ore trascorse in compagnia di Tolkien. Le mie aspettative sono rimaste parzialmente deluse per le ragioni anzidette. Non sono un esperto di letteratura fantasy, eppure ritengo che la mancanza di elementi quali la magia, il soprannaturale e l'orrido non consenta di ascrivere completamente il libro al genere. Peraltro il volume è ricco di riferimenti al cristianesimo, per cui il mondo inventato da Morris non è poi così diverso dal nostro Medioevo. La fonte ai confini del mondo è un racconto d'avventura, o meglio un romanzo cavalleresco dalle tinte fantastiche, ma non un fantasy a tuttotondo. Se si accetta questa premessa, resta un libro godibile perché narra una storia senza età che sa accendere la fantasia dei lettori.