28 agosto 2021

Percorsi cilentani: la Preta Perciata e il punto panoramico Postiglione

Il percorso “Magliano Nuovo – Postiglione” è uno dei più suggestivi itinerari naturalistici del Parco Nazionale del Cilento. Parte da Magliano Nuovo, frazione di Magliano Vetere, casale arditamente aggrappato a una cresta rocciosa, teatro nel 1863 di uno degli episodi più drammatici della storia locale, ossia lo scontro tra i legittimisti guidati dall'avvocato/brigante Giuseppe Tardio e le truppe unitarie e della Guardia nazionale. Il sentiero termina alle Gole del Calore, altro gioiello naturalistico situato nel territorio comunale di Felitto.

Il percorso è suddiviso in quattro tratti, di lunghezza e difficoltà variabili. Il primo va dal paese di Magliano al passo di Preta Perciata, il secondo arriva fino al punto panoramico detto Postiglione, il terzo giunge al ponte medievale di Magliano e l'ultimo si conclude alle Gole del Calore. Per ragioni di tempo ho potuto percorrere solo i primi due tratti, che presentano alcuni punti di sicuro interesse naturalistico: il valico della Preta Perciata e l'area panoramica del Postiglione.

In cilentano “preta perciata” significa “pietra bucata”, toponimo che potrebbe avere due differenti origini. In primis, il nome deriverebbe dal fatto che il passo è scavato nella roccia e che anticamente si trattava di un breve tunnel, fino all'epoca in cui la copertura di pietra è stata rimossa per favorire la moderna viabilità veicolare. In alternativa, il toponimo potrebbe essere un riferimento dialettale all'adiacente piccola grotta, per l'appunto una “roccia bucata”. La cavità è visitabile ed è possibile sostare su uno spiazzo con area ristoro da cui si gode una splendida vista; il valico infatti separa le valli di due importanti fiumi cilentani, il Calore Salernitano e il nobile Alento (come lo definì Cicerone).
Il passo della Preta Perciata

La grotta
L'area di ristoro adiacente al passo

Dal passo ha inizio la seconda parte del percorso, immerso in una natura rigogliosa e selvaggia. Per i primi duecento metri il sentiero è pavimentato in pietra, poi diventa sterrato. Si arriva quindi a un primo bivio. Svoltando a sinistra si va verso il punto panoramico del Postiglione, mentre a destra si entra in un bosco di castagni e si intraprende il lungo itinerario in discesa che porta al ponte medievale e infine alle Gole del Calore.
Come dicevo, ho optato per il punto panoramico, svoltando a sinistra. Subito dopo il bivio c'è un rifugio in legno, con la porta aperta, che offre ricetto agli escursionisti. Superata la costruzione, il sentiero si restringe e si entra nella macchia. Da questo punto la stradina prosegue sotto l'ombra degli alberi ad alto fusto. Il percorso è abbellito da alcune teste scolpite in pietra ed è segnalato da provvidenziali staccionate, che oltre a offrire un sostegno nei punti più impervi, servono anche a delimitare il sentiero, azzerando il rischio di smarrirsi. Dopo una discesa di mezz'ora circa, si arriva al punto panoramico Postiglione, che conclude questo tratto dell'itinerario. Per chi volesse proseguire verso il ponte medievale, l'unica soluzione è quella di risalire e tornare al bivio. L'area panoramica ha la forma di un vasto emiciclo irregolare sgombro di vegetazione; vi sono alcuni spalti in legno dove è possibile sedersi e riposare. Il panorama che si gode dalla terrazza abbraccia la valle del Calore, le montagne intorno, i crinali boscosi e i centri abitati del Cilento interno. La spettacolare visuale spazia dal cielo al fondovalle, dove scroscia il placido fiume Calore.
Ringrazio Sara Nigro per le fotografie.
Particolare del sentiero verso il punto panoramico
Il punto panoramico Postiglione
Particolare del panorama

18 agosto 2021

"Cal" di Bernard MacLaverty: catarsi d'Irlanda

Il conflitto nordirlandese è tra le pagine della storia del Novecento entrate con maggiore intensità nella memoria collettiva, non solo britannica. Libri, film e canzoni hanno cercato di raccontare una vicenda complessa e dolorosa, mai davvero chiusa, che ha aperto ferite sanguinanti e lasciato una lunga scia di lutti. C'è un termine inglese che racchiude tutto ciò: Troubles. È una parola generica e pregna di un'ironia tipicamente britannica, traducibile come “problemi” o “disordini”; indica in gergo il conflitto combattuto in Ulster tra il 1969 e il 1998. Cattolici da una parte e protestanti dall'altra, repubblicani i primi e lealisti i secondi, i cattolici desiderosi di liberarsi dal giogo inglese e i protestanti unionisti e filo-britannici. È una semplificazione di una realtà ben più complessa, ma rende l'idea.

Bernard MacLaverty, scrittore nato a Belfast nel 1942, è autore di una delle opere più intense e struggenti sui Troubles. Il suo romanzo Cal fu pubblicato nel 1983 e il successo di pubblico e critica fu così immediato che già l'anno successivo fu oggetto di una fortunata riduzione cinematografica con Hellen Mirren. Cal McCrystal, il protagonista del libro, è un diciannovenne cattolico che vive assieme al padre Shamie a Magherafelt, una cittadina dell'Ulster a maggioranza protestante. Cal è un militante dell'IRA, anche se riottoso e poco convinto. È privo di una profonda coscienza politica, né aderisce con abnegazione all'organizzazione. Per lui la militanza, che per la verità si riduce a un paio di azioni con ruoli da comprimario, è la naturale conseguenza del suo essere cattolico in un paese dominato dalla maggioranza protestante. Sebbene agisca di malavoglia e quasi sotto violenza morale, Cal è profondamente immerso nel clima di violenza del suo Paese. Egli è al tempo stesso vittima, carnefice e inane spettatore della tragedia che si consuma quotidianamente sulle strade e nei luoghi di aggregazione dell'Irlanda del Nord. Durante una delle due azioni a cui partecipa in qualità di autista, l'IRA uccide un militante unionista, un riservista della RUC sposato con una donna di origini italiane, Marcella D'Agostino. Il caso vuole che Cal vada a lavorare nella fattoria dove vive Marcella, ignara del fatto che proprio lo schivo diciannovenne ha concorso a renderla vedova.
MacLaverty dimostra una notevole capacità di approfondimento psicologico dei suoi personaggi. Si pensi al rapporto tra Cal e Marcella, che è il tema portante dell'opera. L'operazione letteraria era tutt'altro che semplice: mettere in scena l'amicizia e la passione tra la vittima inconsapevole e il colpevole pentito, senza cadere nel manierismo e nel qualunquismo. L'Autore ha scansato con disinvoltura i rischi, tanto che la vicenda non si discosta mai dai parametri della verosimiglianza, né appare forzata nelle premesse e negli esiti, anche quando l'amicizia tra i due si trasforma in qualcosa di più profondo. Ritengo che la buona riuscita dell'opera risieda proprio nella capacità dello scrittore nordirlandese di scavare nell'animo e nella sensibilità della sua gente, mettendo poi sulla carta quanto maturato in anni di attenta osservazione e indagine psicologica.
Preferisco di gran lunga Cal al più noto e universalmente celebrato Eureka Street. Nel romanzo di McLiam Wilson, il conflitto è raccontato da chi ne è al di fuori e ne è toccato solo in parte, o comunque indirettamente. Il libro di MacLaverty invece è un pugno nello stomaco ancora più forte, perché nelle sue pagine le vicende private dei protagonisti si intrecciano in maniera inestricabile con quelle pubbliche. Il dramma non è lo sfondo davanti al quale si muovono i personaggi, ma il mare entro cui nuotano a fatica, cercando di non annegare.
E ancora, Cal è l'emblematico ritratto di una generazione e di un popolo trattato come se appartenesse a una genia negletta. MacLaverty non fa apertamente polemica sociale e politica, eppure la sua penna indugia sulla situazione di una working class depressa e immiserita, costretta a vivere di sussidi di disoccupazione, che trova nell'alcool e nel fumo le uniche valvole di sfogo. Restano impressi nella mente del lettore gli sforzi che fa il protagonista per uscire da questa situazione, trovando solo nell'amore lo strumento per un'affermazione pulita di sé, al di fuori della contrapposizione politica e religiosa. Cal è una sorta di romanzo di formazione, in cui la resipiscenza e il ravvedimento sono gli strumenti di crescita del protagonista, assieme al tanto desiderato perdono. La catarsi arriva nel drammatico finale, ma ha ancora una volta un aspetto cupo e violento.
Credo che attualmente il romanzo sia fuori catalogo. Io ho acquistato un'edizione della Universale Economica Feltrinelli del 1993, che dovrebbe essere facilmente reperibile nei mercatini dei libri di seconda mano.
Copertina dell'edizione Feltrinelli del 1993

8 agosto 2021

"La casa delle belle addormentate" di Yasunari Kawabata: le mute corrispondenze

Tra tutti i critici, è stato Yukio Mishima a dare la più calzante definizione di questo celebre romanzo di Kawabata, utilizzando appena due parole, che tuttavia racchiudono una ridda di possibili significati. “Capolavoro esoterico”, questo il giudizio di Mishima, riportato nella postfazione delle edizioni italiane Mondadori. La casa delle belle addormentate (1961) è un libro esoterico perché indaga i temi più intimi della poetica di Kawabata, così profondi da rimanere in parte sconosciuti allo stesso autore; esoterico perché non svela apertamente tutto il ventaglio dei possibili significati, li cela ermeticamente o comunque li trasfigura per renderli meno immediati.
L'aura di segretezza permea anche la trama. In una località marina del Giappone c'è una particolare casa di tolleranza, gestita da una donna misteriosa di cui non viene rivelata l'identità. Il postribolo – se davvero così può definirsi – si differenzia per clienti, ragazze e prestazioni da tutti gli altri luoghi del genere. I clienti sono anziani; si tratta di persone di cui «si può star tranquilli», perché oramai hanno perso la virilità e non possono attentare alla verginità delle ragazze. Ho detto appunto ragazze e non prostitute, perché quest'ultimo termine non si addice alle vergini che vengono narcotizzate e devono soltanto dormire nude, senza avvedersi di ciò che accade intorno. Le prestazioni che offre la casa non sono quelle tipiche delle case di piacere: le ragazze non offrono rapporti sessuali, si limitano a dormire accanto ai vecchi clienti, a fare loro compagnia con la sostanza del giovane corpo abbandonato al sonno. Sono le belle addormentate, esseri meravigliosi e pudichi il cui unico compito è dormire sotto l'effetto di potenti sonniferi. Le regole della casa sono ferree: è vietato svegliare le ragazze, vietato compiere atti lascivi, vietato fare scherzi di cattivo gusto ai corpi addormentati e ignari.
Perché ci sono uomini che pagano solo per giacere accanto alle belle addormentate? Il vecchio Eguchi, protagonista della vicenda, tenta senza esito di carpire il segreto della casa e dei suoi misteriosi ospiti. Le risposte sono parziali: alcuni vogliono riassaporare il gusto della perduta giovinezza, altri esorcizzano la morte, altri ancora cercano di combattere l'inevitabile decadimento fisico. Simile è tuttavia l'esito: tutti traggono un piacere misto a malinconia dalla muta compagnia delle belle addormentate. Per Eguchi i soggiorni nella casa sono l'occasione per richiamare alla mente eventi del passato che credeva dimenticati e per indagare il complicato rapporto con le donne della sua vita: la madre, la moglie, le tre figlie, le amanti, la prima fidanzata. Durante le lunghe notti in muta compagnia, la voce del giudizio si fa strada, alimentata dai ricordi; eppure Eguchi non riesce ad essere l'impietoso giudice di se stesso, né sa sbrogliare l'intricata matassa della sua esistenza.
La casa delle belle addormentate è un romanzo erotico – sia pure in un senso peculiare –, che indaga il rapporto tra eros e vecchiaia, vita e morte, bellezza e decadimento fisico. All'interno della casa queste realtà, solitamente antitetiche, subiscono un paradossale rovesciamento dei ruoli. Non a caso, le giovani che dormono hanno le sembianze di una morta, mentre i vecchi ritrovano una inaspettata vitalità. Si tratta di un libro straniante, che può essere letto a più livelli; fermarsi al primo, ossia all'intreccio, non permette di cogliere la mole di significati che l'opera nasconde. In questo romanzo Kawabata ha rimarcato la propria strada di narratore davvero moderno, che rifugge dalla visione arcaica del Giappone dei samurai e al tempo stesso non cede alle sirene imperanti che provengono dall'Occidente. La sua letteratura si pone come un ponte tra due sponde scoscese: da un lato la tradizione di un passato ancora vitale, dall'altro l'ascesa dell'uomo nuovo giapponese, che vive i medesimi tormenti dei suoi contemporanei occidentali. Una breve nota sulla scrittura: essenziale e lirica, indugia sui particolari dei corpi delle ragazze, restituendo al lettore sensazioni visive, tattili e olfattive di rara delicatezza.